Vi è qualcosa di misterioso in quel processo di trasformazione che l’artista opera nella materia (terra), fino a creare qualcosa di nuovo, peculiare, singolare, quasi un mondo dotato di una sua propria vita.55 Alla sua creazione egli si dedica, alternando momenti di inconsapevolezza e di istintività biologica ad altri, attraversati dalla lucida coscienza della forza, ed al tempo stesso,dell' illusorietà del desiderio e del sogno, della finitezza di ogni opera umana.56
Plasmando istintivamente e forse gioiosamente la materia con le mani, accostando i suoni fino ad ottenerne “armonie”, mescolando colori ed emozioni, accarezzando le forme del
55 Martin Heidegger, Holzwege, V. Klostermann, GimbH, Frankfurt am Main 1950 (M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, trad. it. a cura di G. Zaccaria e I. De Gennaro, Marinotti, Milano 2000). Scrive il
filosofo: «Nell’opera dell’arte si è messa in opera la verità dell’ente. Mettere qui significa: condurre nello stare. Nell’opera, un ente, un paio di scarpe contadine (quelle del bellissimo quadro di van Gogh), viene a stare nello staglio del proprio essere. L’essere dell’ente perviene alla stabilità del suo netto mostrarsi» (p. 42). E, contestualmente, alcune pagine prima, così scriveva: «Essa trattiene e fa restare la terra stessa nell’apertura di un mondo» (p. 35), e questo poiché l’arte al tempo stesso rivela e crea. Scrive ancora Heidegger: «Nelle scarpe vibra il richiamo scabro della terra, il maturare silenzioso delle sue messi e il suo impenetrabile negarsi quando essa si mostra nell’incoltezza del campo invernale. In questo attrezzo, respirano l’apprensione, senza lamenti, per la sicurezza del pane, la gioia senza parole, per lo stato di bisogno nuovamente superato, il trepidare nell’imminenza della nascita e il tremare nell’avvolgente minaccia della morte» (p. 39). Molti anni prima, il filosofo aveva scritto in Vas ist Metaphysik, Bonn 1929 (trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987): «L’ “assente” non potrebbe in alcun modo manifestarsi se non trovasse l’occasione di entrare in un mondo».
Cfr. Mikel Dufrenne, Phénoménologie de l’expérience esthétique, Presses Universitaires de France, Paris 1953 (trad. it. a cura di Liliana Magrini, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Lerici editore, Roma 1969), laddove il fenomenologo francese, commentando il pensiero heideggeriano in una prospettiva orientata all’estetica, scrive: «si tratta […] di una metamorfosi che non dipende da condizioni materiali, ma dal fatto che l’oggetto rappresentato é integrato in un nuovo mondo. Heidegger dice che “l’assente non potrebbe in alcun modo manifestarsi se non trovasse l’occasione di entrare in un mondo”, e che soltanto attraverso il trascendersi del Dasein si realizza questa Urgeschichte. Si potrebbe dire che all’oggetto rappresentato accade un’avventura dello stesso genere, e attribuire all’oggetto rappresentato qualcosa di analogo alla trascendenza del Dasein: esprimersi è trascendersi verso un senso, e la luce di questo senso - la qualità dell’atmosfera - fa sorgere un nuovo volto dell’oggetto» (pp. 272-273). […] «Il mondo espresso é come l’anima del mondo rappresentato, che ne sarebbe il corpo; la relazione che li unisce li rende inseparabili, e insieme costituiscono il mondo dell’oggetto estetico, per cui quest’oggetto assume una profondità» (p. 274). Nelle prime pagine del testo, l’autore aveva sottolineato l’orizzonte metafisico dell’arte nella ricerca espressiva dell’artista: «Se l’arte ha un significato metafisico, sia o no prometeico, non è per il volere oscuro e trionfante di chi inventa un mondo?» (p. 17).
56 Cfr. Dhammapada (Libro della Dottrina - antica raccolta di 423 aforismi di autore anonimo che la tradizione sostenne fossero stati pronunciati dallo stesso Buddha) § XX, La Via: «Tutte le cose create periscono, colui che sa e che vede questo, diviene paziente nel dolore; questa è la via che conduce alla purezza. […] Tutte le cose create sono pena e dolore, colui che sa e che vede questo, diviene paziente nel dolore; questa è la via che conduce alla purezza». […] «Tutte le forme sono irreali, colui che sa e che vede questo, diviene paziente nel dolore; questa è la via che conduce alla purezza».
