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LA TASSAZIONE NUTRIZIONALE TRA DIRITTO AD UNA SANA ALIMENTAZIONE E CRISI DELLE FINANZE PUBBLICHE

2. L’evoluzione della fiscalità nutrizionale e la sua compatibilità costituzionale

I tributi sul consumo di alimenti erano particolarmente diffusi sin dall’epoca antica con l’obiettivo di procacciare entrate per l’Erario5. Tali prelievi colpivano

alimenti spesso di base col precipuo fine, tipico delle imposte, di procurare entrate pubbliche: si pensi ai tributi sul macinato, sul pane, sul sale, sul caffè e sul tè e rappresentarono uno strumento di gettito facilmente applicabile in grado di garantire un’entrata pressoché costante negli anni a causa della rigidità della domanda, poco sensibile alle variazioni di prezzo.

I tributi sui beni alimentari di base, se da un lato rappresentavano una facile entrata per i bilanci pubblici delle nazioni che li applicavano, dall’altro erano invisi alla popolazione, causando addirittura proteste e sommosse come nel caso dei moti del macinato (1868) e del Boston Tea Party (1773)6. Tale forma

di imposizione è stata gradualmente sostituita da tributi su beni alimentari voluttuari o secondari, come nel caso delle accise sull’alcool, pur conservando la finalità primigenia di procurare entrate per l’erario. In tal modo è possibile assoggettare a tassazione consumi talvolta non meritevoli o comunque voluttuari rendendo il prelievo tollerabile dalla comunità, e al contempo in

5 A. URICCHIO, La tassazione sugli alimenti tra capacità contributiva e fini extrafiscali, in Rass. trib., 2013, 6, 1268 ss.

6 Cfr. G. ZIZZO, I tributi sui grassi … ovvero come dimagrire con le imposte, disponibile su www.liuc.it, 10 novembre 2014, 4 ss.

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grado di assicurare un gettito piuttosto significativo e stabile nel tempo.

Negli ultimi anni la funzione della tassazione nutrizionale7 si è radicalmente

modificata passando da strumento necessario a garantire entrate pubbliche a mezzo per influenzare le decisioni di consumo della popolazione al fine di evitare l’adozione di diete poco salutari. L’obiettivo principe di tali tributi, dunque, è quello di contrastare le patologie legate ad una dieta scorretta pur conseguendo una entrata pubblica che alimenta il bilancio statale. Tali tributi, quindi, perseguono un duplice obiettivo: uno fiscale ed uno extra fiscale. Con il primo, il tributo genera un’entrata per il bilancio pubblico correggendo le esternalità negative di cui infra. Con il secondo, si penalizza il consumo di cibi o bevande poco salutari fornendo un segnale di prezzo.

L’utilizzo di tributi con finalità disincentivante sul consumo di prodotti poco salutari consente di dare attuazione ai precetti costituzionali della tutela della salute (art. 32 Cost.). In ambito tributario i prelievi sugli alimenti e bevande, seppur istituiti al fine di utilizzare la leva fiscale per la tutela della salute dell’uomo non possono violare altri principi costituzionali posti a base dell’ordinamento italiano quali il principio della capacità contributiva e della riserva di legge. L’adozione di una fiscalità nutrizionale, tuttavia, parrebbe essere compatibile con il principio di capacità contributiva in quanto i tributi colpiscono fatti-indice che tradizionalmente sono considerati indici di ricchezza. Tali prelievi colpiscono il consumo di cibi grassi o ricchi di sale nonché bevande dolci assoggettando a tassazione un tradizionale indice di forza economica valutabile monetariamente quale il consumo. La fiscalità nutrizionale colpisce un indice rivelatore di capacità contributiva quale il consumo, che consente di misurare la forza economica del contribuente. Nell’accezione tradizionale di capacità contributiva, la stessa è intesa come limite e parametro dell’imposizione che individua nella capacità economica del soggetto passivo la sua attitudine alla contribuzione8.

Assodato il rispetto della fiscalità nutrizionale al principio della capacità contributiva occorre indagare se sia uno strumento ragionevole a giustificare un concorso alle pubbliche spese diseguale tra i contribuenti: imporre ai contribuenti che consumano alimenti poco salutari un prelievo maggiore rispetto al consumo di cibi salutari crea una inevitabile discriminazione e disuguaglianza. Sul punto alcuni autori hanno sostenuto che “(…) i tributi sugli alimenti possono non solo insistere su manifestazioni sicure di capacità contributiva (…) ma possono esprimere anche una sorta di ‘capacità contributiva qualificata’, consistente nel riparto, pur se futuro ed eventuale, di

7 Cfr. A. URICCHIO, La tassazione sugli alimenti tra capacità contributiva e fini extrafiscali,

cit., 1268 ss.

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spesa pubblica (come quella sanitaria)”9. L’adozione di tali tributi assume la

finalità principale di tutelare la salute e contestualmente di scongiurare un aggravio di spese sanitarie consentendo di qualificare la capacità contributiva. In altri termini tali tributi arrecano un sicuro beneficio alle finanze pubbliche da un lato procacciando nuove entrate e dall’altro cercando di influire sulla dinamica della spesa sanitaria al fine di garantire l’equilibrio di bilancio. Altri autori hanno invece rintracciato una natura paracommutativa di tali tributi sicché il contribuente che consuma alimenti poco salutari è chiamato a contribuire maggiormente alle spese pubbliche, tra cui quelle sanitarie. In tale prospettiva il tributo potrebbe rispondere al principio del beneficio (piuttosto che della capacità contributiva) e la disparità di trattamento tra contribuenti sarebbe ragionevole in quanto giustificata dalla maggiore spesa pubblica causata dall’adozione di una dieta poco sana. Tale correlazione tra spesa pubblica e “responsabilità” del contribuente e la relativa giustificazione delle disuguaglianza, tuttavia, viene meno laddove si pensi che il prelievo finisce per gravare anche sui consumatori, spesso sporadici, di tali alimenti ricchi di grassi e zuccheri che, in conseguenza a stili di vita corretti, non sono esposti a rischi per la salute10.

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