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Studi millenari, investigazioni filosofiche, ricerche esistenziali tramandateci nei secoli, non sono pervenuti, poiché al di là delle forze umane, alla ‘risoluzione’ dello scandalo della presenza del male nel mondo.

Come spiegar, d’altro canto, una dimensione così connaturata alla nostra esistenza da essere impensabile separatamente da quest’ultima, e viceversa.

E, tuttavia, la sua presenza sconvolge ogni sogno di perfezione o di immortalità, avvelena l’istante presente, annichila ogni speranza sul futuro, mette in causa il senso stesso del nostro vivere nel mondo, vanifica dall’interno molte questioni che non possono che essere considerate come prive di significato alla luce della coscienza della potenza distruttrice del dolore e del male.

Affascinante e conturbante seduzione, quella di molte forme di cui si ammanta per entrare nel cuore dell’uomo, per sradicarne valori e coscienza morale, e forse coscienza tout

court, il male, profondamente radicato nella natura umana, nei suoi bisogni ed istinti più

costitutivi, nelle aspirazioni apparentemente più sacre, sembra essere coincidente con la struttura stessa dell’esistenza dell’uomo, e, conseguentemente, con la trama stessa del mondo.

In nome di quali valori, potranno essere fissati dei confini alla realizzazione di bisogni naturali; quali azioni dovranno essere considerate come intrinsecamente malvagie e quale ruolo possa essere effettivamente svolto dalla coscienza, dalla ‘decisionalità’ della coscienza in presenza della profonda seduzione esercitata dal male, sotto l’influsso del fascino del male? Quali sono gli orizzonti di un’esistenza umana che oscilla tra male e non vita?

È quest’ultimo, ‘il dilemma’ - o forse il falso, l’apparente dilemma, poiché il male è anche un’anticipazione, in mille forme diverse, di quella non vita, costantemente presente in tutta la storia dell’umanità - espresso in forma lapidaria, sublime, nell’Amleto di Shakespeare,136 che sembra non trovare soluzione alcuna.

affirme la conscience. Car la seule conscience que nous ayons est celle de l’homme. Le monde est pour la conscience. Ou plutôt, ce pour, cette notion de finalité, sentiment plutôt que notion, ce sentiment téléologique ne naît que là où il y a conscience. Conscience et finalité sont au fond la même chose».

136 William Shakespeare, The Complete Works of William Shakespeare, Oxford University Press, Hamlet, act III, scene I: «To be, or not to be: that is the question: Whether ’tis nobler in the mind to suffer The slings and arrows of outrageous fortune, Or to take arms against a sea of troubles, And by opposing end them? To die; to sleep; No more; and by a sleep to say we end The heart-ache and the thousand natural shocks That flesh is heir to,’tis consummation Devoutly to be wish’d. To die, to sleep; To sleep: perchance to dream: ay, there’s the rub; For in that sleep of death what dreams may come When we have shuffled off this mortal coil, Must give us a pause ».

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Da qualsiasi prospettiva, ci si accosti alla natura, alla natura umana, apparirà non solo estremamente ardua, ma quasi impossibile la distinzione tra quanto è istintivo, naturale, vitale e quanto pur essendo istintivo, naturale, si profila come contrario ai valori etici.

Un viluppo inestricabile sembra avvolgere e confondere le linee, i confini tra l’istintivo e quanto è contro i valori della morale, eppure quest’ultimi sono anch’essi avvertibili ed avvertiti come in qualche modo connaturati alla natura umana, tanto da farci riconoscere come il desiderio di bene costituisca uno dei desideri più radicati nell’animo umano : che cosa consentirebbe, allora, in sede di studi filosofici e morali, di definire il confine tra giusto ed ingiusto, moralmente buono, moralmente cattivo?

L’intenzionalità della coscienza, l’orientamento interiore? Gli atti, le azioni nella vita e nella storia ed i loro effetti? Sarebbero quest’ultimi, coscienza ed atti coscienti, i criteri guida per discriminare l’orizzonte della dimensione morale dall’immoralità, fosse pur istintiva, incosciente, impulsiva.