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corpo femminile, e proiettando in esse i suoi desideri inconsci, l’artista crea, o forse, più propriamente, ricrea la forma, riscoprendo, e rinnovando dentro di sé, l’ebbrezza primigenia del modellare il mondo a propria immagine e somiglianza, la Genesi, l’incipit della creazione.
L’uomo è colui che si è espresso attraverso ciò che ha creato, e la cui coscienza emerse attraverso l’affiorare della prima Weltanschaung, nella quale egli mitologicamente si immaginava il mondo come creato da dèi antropomorfi, “ricreando” quello stesso mondo, che era sotto i suoi occhi, nella narrazione della storia delle origini. L’uomo, dalla notte dei tempi, ha creato, trasformando la natura e rappresentandosi il mondo, quel mondo e quella vita che egli iniziò a comprendere poiché iniziò a ricreare, e non solo a riprodurre, nella sua mente e nella sua immaginazione quanto percepiva.
Egli iniziò a comprendere ciò a cui egli diede una nuova vita, una nuova forma, nella propria narrazione fantastica, ciò che egli diede nuovamente alla luce, alla luce della visione ed alla luce della coscienza: fiat lux.57
L’uomo è anche in questo immagine e somiglianza di Dio, come si narra nel primo poema della creazione, Genesi, mirabilmente interpretato da Herder nella Älteste Urkunde.
L’uomo è colui che viene plasmato ad immagine e somiglianza di Dio, è colui che Dio dà alla luce. Quando l’uomo è creato, inizia a vedere tutto il creato, poiché la prima opera divina era stata la luce, quella luce che è anche all’origine di ogni forma di comprensione e di conoscenza del reale: «La luce è la prima cosa: la sua rivelazione in cui tutto può essere visto come ciò che in realtà è: apparizione di Dio».58
La filosofia prima sarà, dunque, una «filosofia dell’intuizione, dell’evidenza, del segno, dell’esperienza» che -come sottolinea von Balthasar- è più importante ed originaria di ogni dimostrazione, la quale, in fondo, si riduce a una sostituzione, sia pur più articolata e complessa, di espressioni verbali in rapporto ad alcuni concetti.59
Scrive ancora Herder: «L’evidenza e la certezza devono trovarsi nelle cose […] nel sentimento profondo, integro e globale delle cose, o altrimenti non stanno da nessuna parte […]. L’anima umana che si svela vede immagini! Sono immagini? Sono cose? È un sogno o una realtà esterna? Ma che cosa significa esterna? Che cosa significa: è una cosa? Esistenza! Presenza! Chi le mostra, chi le insegna, chi le rischiara? La luce! Luce, archetipo della dimostrazione di Dio che tutto svela».60
57 Alain, Cent - un propos, Marcelle Lesage, Paris 1928 (trad. it., Cento e un ragionamenti, a cura di Sergio Solmi, Einaudi, Torino 1960). «Il grande segreto dell’arte, e insieme il più nascosto, è che l’uomo (il vasaio) inventa solo in quanto fa e in quanto vede ciò che fa» (p. 113).
58 Johann Gottfried Herder, Die Älteste Urkunde des Menschengeschelechtes, I,3 (3, 228 s).
59 Hans Urs von Balthasar, Gloria, un’estetica teologica, Jaka Book, Milano 1971, p. 74 (trad. it. di: Herrlichkeit, Schau der Gestalt, Johannes Verlag, Eisiedeln 1961).
60 Johann Gottfried Herder, op. cit. I, 4 (3,239 s). Cfr.Baldine Saint Girons, Fiat lux, une philosophie du sublime, Quai Voltaire, Edima, Paris, 1993, particolarmente l’Introduction ed il capitolo IV Risques de la simplicité - l’énigme du Fiat; Cfr. anche Pierangelo Sequeri, L’estro di Dio, Glossa, 2000: «Di questa bellezza
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E, forse, la metafora più potente della creazione artistica é proprio, accanto a quella sempre evocata della creazione divina, nella Genesi, quella del concepimento, della generazione e del parto dell’uomo: dalla formazione dell’embrione umano, generatosi quasi dal nulla, o dall’infinitamente piccolo, nell’intimità e nell’inconsapevolezza della carne e nel desiderio inconfessabile e segreto dell’amplesso, al suo modellarsi nel nascondimento e nell’oscurità del grembo materno, fino allo stupore, alla meraviglia del suo affiorare alla luce, nel momento della nascita, nel momento di quell’autorivelarsi che è la vita stessa.
