male
La presenza sconvolgente del dolore nella vita, la pervasività stessa del male nel mondo, l’abisso dei doppi pensieri nelle più riposte profondità della coscienza umana, l’inesorabile, costitutiva mortalità dell’uomo e di tutto quanto è vivo sul pianeta, la lucida coscienza, infine, che di tutto questo ha l’uomo, incrinano ogni desiderio di armonia, frantumano, per sempre, ogni sogno di perfezione esistenziale ed in qualche modo anche, per conseguenza, ogni desiderio di perfezione estetica e formale, oltre che di compiutezza ed esaustività della dimensione conoscitiva e razionale.
«Nihil sub sole novi» recita un antico testo, il Qoèlet,126 testo coraggioso ed incisivo, sempre considerato canonico, ma al tempo stesso sconcertante, letto ed interpretato non senza controversie, di cui si discusse a lungo in ambito rabbinico.127
Nulla di quanto l’uomo spera, sogna, fa, sembrerebbe avere un futuro e forse neppure una qualche consistenza nel presente. È da riguardarsi come un fumo l’esistenza umana stessa: passato, presente e futuro non sono che illusorie dimensioni di un ‘eterno’ ritornare delle realtà, di ogni dimensione, senza alcun senso, né direzione, né rinnovamento, né finalità alcuna.
Anche la ricerca della sapienza è vana, scoperta di questo infinito vuoto128 - quantunque forse così non sia, nella speranza inespressa di Qoèlet : il desiderio di tendere a Dio.
126 Qoèlet, testo biblico apparso nel 300-250 a.C. Di questo testo dell’Antico Testamento fu ritrovata una copia molto antica nei rotoli, in una delle grotte di Qumran, nei pressi di quel ‘monastero’ della comunità degli Esseni, del Mar Morto, dove si pensa sia stata nascosta e conservata forse la biblioteca di Israele e non unicamente quella della comunità essena, poiché si temeva la distruzione di Gerusalemme, la diaspora. La figura di Qoèlet rimase misteriosa nei secoli: intellettuale, che non senza ironia si presenta come il re Salomone, che parlerebbe ad una più virtuale che reale assemblea, conservatore, sadduceo, fiero nemico degli spiritualisti.
127 Questo testo, contenuto nella Bibbia ebraica, fu forse tutto attraversato dal ripensamento di spunti riflessivi che avevano permeato la visione orientale antica e che trovano qualche punto di convergenza con l’antico poema egiziano Dialogo del disperato, con i Canti dell’Arpista, e con l’Epopea di Gilgamesh, o dalle inquietudini della riflessione filosofica greca tardo antica, cinica, stoica, epicurea. Tuttavia, alcuni studiosi, come Gianfranco Ravasi, considerano questi influssi non dimostrabili ed in ogni caso non decisivi.
128 In molti passaggi, Qoèlet sottolinea come questa stessa ricerca, questo cercar di capire sia vano, sia come una fame di vento, di quel vento che è simbolo del havel/hevel havalim (stessa radice del nome Abele, nel cui nome sembrerebbe quasi prefigurarsi un destino, quello di non vivere che il tempo di un battito d’ali). Ravasi, in un passaggio che sottolinea modernità e valore della traduzione di Guido Ceronetti del vanitas
vanitatum della Vulgata con «Tutto è un infinito nulla» scrive: «È questa forse la traduzione più moderna:
tutto è vuoto, nel senso metafisico del termine, tutto è, potremmo anche dire, assurdo» Gianfranco Ravasi,
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E che dire dell’esperienza del dolore, la radicale esperienza del dolore e con essa di quella assoluta solitudine, di quella lancinante inesprimibilità, di quella profonda ingiustizia che sempre ad essa si accompagnano, quell’esperienza tante volte testimoniata, raccontata nella storia, oggetto della riflessione filosofica e della meditazione morale, e che ha trovato in un’altra figura biblica, anch’essa controversa, come l’opera cui dà il nome, Giobbe, una sua figura emblematica e significativa?
Che cosa potrebbero mai insegnare, sempre che questo termine conservi un significato ed un valore, quando ci si spinga fino in fondo in questa ricerca, se non la vanità di ogni sforzo umano sulla terra, ivi compresi gli sforzi volti a cercare di comprendere tutto questo, o, come si dice comunemente, forse non senza un’implicita ironia, a ‘farsene una ragione’?
Sono questioni centrali in ogni riflessione filosofica, sono questioni originarie dello stesso riflettere, pensare, fare filosofia.129
Una filosofia che non risponda all’urlo di dolore, al bisogno di giustizia dell’uomo che soffre è vicina al tradimento, scriveva Tischner, ma quale spiegazione, quale risposta, quale consolazione potrà mai esser trovata, data a se stessi e ad altri, della profondità e della radicalità della presenza del male nel mondo, presenza ed esperienza incontrovertibili nella vita di ogni essere umano?
