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Prima di introdurci nel mondo meraviglioso delle Farfalle, descritto nelle liriche di Gozzano, rivolgiamo brevemente la nostra attenzione su alcuni aspetti della sua opera fin qui studiata, soffermandoci sulla foltissima bibliografia su di lui, su testi che riteniamo indispensabili alla conoscenza critica del poeta. Senza tralasciare importanti criteri di giudizio letti nei vari saggi, ci adopereremo qui, con attento studio e analisi delle opere del nostro poeta, per esprimere anche, possibilmente, giudizi personali.

Dalla pubblicazione del suo primo libro sono passati, fino a oggi, centonove anni; durante questi anni la critica si è occupata di Gozzano in due modi fondamentali: il modo a carattere storico, con interventi, spesso contemporanei alle varie pubblicazioni, e il modo specialistico che si prefigge di precisare cause, affinità elettive, linguaggio, echi culturali entro l'opera dello scrittore. Tenteremo quindi di esemplificare sufficientemente queste due fasi della critica intorno a Gozzano.

Nell’introduzione alle Poesie di Gozzano Bàrberi Squarotti asserisce:

c'è, in Gozzano, presente sempre una duplice posizione nei confronti della durata della poesia e del rapporto della poesia con il mondo borghese: da un lato, la dichiarazione di impossibilità e di morte; dall'altro, l'ironica (e un poco masochista) rappresentazione dell'unico e degradatissimo modo in cui si può tentare la poesia nel contesto sociale borghese. Il rapporto (strettissimo) di Gozzano con D'Annunzio, che è uno dei temi costanti della critica gozzaniana (e che ha avuto i più acuti indagatori in Sanguineti e in Guglielminetti), si chiarisce proprio nell'opposta risposta che essi danno alla coscienza dell'impossibilità della poesia nel mondo borghese; per D'Annunzio, la contrapposizione della propria eccezionalità solitaria alla banalità e alla volgarità borghese; dalla parte di Gozzano, invece, il senso dell'illusorietà, quindi dell'improponibilità di tale prosopopea, donde l'ironia e la parodia come le figure entro cui le citazioni si sistemano all'interno del discorso gozzaniano, capaci di misurare lo stacco ormai incolmabile fra il sublime dannunziano e la condizione degradata delle situazioni e delle cose nel mondo contemporaneo, dominato dall'economicità borghese. Ma si badi bene: Gozzano non condivide affatto la perdita di aureola a cui la società condanna il poeta, non intende

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affatto collaborare al compatimento e al rifiuto della grande poesia da parte del mondo borghese, non assume, cioè, il punto di vista limitativo e negativo nei confronti dell'arte, inutile o anche pericolosa per l'ordine e la norma della vita; ma non si fa illusioni sulla possibilità di far durare la bellezza coltivandola nella solitudine della torre d'avorio dell'artista, come se fosse sufficiente tale rifugio a conservarla incontaminata o, comunque, a permetterle di vivere e di resistere1.

Gozzano, poeta tenue e delicato, si regola sempre con un senso cauto e concretissimo nella scelta dei motivi. Se talvolta egli pecca, è in qualche modo nel volere ostentare la naturalezza con la quale il fantasma poetico e l'immagine s'incontrano, e cercando di dare al movimento dei suoi versi, alla sintassi e all'aggettivazione un certo carattere di trascuratezza e di gioco. Nei suoi componimenti più significativi, che poi all'incirca son quelli del libro dei Colloqui (1911), ha vena spontanea e al tempo stessa precisa; segno icastico e insieme lieve e arioso; tenerezza d'affetti benché sempre guardingo a non lasciarsene sopraffare.

Gozzano, in particolar modo, ha una sentimentalità foderata d'ironia; una musica orecchiabile ma accuratissima; un esatto senso del limite. Quasi tutte le sue liriche sono bene atteggiate, come figure che sembra di toccare e alle quali si possa girare attorno; materiate di una sostanza non fastosa, ma neanche povera. Egli è insomma quel che si dice un classico, un piccolo classico. E qui classico dovrebbe tradursi: un poeta che, una volta capito, non dà brutte sorprese, non si smonta; un poeta sicuro, che sappiamo dove ritrovare, e a che pagina ci aspettano quei determinati effetti. Continua Bàrberi Squarotti:

L’ironia antidannunziana di Gozzano, che pure è tributario molto seriamente di D'Annunzio in tante situazioni o momenti o espressioni, appunta proprio su tale pretesa di esorcizzare la situazione drammatica dell'arte nel mondo borghese attraverso la finzione di un'aristocratica solitudine, di un privilegio d'eccezione. Se mai la poesia può ancora manifestarsi, è nel deserto, che è, al tempo stesso, esito della decadenza del luogo privilegiato, del vivere aristocratico (le ville gentilizie di Gozzano sono tutte in decadenza, da quella della Signorina Felicita a quella di: Totò Merùmeni) e cancellazione di ogni legame sociale, di ogni sentimento, di ogni rapporto, rovina delle istituzioni e delle convenzioni (come testimonia Totò Merùmeni)2.