Se quest’ultimi sono, incontrovertibilmente, i due elementi fondamentali dello storico definirsi dell’orizzonte della riflessione del pensiero filosofico-morale, e più volte si sia sottolineata la necessità che siano presenti entrambi, che vi sia la loro complementarietà, la loro necessaria compresenza, affinché possa darsi dimensione morale, la questione appare, ed è, enormemente più complessa.

La metafora biologica dell’embrione umano sembra essere una delle più emblematiche ad intendere l’intrinseca ‘incongruenza’ di natura e coscienza morale ed al tempo stesso la loro mirabile, misteriosa origine comune: la vita è intuitivamente un valore, intrinsecamente un valore, un valore immensamente prezioso, ancor prima che compaia la coscienza, anche quando la coscienza è smarrita o persa per sempre, ed in forma irreversibile : che cos’è quest’essenza dell’umano, che antropologicamente si distingue da tutte le altre forme viventi, la cui natura si erge così al di là delle proprie forze, ed al di là del mondo delle cose che si toccano e che si vedono?

Tischner risponde, con una risposta consapevolmente ingenua, che essa è un valore, che la dimensione del valore la costituisca dall’interno, e che non solo le conferisca un valore, ma che ne sarebbe l’essenza: vivere sarebbe, essenzialmente, espressione di questo desiderio di bene, di un bene fisiologico, esistenziale, e di un bene più grande di quanto vediamo e tocchiamo.

È una risposta affascinante, e tuttavia essa rimane inintelligibile per molti.

Per molti esseri umani, ed in molte concezioni, a sovrapporsi alla natura con i suoi impulsi primari, ineludibili, sarebbe una dimensione morale che alla natura continuerebbe a contrapporsi, rappresentando certamente un fattore di evoluzione della civiltà, ma per così dire continuando a costituire una natura seconda dell’uomo, che, alla vera natura dell’uomo si contrapporrebbe ed alla quale essa cercherebbe di dettar legge.

Questa fu naturalmente, la posizione di molte correnti del pensiero filosofico, di molti pensatori, e, nel XX secolo, paradigmatiche appaiono, tra molte altre che non è qui possibile

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ricordare, le concezioni, troppo significative e presenti nella mente di tutti per essere menzionate, la psicoanalisi freudiana, e la ‘genealogia della morale’ nietzschiana.

La visione giudaico-cristiana ha da sempre sottolineato la fragilità dell’uomo, il suo essere esposto, e conseguentemente, il suo essere ‘incline’ al peccato e al male, e ne ha anche prospettato una salvezza, una redenzione, che per così dire, in forma misteriosa e quasi incomprensibile per i non credenti, nascerebbero dal cuore stesso di questa fragilità.

Ma, ancora una volta, il discernimento di ciò che è un bene da ciò che è un male, è di interpretazione assai controversa, fatti salvi, naturalmente, l’ingiustizia, l’immoralità che ferisce l’altro, l’immoralità di atti universalmente considerati gravemente immorali in quanto lesivi della dignità, della libertà, della vita dell’altro uomo, quali l’omicidio, l’incesto, che fin dall’antichità vennero riconosciuti e considerati come atti da punirsi con la massima severità.

Un’intuizione di Jankélévitch appare illuminante in proposito: egli parla dell’amore come un affetto che deve coinvolgere il soggetto fino all’ultimo respiro, fino all’ultima goccia di sangue.

L’atto morale sarebbe dunque, all’interno di questa concezione, dotato di una sua intima, costitutiva passionalità, esso sarebbe coinvolgimento, condivisione ed essenzialmente amore.