Esprimerla, forse: questa sconvolgente, rivoltante esperienza, appunto come fece Giobbe; cercare di trovare una risposta, forse; cercare di consolare se stessi e gli altri del fatto che dobbiamo tutti morire, delle violenze, delle ingiustizie nel mondo. Questo, forse, è possibile; ed è certo considerato, dal punto di vista dell’analisi antropologica e dell’analisi psicologica e psicoanalitica dell’animo umano, bisogno primario e profondamente radicato. Ma per qual via - sempre che questa via esista - cercare di rispondere, dal momento che si rivela per l’uomo del tutto impossibile sottrarsi a quel circolo di nascite e di morti, di dissoluzione, perenne trasformazione, trasmutazione del tutto, all’interno del quale l’essere umano, ancorché dotato di una sua individualità, sembra perdersi nel nulla?
Feurbach diceva esser una lacrima versata nel più profondo del cuore umano, ogni anelito religioso; così, mutatis mutandis, parrebbe emergere anche da alcune riflessioni laiche che si possono trarre sugli interventi d’aiuto degli amici religiosi di Giobbe, tanto animati da buone intenzioni e da discorsi edificanti quanto irrilevanti di fronte al male, incapaci di portare qualche conforto, e se fosse possibile, persino dannosi, perché incapaci di recepire e di prender sul serio l’esperienza esistenziale del dolore nella vita dell’uomo.
E la bellezza, la bellezza sognante e consolatrice, sarebbe anch’essa espressione di questo struggimento, di questa nostalgia per una perfezione solo immaginata, nel mito delle origini,
129 Sono questioni fondamentali in ogni riflessione filosofica e dello stesso riflettere, tanto che, per ricordare solo un momento del prepotente manifestarsi di questa centralità - in relazione ad un’esperienza tragica della nostra storia contemporanea, i crimini nazisti -, i filosofi di Francoforte, Hannah Arendt e molti altri, videro lucidamente come non si potesse più pensare, scrivere filosofia, come si era fatto prima di questi avvenimenti.
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come costitutiva della natura umana, suo terminus ad quem, sua destinazione intima ed ultima; sarebbe anch’essa illusorio tentativo di ricostituire una bellezza, bontà, perfezione originarie, in realtà mai esistite, e pertanto immaginabili solo in un mitico passato o in un altrettanto mitico ed astorico futuro, desiderio illusorio di fermare nel suo astante splendore giovinezza del corpo e dello spirito?
Quella ricerca di armonia d’Orfeo che incanta il ferino, l’istintività compulsiva che è nell’uomo, che trae dall’animo le più misteriose e riposte profondità, e che le esprime con un’intensità ed un ardore che paiono sfiorare la perfezione, abbracciare l’universo intero, intendiamo quel dono degli dei che è la profondità e l’intensità della composizione musicale, non potrà strappare alla morte la creatura mortale, né allungarne di un’ora l’esistenza, solo, forse, intensificarne percezione del vivere, e forse, con quest’ultimo, anche del morire, quel guardarne l’amato volto, da parte d’Orfeo, tutto sospeso tra vita e morte.
E tuttavia, passando nel fuoco incandescente e purificatore delle controversie, del dolore, della sofferta coscienza della finitudine, l’angosciosa ricerca della salvezza purifica l’inesausta tensione dell’uomo verso la bellezza, promessa di felicità, dolcezza consolatrice e salvifica, spalanca una porta che si apre sulla voragine del nulla, ma, al tempo stesso, apre un varco al riconoscimento del vero volto dell’uomo.130
Nel momento più oscuro del dolore e dell’angoscia, si avverte con più acuta tragicità quanto radicato sia dentro di noi il desiderio della salvezza; ed il tratto affascinante e misterioso della bellezza torna alla mente come prefigurazione del desiderio del bene, quasi in contrasto con l’esperienza incontrovertibile e radicale della mancanza di qualche cosa che pure desidero ardentemente e sogno.
Alla vista, all’animo dell’uomo che si spinge oltre ogni certezza ed ogni vana chimera, con il solo ausilio di quella traccia mnestica della fiaccola luminosa e rivelatrice del desiderio, appare il deserto del mondo, nella lancinante percezione di un’assenza, e tuttavia questo sogno non muore, né si spegne l’inestinguibile, ardente, desiderio del bene, della bellezza, di quella irrealizzabile compiutezza, la cui sola evocazione suscita felicità.
L’esperienza esistenziale complessiva ne risulta intensificata, approfondita, e quello stesso grido disperato può trasformarsi nella ricerca d’aiuto rivolta al fratello e nell’invocazione verso un dio, assente, presente.131
130 Scrive Catherine Chalier, in riferimento al pensiero di Levinas, in La trace de l’Infini, Les Éditions du Cerf, Paris 2002, pp. 112-113: « […] en constatant que le discours philosophique reste tragiquement impuissant à répondre de la dépravation humaine qui transforme si souvent l’histoire, privée et collective, en douleur inexorable, il se demande aussi d’où vient la certitude, rebelle aux preuves rationnelles, que cette dépravation ne saurait effacer la vocation humaine à la responsabilité ».