Giulio De Frenzi, amico di Gozzano, aveva subito compreso l’importanza dell’ironia e del suo ruolo nella poesia; e in riferimento a una sua recensione alla Via del rifugio, Lina Angioletti rileva che è stato

interessante notare come il De Frenzi avesse subito compreso che l'ironia giocava un ruolo importante nell'opera del nuovo poeta; l'articolo s'intitola Ironia sentimentale e mette in chiaro esplicitamente l'autenticità del Gozzano affrancandolo dalla dipendenza

1 BÀRBERI SQUAROTTI, Introduzione a GOZZANO, Poesie, p. 14.

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letteraria da uno scrittore che viene collocato accanto a lui come ispiratore della sua poesia, il francese Francis Jammes. Il De Frenzi ha anche ben capito alcune caratteristiche psicologiche dei poeta torinese, il quale «[...] si diverte a guardarsi dentro [...], spettatore discreto e benevolo delle proprie emozioni [...]»; più avanti lo definisce «un curioso stravagante che si interessa di tante cose futili per la maggior parte degli altri uomini, e che sa scoprirvi ciò che gli altri neppure vi sospettano [...]3.

La questione è di intendersi sui significati che l'arte di Gozzano può esprimere, sulla portata della sua ispirazione, sulla qualità delle cose acquisite dalla sua genialità. Personalmente, sono certo che neanche il più generoso fra i suoi ammiratori si sentirebbe di negare alcune constatazioni. Che, per esempio, una figura di Gozzano, e nemmeno la figura di Gozzano stesso, la sua propria immagine lirica, non ci riuscirà mai di accettarla con assoluta pienezza e immediatezza. Nella sua fiamminga rifinitura, perfino La signorina Felicita ha qualche cosa come di una finzione. Fra noi e lei c'è un velo d'aria, un cristallo, come non è fra noi e Silvia o Nerina. Non si tratta della diversa altezza e gravità: cosa ovvia, a tutti palese. Si tratta di una diversa arte nell'evocazione.

Il mondo di figure e sentimenti che egli ritrae, prima di tutto Gozzano lo seleziona e se le accomoda nella fantasia, e si mette quasi distaccatamente a ricopiarlo. È un suo proprio mondo; la perizia del copista non lascia a desiderare nulla; e il risultato nel suo genere è perfetto. Ma la traccia del procedimento rimane. Si direbbe che in Gozzano siano due persone: l'uomo e il poeta; e i suoi segreti l'uomo non li ha mai confidati all'altro, se non attraverso una traduzione preliminare. Impercettibilmente, Gozzano si mette sempre in posizione di canto. Noi sentiamo che la sua cosa più importante è sempre rimasta sotto silenzio, dall'altra parte. Per questo, benché dilettissimo fra i nostri poeti novecenteschi, nessuno gli chiederebbe una parola di quelle di cui in certi momenti si sente bisogno: la parola che coglie un nostro nativo sentimento e lo potenzia facendocelo riconoscere intatto nelle forme dell'arte.

In pieno contrasto con quel gusto di altri crepuscolari per un'espressione che finisce nello sfumato, nella dissolvenza genericamente sentimentale («Non sono che un piccolo fanciullo che piange... Potermi mettere a piangere tutto solo...»)4, si direbbe che in Gozzano il senso del dolore, dell'amarezza, della delusione si risolva soprattutto nello stimolare l'impegno del buon operaio delle muse e realizzare sempre l'immagine più concreta, la frase più esatta è di una nitidezza quasi scientifica. La sua fantasia non esala in un nebuloso smarrimento, ma aderisce vigorosamente alla vita delle cose, quantunque umile, reietta («Ciarpame così caro alla mia Musa»), ma ricca di sostanza verbale.

3 ANGIOLETTI, Invito alla lettura di Gozzano, pp. 93-94. Si fa riferimento all’art. del De Frenzi, intitolato

Conversazioni letterarie. Ironia sentimentale, apparso in “Il Resto del Carlino”, 10 giugno 1907. 4 CORAZZINI, Desolazione del povero poeta che piange, vv. 3 e 40.