Agli antipodi di questa visione dell’atto morale come espressione ‘sublimata’, ed elevata a norma del vivere umano, dell’amore, potremmo collocare la visione di Levinas, ebreo come lui, e suo contemporaneo, il quale coglierebbe nella Torah, nell’obbedienza alla legge, nel fare ciò che si deve fare, prima ancora di aver tutto compreso, prima ancora di provare sentimenti ed anche in assenza di questi ultimi, la vera morale.137

Il dovere, l’obbedienza, secondo la antica concezione ortodossa del giudaismo, restituirebbero l’uomo alla sua realtà di creatura ferita, ed in questa obbedienza, in questa profonda accettazione della propria condizione, si celerebbe la vera saggezza, la docta

ignorantia, e forse la salvezza, poiché, in questa visione, come avrebbe scritto, molti secoli

più tardi rispetto al sorgere della visione biblica del comandamento, ma con questa visione in intima, se non ortodossa, sintonia, Dostoevskij : «non si è grandi che nell’umiltà».

Un passo ulteriore fu compiuto da Kierkegaard che mise in luce il carattere intrinsecamente conflittuale di questa obbedienza, di questa fedeltà: «Se il dovere verso Dio è assoluto, il momento etico è ridotto a qualcosa di relativo…Dio è colui che esige amore

137 Emmanuel Levinas, in Quattro letture talmudiche, Il melangolo, Genova 1982, pp. 67-97, fece una lettura appassionata del passo biblico in Esodo, 19:1-16: «Tutto il popolo, insieme, rispose dicendo: Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo». Egli avvertì come questo passo fosse fortemente in linea con l’assunto fondamentale del proprio pensiero filosofico che ad istruire la ricerca stessa della verità sia un incontro. Questo passo, cruciale, fu molto studiato ed interpretato, nel corso dei secoli, da tutta la tradizione rabbinica come emerge anche dalla lettura del Talmud, nonché nell’analisi di molti altri studiosi, anche contemporanei.

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assoluto… Il dovere assoluto può condurre a fare ciò che l’etica proibirebbe, ma non può in nessun caso portare il cavaliere della fede a smettere di amare».138

I valori morali, come possiamo intenderli, come cercare di definirli? Espressione della natura, della natura passionale dell’uomo e sussunti tutti nel comandamento sui generis dell’amore, o obbedienza ad un comandamento, ad un comandamento divino, a voler sottolineare il rapporto stretto che ha legato nella storia del pensiero filosofico, religione e morale, e pensiamo al testamento spirituale di Socrate, così come esso ci è stato tramandato nell’apologia: obbedienza allo θέος, compimento di un alto dovere umano, resa di una testimonianza morale, distacco dai sentimenti e dalle emozioni, umane troppo umane?

Ancora una volta, nella ricerca filosofico-morale, emerge questa questione, la questione che costituì l’ultima grande e vera preoccupazione di R. Ingarden e che rimase, nel suo pensiero, del tutto inadempiuta.

L’enorme difficoltà di definire i valori, e segnatamente, i valori morali, i più profondi e complessi dei valori: ancor più degli stessi valori estetici, essi si presentano come non oggetti, non immediatamente percepibili come i sentimenti, affezioni dell’animo, né, peraltro, riducibili a idee, concetti, sospesi tra natura e cultura.

L’altra questione, strettamente connessa alla prima, concerne l’investigazione su quale sia il rapporto che leghi l’uomo ad essi, se essi vadano intesi come una ‘semplice’ proiezione dei suoi desideri più intimi e profondi, se essi vadano intesi come questioni fondamentali al sorgere delle istituzioni giuridiche e politiche, in altri termini come necessità al vivere associato, etc. Anche questa questione si rivela essere, in se stessa complessa, di difficile soluzione ed aperta al sorgere di diverse interpretazioni, pur prendendo le mosse dalla considerazione, ampiamente condivisa in sede di studi morali, che occorra riconoscere il ruolo fondamentale che i valori morali svolgono nella vita dell’uomo. Come di altre dimensioni della psiche umana, quali ad esempio l’intuizione, le creatività estetica, di esse non si può veramente dare una definizione ‘more geometrico’, poiché a conferire ad essi il loro stesso senso ultimo sarebbero -almeno secondo alcune interpretazioni- imponderabili, inconoscibili, e quasi impercettibili orientamenti interiori: morale sarebbe propriamente solo l’atto dettato dall’amore, disinteressato, espressione di una purezza di cuore.139