Conservazione e trasmutazione della vita nella generazione, e nella generazione umana, riproduzione e trasformazione della realtà nell’arte, nell’affiorare dalle tenebre alla luce.61
In questo processo creativo-artistico, proprio come nell’affascinante formazione dell’embrione, attraverso un infinito combinarsi di elementi, nel gioco delle qualità nitidamente percepibili dai sensi, appaiono come in un sortilegio le forme primigenie ed essenziali della vita, come trasformate, come se fossero ri-sognate nella fantasia, e forse proprio per questo ancor più intensamente espresse.
Questa è al tempo stesso la natura dell’arte ed anche una delle sue ragion d’essere e finalità, ovvero, precisamente, quella di affinare la nostra capacità di cogliere la dimensione fenomenica dell’esistenza, di coglierla in una forma essenziale,62 ovvero nel momento che precede nella nostra coscienza l’emergere del tratto puro materiale, di quello puro strumentale e di quello verbale, i quali, già espressione di un distinto orientamento al sapere o al fare, normalmente ci inducono a presupporre il reale, anziché a coglierlo nella sua intima essenza.
In questo senso, il sentire poetico è primitivo, espressione di quell’intatta percezione mitologica del creato, capace di ricondurci al tempo in cui era veramente possibile sentire e vedere prima di conoscere e capire, o forse solo di illudersi di poter comprendere il mondo nel teatro della mente.63 Lo stupore di fronte all’essere, quello che è all’origine della
lo Spirito disegna i percorsi e plasma i simboli. E celebra le liturgie terrene per la Sapienza danzante del Padre: ebbra di gioia per l’opera dei sei giorni e lieta di abitare il mondo degli uomini» (p. 4).
61 Cfr. Alain, Cento e un ragionamenti, op. cit., p. 5: «È stato il genio di Darwin a vedere tutte le cose e tutti gli esseri intorno ad ogni essere, non più a lui stranieri, ma intimi, in modo che la vita e la forma di un uccello sono anche d’intorno, e il caldo sterpeto è l’elitra dell’insetto, e le acque, l’aria, le messi, le stagioni sono intimamente l’uomo».
62 Mikel Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, op. cit., pp. 60-61: «Attraverso l’affinità di queste diverse espressioni si costituisce l’espressione totale dell’opera, che è il suo senso più alto; e anche questo senso sarà la percezione a darmelo, poiché esso costituisce il volto stesso che il sensibile rivolge verso di me: esiste soltanto attraverso il sensibile, ed in esso il sensibile trova la sua ragione d’essere […] percepito». 63 Krishnamurti scriveva che mentre nel primo momento in cui il bambino si trova di fronte a quell’essere soffice e vivo che è un passero, rimane incantato dal frullio delle sue piume, «Il giorno in cui insegniamo a un bimbo il nome di un uccello, il bimbo non vede più l’uccello». E, tuttavia, scriveva Alain in Les Cent-un
propos (1908-1920) op. cit.: «E il gran poeta (l’usignolo), così noto e famigliare nelle sue preparazioni,
stupisce sempre con lo squarcio sublime, che esiste solo un momento nella voce, e non lascia solco dietro di sé. Anche la primavera non parla che una volta sola; molte volte, è sempre una volta. L’orecchio non è minimamente preparato o assuefatto. Così la cattedrale, svoltando la via, stupisce ogni volta e sempre nella
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domanda fondamentale “perché l’essere piuttosto che il nulla” solleva il velo che avvolge tutte le cose, rivelando l’ultima frontiera della ricerca del senso e della verità dell’essere, quell’orizzonte, solo illusoriamente raggiungibile, il quale invece sembra spostarsi più lontano, man mano che con l’affinarsi degli strumenti logico-conoscitivi cerchiamo di sezionarlo, analizzarlo nei suoi elementi ultimi.
Dopo secoli di riflessione filosofica, l’orizzonte della comprensione dell’Essere continua ad apparire infinitamente lontano poiché forse esso trascende sempre la nostra capacità di comprenderlo. Da sempre, l’Essere, assumendo la forma affascinante e misteriosa dell’autorivelazione, nella trasparenza della propria Selbstauslegung, si offre alla percezione primaria, una percezione che pur essendo di per sé immediatamente evidente, si rivela essere, tuttavia, alla luce della riflessione, al tempo stesso, intrinsecamente aporetica.