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A Montale, in un primo momento, era sembrato che il verso di Gozzano fosse un «verso funzionale, narrativo, un verso che colma e sostiene la strofa e in cui è difficilissimo scoprire le zeppe e avvertire quei salti d’aria […] che sono così frequenti nei grandi lirici». Eppure, dice poi,

c'è un momento in cui rileggendo Gozzano tutto pare zeppa in lui. Da certe sue poesie egli ha tagliato senza danno intere strofe e altri tagli si vorrebbero fare; molte sue strofe potrebbero essere posposte senza danno, altre potrebbero emigrare da una poesia all'altra senza darci il minimo fastidio. Ciò sembra contraddire a quanto ho affermato prima: che il verso dì Gozzano sia un verso funzionale; ma non è così. Spostando i suoi versi potreste proporne una migliore o diversa funzionalità, non sopprimerne il carattere. Immettendo una forte carica di autoironia nella materia del “Poema paradisiaco”' Gozzano seppe limitare al minimo le sue innovazioni formali. Si fermò perché un'altra soluzione era immatura, almeno per lui. E fondò la sua poesia sull'urto, o «choc», di una materia psicologicamente povera, frusta, apparentemente adatta ai soli toni minori, con una sostanza verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé. Questo «choc» anima tutto il breve romanzo psicologico di Gozzano che resta e probabilmente sarebbe rimasto il suo vero libro5.

Usciti dal «romanzo» dei Colloqui, sul quale per la verità ci siamo permessi più interventi e commenti di quanti non abbiamo fatto nella trattazione della Via del rifugio, possiamo riparlare dell'universo lirico di Gozzano e rifarci a quanto si diceva in conclusione del discorso sulla prima raccolta. Se ora rapidissimamente rivolgiamo lo sguardo ai Colloqui come a una serie di testi diacronicamente successiva della lirica gozzaniana nel suo complesso, si confonde forse, e ci sfugge, l'identità delle due «risorte», ma ritroviamo puntualmente tutti i termini paradigmatici che via via, da Primavere romantiche al Responso, avevamo potuto fissare; ed essi nel sogno, a esempio diventano i veri protagonisti.

Il sogno ha confermato e arricchito i propri connotati; è rimasto l'antitesi naturale della realtà ma si è ulteriormente chiarito nel suo duplice volto: quello negativo segnato dalla sterilità e dal modello nietzschiano, dal rimpianto e dal lutto continui per larve, chimere, amori che potevano essere ma non sono stati, e quello positivo che ospita le sole ipotesi luminose del mondo gozzaniano, sempre contrassegnate da un nome di donna; quello negativo che è indomabile desiderio, affanno, ricerca, in breve «giovenile errore», e quello positivo che è rinuncia, astensione, un tempo «rifugio» e infine «esilio». Così è anche la realtà, inevitabilmente coinvolta nelle oscillazioni di segno del sogno.

Nei Colloqui, quindi, la realtà diventa progressivamente più precisa e concreta, non è più soltanto cosmo, tempo, spazio, mondo, è anche quotidianità, è vita consociata e rapporto con gli altri, è matrimonio e mercatura; e, oltre a ribadire la propria negatività, giunge anche a caricarsi qualche volta di valori positivi trasferendo sul polo del sogno la consueta carica negativa. Di qui le connotazioni contrarie delle opposizioni sterilità/concretezza, poeta (o esteta o sofista/mercante,

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letterato/borghese onesto, vergogna/vivere di vita, e di quelle pace/commerci turbinosi, fuga/guerra atroce, poeta/gazzettiere, esilio/baratteria. Quando il sogno abbandona le tranquille regioni del

passato e si confronta con il reale sul terreno di quest'ultimo, ossia nel presente, esso entra in crisi irreparabilmente, ma l'esito dello scontro non è né lineare né scontato, perché cointeressa immediatamente altri fondamentali termini paradigmatici e perché dalla quiete dell'antinomia tra opposti, dall'equilibrio tra un polo positivo e un polo negativo si passa alla dialettica tra termini concretamente alternativi o antitetici e alla continua oscillazione dei poli. L'antico sogno consolatore appare come sterilità, e allora la vita con i suoi ruvidi interessi si trasforma in ipotesi positiva, ma poi quella solida concretezza appare come compromesso e mercificazione, e allora la libertà si identifica con l'esilio, che è un po' il sogno dopo questo processo di trasformazione.