Secondo questa lettura, non basterebbero i fatti, gli atti morali, né, naturalmente, le mere intenzioni. Azioni morali con effetti obiettivamente positivi, potrebbero essere dettate da motivazioni intime, imperscrutabili, di altra natura da quella morale e quindi esser, per così

138 Søren Kierkegaard, Timore e Tremore, in Opere a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972. Cfr. Romano Guardini, Pensatori religiosi, Morcelliana, Brescia 1977; e Bruno Forte, La porta della bellezza; per

un’estetica teologica, Morcelliana, Brescia 1999. Scrive l’autore: «L’etica stessa non basta. Essa non apre

ancora all’assoluto e perciò non libera veramente dalla solitudine dell’io, che ambisce alla ripetizione di sé. È quanto rivela la storia di Abramo, il ‘cavaliere della fede’».

139 Unita ad una libertà di coscienza appare la conditio sine qua non dell’agire morale, ed una pienezza di facoltà di giudizio, di discernimento.

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dire, vanificate dall’interno, al loro stesso insorgere ed ancor prima di manifestarsi; e del tutto conseguentemente, buone, ottime intenzioni che rimanessero sempre allo stato potenziale non conseguirebbero la vera dimensione morale, la quale ultima chiede piuttosto un vero radicarsi nell’esistenza dell’uomo concreto e reale e della sua storia.

Una traccia di ricerca, in tal senso, potrebbe esser costituita dall’investigazione sull’origine della coscienza che, di essi, ha, dentro di sé, ed in fondo abbastanza chiara, l’uomo. Per quale via, dunque, si sarebbero formati, costituiti i valori morali, per quale via essi si formerebbero, si costituirebbero nell’essere umano?

Forse, la risposta a questa questione, almeno intuitivamente, potrebbe essere che essi sorgerebbero attraverso un metabolismo degli affetti, dei sentimenti più forti, trasformandosi in seguito e radicandosi a riflessioni, riconoscimenti di più ampio respiro.

Intuitivamente, si potrebbe essere indotti a credere che, all’origine di questo avvertimento del valore della vita, vi sarebbe l’amore, l’amor proprio, naturalmente, ma anche l’amore ‘istintivo’ verso l’altro, dimensione, quest’ultima, che presiederebbe al sorgere nell’uomo del rispetto verso l’altro, il desiderare il suo bene, il desiderio di vivere in una comunità umana, secondo una prospettiva rousseuiana, fiduciosa nel tratto sociale della natura umana. All’amore, sarebbe da ascrivere, anche, il formarsi di quel primo nucleo di predisposizione al riconoscimento dei valori morali, che, solo l’emergere della coscienza e della volontà può radicare, ancorare all’orizzonte dell’agire morale e responsabile nel mondo.

Ultimo baluardo della coscienza, nei momenti drammatici della storia fu proprio questa fedeltà ai valori, e, primo fra tutti, il rispetto e la difesa della vita umana, della sua dignità, dei suoi diritti.

Un ulteriore elemento di riflessione deve essere costituito dal rapporto armonico tra i valori. Il radicamento all’umano, al valore della vita dell’essere umano, al bene dell’uomo deve essere sempre tenuto presente come elemento fondamentale della dimensione morale ; smarrendo l’attenzione all’uomo, ogni morale diviene fanatismo, fariseismo, ideologia foriera proprio di quei rischi e di quei pericoli che pretenderebbe di voler combattere e sradicare nel cuore dell’uomo e nell’effettualità storica e politica della storia.

Ed il rapporto tra valori ed ideologie politiche e sociali, valori che attraversano i secoli come universalmente riconosciuti quali elementi primari del vivere associato e della civiltà, appare anch’esso controverso proprio perché l’erigere a valore assoluto un valore sugli altri può essere riconosciuta come una delle origini di quel totalitarismo del quale le fondamentali analisi della Arendt ci restituiscono bene il clima ‘ideale’, morale e culturale, quel clima ideale non unicamente improntato alla smania di potere, e che è responsabile fin dall’origine del totalitarismo stesso.

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