Scrive Hans Urs von Balthasar nelle prime pagine di Gloria, che questo desiderio di conoscere con precisione ed esattezza tutte le cose «non riesce che a cogliere un aspetto particolare della realtà per potere nuovamente cogliere la verità del tutto, la verità come proprietà trascendentale dell’essere […]. La nostra parola iniziale si chiama bellezza». E di seguito: «La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto».64
L’originario stupore, che è la prima e fondamentale forma dell’orientamento umano nei confronti dell’essere, è quindi il tratto che rende possibile anche l’esperienza estetica, quello che la induce; e tutto questo in forza di quell’emozione profondissima che la visione dell’essere suscita in noi, una visione che ci incanta.
Nella dimensione estetica, l’emozione di fronte alla bellezza dell’essere è all’origine di quella concentrazione assoluta che opera come uno spostamento di visione sempre sul crinale tra irrealtà, illusione e desiderio di un’esistenza più intensa, sia pure di un genere particolare, desiderio che ci induce a vivere in qualche modo di quelle dimensioni.65
Vi è come un’intima corrispondenza tra quanto è propriamente rappresentato, espresso o anche solo evocato nell’opera, e quanto è suscitato dall’opera dentro di noi. Un’opera d’arte
stessa maniera […] il miracolo dell’usignolo suona come la poesia di Virgilio. La bellezza non è mai conosciuta. Non avevo […] compreso questo potere di cantare fuori di sé, e quasi di scolpire nel silenzio circostante, non avendo incorporato nell’invisibile cantore le tre note di flauto che preludiano, senza un’origine ed un luogo determinabili, assolutamente aeree»
64 Hans Urs von Balthasar, Gloria, un’estetica teologica, op. cit., p. 10.
65 Mikel Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, op. cit. Scrive l’autore, sulle orme di Alain, che il tratto soggettivo e segnatamente quello legato al piacere non può costituire il tratto distintivo dell’esperienza estetica la quale deve piuttosto prendere le mosse dall’attenzione concentrata del soggetto all’oggetto estetico: «Questo ripiegamento su se stesso, sia pur tramite l’oggetto estetico, non è l’elemento essenziale dell’esperienza estetica. Alain lo suggerisce dicendo che il piacere non è un ingrediente necessario di quell’esperienza, e che il bello desta piuttosto il sentimento del sublime. Il sublime sarebbe allora in un’accezione un po’ particolare, il sentimento della nostra alienazione nell’oggetto estetico, il sacrificio della soggettività a qualche cosa verso cui si trascende e che la trascende» (p. 117).
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è grande quando suscita in chi guarda un’intensificazione della capacità di percepire la realtà, e di provare sensazioni e sentimenti.
In virtù di alcune note, colori e forme, espressi con efficacia ed in modo armonico, la totalità dell’opera ci rivela qualcosa di profondo, di significativo della realtà stessa.66
Sotto l’influenza di un’intensa emozione, andiamo oltre quanto propriamente abbiamo di fronte, fin quasi a dimenticarlo: udiamo l’armonia al di sopra dei suoni fisici, cogliamo il fascino del colore e delle forme, vediamo nel quadro non solo quanto é propriamente dipinto, ma un intero mondo, un mondo che ci affascina ed incanta.
Di fronte alla Venere di Milo, come ci racconta Ingarden in un passaggio veramente affascinante,67 la disposizione consueta nei confronti del reale è come sospesa, si crea come un silenzio interiore, all’interno del quale siamo profondamente assorti di fronte allo stagliarsi, al di sopra della irriflessa percezione dello spazio e delle forme in esso contenute, di quel corpo imponente, bellissimo, armonioso: ogni percezione realistica scompare dal nostro orientamento alla figura, ogni ipostasi concettuale è dissolta dalla forza dell’emozione che la mirabile scultura antica, attraversando il tempo e lo spazio, suscita, ancora oggi, in ciascuno di noi.
Occorre contestualmente ricordare come l’emozione sia una delle dimensioni fondamentali e primarie della nostra percezione della vita, non unicamente della nostra inclinazione a coglierne il tratto estetico, ma della capacità stessa di provare stupore di fronte al mondo e di provare trasporto per qualcuno o qualcosa, e quindi anche, come scrisse Tischner, di quell’arte creativa che è l’etica, l’arte di incontrare il mistero della vita dell’altro.