Da canto del passato e del sogno la poesia, allora, appare a un certo punto luttuosa «aridità larvata di chimere», astrattezza, distrazione, smarrimento sulle fraterne orme del sogno, oppure scaltrezza tribunizia e cortigianesca, evasione, ozio vano di chi sta sulle spese, e allora insorge la vergogna per questo falso mestiere che è soltanto «tabe letteraria», e la preferenza va data al mercante che fonda la propria vita sul bilancio dei bisogni e degli utili. Poi il poeta-intellettuale si ribella a questa violenta e radicale autonegazione, alla desolazione e all'ignoranza della società dei mercanti, al mercimonio e alla corruttela alla quale dovrebbe piegarsi per entrare a farne parte, e decide per la poesia non pagata dell'esule, per la sua scienza e la sua speculazione solitaria, disposto ad accontentarsi di una «fiorita d'esili versi consolatori», della meditazione, del progetto di una nuova poesia intrisa dell'«unica verità non convenuta».

Tuttavia, il tarlo riprende a rodere il poeta: egli deve confessare ancora la gelida aridità, lo stridulo scetticismo nascosti sotto i suoi versi, e allora gli appare dopotutto migliore il mondo dei salotti «provinciali» di Torino, sordo alla poesia con la quale si trastulla senza capirla, gli appare giusta la volontà dei parenti che vorrebbero che egli smettesse quell'infantile ozio poetico, diventasse finalmente più serio e trascorresse la sua vita, come tutti i bravi borghesi, «tra saggie cure e temperate spese». Infine, però, è ancora il poeta a prevalere in lui e a suggerirgli un altro modo per non tradire se stesso: taccia la vecchia musa della giovinezza ed eviti il ridicolo penoso dei vecchi pargoleggianti, licenzi finalmente il suo «libro di passato» e sia la natura, la nuova scienza, a dettare la nuova poesia, che non dovrebbe dunque più essere né sogno gratuito né oggetto di mercato ma espressione della verità. Alla natura il compito di salvare al suo «fine benigno» la poesia e il poeta, l'una dalla vanità e dalla baratteria, l'altro dalla vergognosa sterilità e dalla corruzione dei mercanti. Sul sogno e sulla poesia pesa intanto il tempo, altro tema che percorre da capo a fondo i Colloqui in termini progressivamente più incalzanti e angosciosi, dal cenno grave

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delle Due strade («il tempo è già più forte di tutto il suocoraggio») fino ai folti presagi della terza sezione e, infine, alle squallide profezie della lirica proemiale.

L'articolazione dei motivi, però, potrebbe essere ancora più vasta. Quello dei due mondi e della

casa, a esempio, tante volte ribadito in successive variazioni: la casa soprattutto, la «villa-tipo, del

Libro di Lettura» (e Villa Amarena ne è soltanto una duplicazione), è continuamente il luogo di incontro del protagonista lirico col suo destino, i suoi interlocutori, i fantasmi del suo sogno, vero

caput mundi, come si diceva. Bisogna almeno accennare al fatto che la medesima casa è al centro

anche di due componimenti sparsi che malvolentieri sacrifichiamo allo spazio, L'esperimento (tentativo di sintesi di laboratorio, alchimistica, del prodigio evocatore di Carlotta, sintesi che naturalmente fallisce per l'azione di quella possente attrazione che è il presente) e L'ipotesi (immaginario infuturarsi al 1940 della vita del protagonista e di Felicita, coniugi e genitori felici; sostituito poi, come sappiamo, da un nulla di fatto e dalle immagini dolcemente regressive del «distacco d'altri tempi»). Quella casa e il suo giardino sono il centro del mondo anche nei Colloqui e, pur nella progressiva decadenza e spoliazione, restano l'unico polo di coesione capace di fronteggiare l'enorme dispersione di ciò che li circonda.

Soltanto verso la fine e (almeno in poesia) una volta sola, Torino verrà aggregata a questo nucleo; ma a questo fine sarà anche soggetta a una singolare metamorfosi riduttiva e costretta a mascherare in buona parte i propri connotati cittadini. Quale differenza, infatti, tra il salotto della Contessa e dell'amico Barnabita e i «bei conversari» in dialetto piemontese, e l’adunata di parenti dabbene in casa di nonna Speranza? Quale differenza tra i pettegolezzi sulla Brambilla e Vittorio Emanuele II e i discorsi sulla Duse e la tresca alle spalle del Conte? Se la villa sembra venire dal libro di lettura e quella riunione di famiglia da un dagherrotipo, l'«accolita di gente» nel salotto beota assai «à la tristezza d'una stampa antica», e il tramonto torinese pare tolto da una «stampa antica bavarese».