131 Georg Büchner, Woyzeck, a cura di Hermann Dorowin, trad. di Claudio Magris, Marsilio, Venezia 1988. Marie mormora, battendosi il petto: «Ah, la morte dappertutto, solo la morte, tutto è morte…Gesù salvatore, se potessi ungere i tuoi piedi benedetti…» (p. 97). Si vedano, anche, le parole di Käte, nel bellissimo racconto di Heinrich Böll, E non disse nemmeno una parola, Meridiani, Mondadori. «Dio solo parve rimanere con me in quel malessere che mi sommergeva il cuore, mi riempiva le vene, circolava dentro di me. Sentivo un sudore
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Attraverso il dolore, l’esperienza sofferta del male, il desiderio della bellezza e del bene risorge più puro, con un bisogno interiore di portare conforto, di prefigurare una ricerca di salvezza per sé, per la propria esistenza che si avverte perduta; una ricerca di salvezza e di verità che forse si compie anche per gli altri, che si avvertono ugualmente in pericolo di vacillare sul nulla, forse per le generazioni future, per l’umanità intera.
Scrive Dostoevskij ne L’Idiota: «È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza? Quale bellezza salverà il mondo?».132
Si potrebbe, forse, tentare di rispondere a questa questione con queste parole: solo quella bellezza che ha attraversato il deserto e il dolore del mondo, quella bellezza che si è ‘trasfigurata’ in bontà, quella bellezza che si è ‘trasformata’ in bontà.
Oltre la affascinante, ma mitologica visione greca della bellezza, somma armonia, scaglia di luce dell’universo,133 frammento nella cui perfezione può essere contenuta in essenza la complessità del cosmo, si dispiega un’umanità fragile e dolente.
Ricondurre il sogno dell’aurea armonia al vero volto dell’uomo significa anche sottolinearne l’iniziativa, che, pur nella sua imperfezione, implica sempre il prodigio dell’intenzione, della ricerca del senso, del gesto, della voce, della parola.
Il fascino del vero che nella sua imperfezione porta dentro di sé il mistero dell’incompiuto perché ancora vivo, palpitante, rivela la sete interiore di una bellezza che dopo aver attraversato il male ed il dolore, oltre quest’ultimi, sogna ancora, spera ancora.
L’uomo, la cui intima felicità è, forse, sentirsi in armonia con l’universo, docile fibra dell’universo,134 è bello nella trasparenza di quello sguardo creaturale che dice che l’uomo è per l’Eterno.
Miguel de Unamuno sottolinea con forza quanto l’uomo individuale e concreto, hic et
nunc, sia il vero soggetto di ogni ricerca di armonia e di significazione, espressione
compiuta in se stessa di ogni forma di universalità.135
freddo e un’angoscia mortale come il mio stesso sangue. Sentivo un sudore freddo e un’angoscia mortale» (p. 447).
132 Fëdor Dostoevskij, L’Idiota, in Opere, Sansoni, Firenze 1993. Cfr. Vladimir Sergeevic Solov’ev, Dostoevskij, La casa di Matriona, Milano 1981. Cfr. Nikolaj A. Berdjaev, La rivelazione dell’uomo nell’opera di Dostoevskij in Un artista del pensiero. Saggi su Dostoevskij, a cura di G. Gigante, Cronopio, Napoli 1992.
Cfr. Romano Guardini, Il mondo religioso di Dostoevskij, Morcelliana, Brescia 1995. L’autore dedica pagine bellissime a tratteggiare la figura di Myškin, icona di Gesù.
133 Si citano, in questo contesto, tra i moltissimi riferimenti ed interpretazioni possibili del culto greco di una perfezione distaccata, i versi della poetessa e scrittrice statunitense Hilda Doolittle, tratti dal componimento ‘Elena’: «La Grecia guarda impassibile, / figlia di Dio, nata d’amore, / La fresca bellezza dei piedi / E le ginocchia sottili, / Potrebbe invero amare la fanciulla / soltanto se deposta, / Cenere bianca, tra funebri cipressi».
134 Cfr. Giuseppe Ungaretti, I fiumi in L’Allegria, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, Mondadori.
135 Miguel de Unamuno, Le sentiment tragique de la vie, Gallimard, Paris 1912, cap I: « Tous les définisseurs de l’objectivisme ne voient pas, ou pour mieux dire ne veulent pas voir, qu’en affirmant son moi, sa conscience personnelle, l’homme affirme l’homme. L’homme concret et réel affirme le véritable humanisme - qui n’est pas celui des attributs de l’homme, mais celui de l’homme - et en affirmant l’homme,
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