66 Étienne Souriau, La correspondance des arts. Éléments d’esthétique comparée, Flammarion, Paris 1947, p. 250: «Telle est bien cette dernière sorte, cette sorte ultime de vérité dont il s’agit: une vérité intrinsèque, une vérité d’être. Et c’est bien pourquoi l’art est obligé, même en ce qu’il emprunte textuellement et par allusion directe, de la refaire entièrement- et mieux que ne l’ont fait les dieux; puisqu’il est au moins cela de plus que ce qu’avaient fait les dieux: quelque chose qui avoue un peu plus de son secret d’existence; qui dit mieux ce qu’il est, et parce qu’il l’est plus intensément; car c’est cela, cette vérité d’être, cette vérité in essendo».
Mikel Dufrenne sottolinea come l’oggetto estetico sia tale quando rivelativo di una totalità. Scrive l’autore in Fenomenologia dell’esperienza estetica, op. cit., p. 239: «Ma questa bellezza astratta dell’elemento considerato allo stato di elemento non può costituire un oggetto estetico, perché […] l’oggetto estetico implica una totalità; e senza dubbio l’elemento stesso può essere qualificato bello soltanto se vi si può presentire la totalità,nel suono la folla delle sue armoniche, nel colore, come diceva Goethe, l’insieme dello spettro, nella linea, la diversità pura dello spazio che percorre».
67 Roman Ingarden, O poznawaniu dziela literakiego, Ossolineum, Lvov 1937. Di questo testo, l’autore scrisse anche una versione in tedesco, Vom Erkennen des literarischen Kunstwerks, successivamente pubblicata presso Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1968 (§ 24).
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Il coinvolgimento emotivo profondo ed autentico è all’origine di sentimenti gioiosi e dolorosi di fronte alla bellezza di natura, alla profondità di un'opera letteraria, così come, del resto, lo è anche nel rapporto tra esseri umani.68
L’incontro con la bellezza di natura, così come con un’opera d’arte è in un certo senso anche paradigmatico del nostro rapporto con la vita. E tuttavia, queste due dimensioni non sono del tutto assimilabili, poiché, mentre l’esperienza del bello di natura è un’esperienza pura e primigenia, poiché prima ancora di poter riflettere, la bellezza di natura ci coinvolge, ci affascina in un’esperienza elementare ed immediata, sensibile e disinteressata, l’esperienza artistica, invece, pur partendo anch’essa dall’emozione pura, coinvolge di necessità elementi di natura culturale.
Pur prive di un’esistenza propriamente reale, le opere d’arte sono strutturate in modo da dare questa illusione, tanto che noi ci rapportiamo ad esse come se fossero reali.
Una strana quasi realtà caratterizza i personaggi di un dramma, e questa è determinata dal vigore con il quale l’artista ha saputo loro conferire degli elementi descrittivi che rimandano ad un orizzonte interpretativo di significati.
Particolarmente significativa in proposito appare una riflessione di Edith Stein, contenuta nella sua dissertazione dottorale, e dedicata all’analisi del “fenomeno” dell’empatia,69 poiché vi viene scandagliato come frutto quasi immediato dell’emozione primigenia associata alla percezione, l’inclinazione a lasciarsi trasportare oltre l’orizzonte della pura sensazione sensoriale.
A suscitare emozioni e sentimenti non sono infatti unicamente le esperienze immediate e reali, ma anche l’intensità di quel coinvolgimento che spontaneamente si verifica di fronte a qualcosa che evoca con intensità quelle stesse emozioni, in virtù della forza dell’immaginazione.
Secondo Edith Stein, vi sarebbe qualcosa di istintivo anche nell’inclinazione a “trascendere” il piano della pura esperienzialità percettiva, così come, del resto, quello della pura sensibilità, pur essendo queste ultime, naturalmente, all’origine di tutto il processo.70
La filosofa ebrea, infatti, descrisse le emozioni provate come “primitive” per l’altro soggetto, ma come non primitive per me, per il soggetto in prima persona, ovvero come qualcosa che è “lì per me, in lui”. L’emozione espressa in una poesia può essere “lì per me”
68 Karl Philipp Moritz, Über die bildende Nachahmung des Schönen, Braunschweig 1788: «Tutto danno gli dei infiniti, / ai loro prediletti, interamente, / tutte le gioie, quelle infinite, / tutti i dolori, quelli infiniti, interamente». Si consideri anche Goethe che cita Moritz.
69 Edith Stein, Il problema dell’empatia, edizioni Studium, Roma 1985. La giovane pensatrice di origine ebraica, allieva di E. Husserl a Friburgo, discusse la sua tesi di laurea, dal titolo Zum Problem der Einfühlung,