Non a caso Torino è, nei confronti delle memorie del protagonista, come un custode «armadio canforato» simile a quelli immensi, pieni di lenzuola, di Villa Amarena, odoroso come il nome di Felicita nell'Ipotesi, che pare uscito da «un lavacro benigno di canfora spigo sapone». In Torino il sogno dell'io lirico rivede i suoi principi come nella casa dei Sonetti del ritorno, il nonno di quei sonetti non gli perdonerebbe gli «ozi vani di sillabe sublimi» così come questa Torino rimpicciolita a natìo borgo selvaggio considera l'arte come un trastullo. Questa miniatura di città è ristretta a Palazzo Madama e al Valentino con lo sfondo delle Alpi, così come il mondo canavesano era ridotto alla casa tra l'agreste e il gentilizio e al parco-frutteto-orto sullo sfondo dei colli di Montalto e della Serra. Torino rappresenta insomma ancora una volta la casa in questo tentativo, tuttavia isolato, di massimo ampliamento di uno spazio familiare noto, solido e protettivo.

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La stessa cosa potrebbe dirsi del motivo della stampa, che dai cammei giovanili e dai quadretti esotici dell'Analfabeta è giunto fino alle mature e complesse realizzazioni stilizzanti e tipizzanti, ironiche e parodiche, e agli effetti di sdoppiamento e straniamento che attraversano quasi tutti i

Colloqui e sfiorano (senza tuttavia cadervi) il virtuosismo nell'acrobatico gioco di andata e ritorno

tra il sogno e il suo ribaltamento parodico in Paolo e Virginia. In questo gioco esemplare è tanta parte del Gozzano dei Colloqui, che si traveste con i panni di D'Annunzio o di Prati e ne forza la maschera fin quasi alla caricatura (di cui non era, graficamente, digiuno). Con qualche tratto in più avremmo lo Sbarbaro di Pianissimo o viceversa il Palazzeschi della Visita alla contessa Eva

Pizzardini Ba, o anche il Soffici di Arcobaleno; ma la misura di Gozzano sta proprio nello sfumare

o nel trattenere queste ultime pennellate: nonostante il ramo di ciliegie, Torquato resta Torquato, e di Virginia non si deve ridere anche se, in pieno diluvio universale, rifiuta di svestirsi e tuffarsi e preferisce onorare la «retorica del tempo» e disporsi alla bella morte, con la sinistra sul cuore e nella destra il ritratto dell'amato.

Guai, poi, a trasferire a Gozzano il «lasciatemi divertire» palazzeschiano; non è divertendosi, ma sognando a suo modo che il protagonista gozzaniano distrugge sia i poeti-viveurs educatisi sul

Piacere e su Nietzsche e «saputi all'arte come cortigiane» sia le «nefandità da melodramma», il

neo-librettismo näif dei poeti-commessi farmacisti, sia gli squisiti amatori di attrici e principesse sia i teneri innamorati delle sartine e delle collegiali. II guaio è poi che il suo protagonista non possa vantare, nei loro confronti, né il matrimonio con Felicita né un amore sereno per la piccola cuoca che nottetempo viene a fargli visita, ma solo la propria aridità. Nondimeno, sarà bene ribadirlo, in quest'ultima vicenda il signor Guido Gustavo Gozzano personalmente non c'entra, anche se fa di tutto per indurci a credere il contrario. Il signor Gozzano ha tutt'altri problemi: amministrare il proprio successo letterario attraverso amici, critici, recensioni, editori ecc.; proseguire o interrompere o trasferire di piano il vincolo che lo lega alla bella Amalia, accudire all'infermità della madre, soprattutto controllare e curare la malattia che sempre più lo mina e lo costringe a terapie via via più frequenti, a soggiorni e villeggiature marini e montani, al viaggio in India6.

Su Gozzano e la sua poesia il critico letterario spagnolo Mugños Rivas esprime un giudizio che a mio parere esige puntuali spiegazioni: cosa significa dire che «la sua morte cadrà come l'opportuna soluzione, trasferendo sul piano biografico, definitivamente, l'inconclusa inconcludibile dialettica letteraria», che «a dirimere la contraddizione, si capisce, deve intervenire il destino» e che, infine, «bisogna dirlo: aveva ragione il destino?»7. Sono tutte metafore metalinguistiche, ammettiamolo

6 Su tale argomento si legga SANGUINETI, Da D'Annunzio a Gozzano, pp. 74-75.