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LA VIA DEL RIFUGIO

3.2. La via del rifugio

La via del rifugio è il titolo della prima opera di Guido Gozzano: è il libretto in versi, stampato

nel 1907, che lo rivelò al mondo letterario. Una prima stesura del libretto era stata pubblicata, con il titolo Convalescente, su «Il Piemonte», 12 febbraio 1905, con notevoli varianti rispetto alla versione della stampa successiva del libretto. La stesura manoscritta del corpus risale ai primi mesi del 1907, con dedica, poi cancellata, a Carlo Vallini; figurano anche dieci liriche, poi espunte, non contenute nel libretto, alcune delle quali (A un demagogo; La beata riva; Demi-vierge; Mammina diciottenne;

La loggia) già pubblicate in varie riviste, e in “Gazzetta del Popolo della Domenica” e in

“Piemonte”. Il libretto consta di venticinque composizioni e la stampa è avvenuta per interessamento e a spese della madre, con il contributo di Carlo Vallini in qualità di amico esperto in pubblicazioni11.

La raccolta è pubblicata dallo Strelio di Torino nei primi mesi di aprile; e subito ottiene favorevoli recensioni (dopo l’articolo limitativo di I. M. Angeloni, nel “Momento” del 7 aprile: F. Chiesa, in “Pagine libere” 15 maggio; G. De Frenzi, in “Il Resto del Carlino” 9-10 giugno; F. Pastonchi, in “Corriere della Sera”; T. Monicelli, in “Avanti” 27 giugno; G. S. Gargàno, in “Il Marzocco 30 giugno). Ma per Guido il successo coincide con un improvviso aggravarsi del male che lo affliggeva da tempo12.

La raccolta poetica assume lo stesso titolo della prima lirica: La via del rifugio13; raccoglie le seguenti liriche:

10 GOZZANO, La bella preda, vv. 54-56.

11 GOZZANO, Tutte le poesie, p. 47.

12 GOZZANO, Tutte le poesie, pp. 47-48.

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La via del rifugio La morte del cardellino

L'analfabeta L'intruso

Le due strade La forza

II responso La medicina

L'amica di Nonna Speranza II sogno cattivo

I sonetti del ritorno Miecio Horszovski

La differenza In morte di Giulio Verne

Il filo La Bella del Re

Ora di grazia II giuramento

Speranza Nemesi

L'inganno Un rimorso

Parabola L'ultima rinunzia

Ignorabimus

All’età di ventiquattro anni, nell'aprile del 1907, a Gozzano viene comunicata la diagnosi di tubercolosi polmonare; e subito, senza infingimenti, si rende conto di essere diventato un uomo senza più futuro. La sua prima raccolta di versi, La via del rifugio, è appena comparsa, in quello stesso mese di aprile; e dalla critica, dal pubblico, gli sta sopraggiungendo un riconoscimento immediato, ampio, sorprendente. Ma la fatidica primavera del 1907 segna anche l'inizio dell'esaltante e sospirosa storia di amicizia e d’amore con la poetessa Amalia Guglielminetti, chiamata a divenire la destinataria di elezione delle sue poesie future. Dunque, il poeta si è visto raggiunto all’improvviso da una fama dilagante, inopinata e, per di più, l'amore di una poetessa famosa: insomma, tutto facile e tutto subito per lui, proprio nel bel mezzo della gioventù, se non fosse per quella diagnosi paurosa, che getta su tutto quanto un'ombra inesorabile di inconsolabile sconforto. Eppure Gozzano, fin dal primo istante, si trattenne dal configurare il proprio destino sotto il segno della tragedia. Ricusando sempre il clamore della disperazione, il dramma luttuoso dello sconforto, s'incamminò invece verso la morte con le mani in tasca, sorridendo di quel suo vago sorriso leggero e ironico, con la stessa naturalezza con cui andò incontro al suo successo eccezionale.

Rampolla e sogna – immemore di scuri – l’eterna volta cerula e serena

e gli ospiti canori e i frutti e l’ire aquiloni e i secoli futuri…

Non so perché mi faccia tanta pena quel moribondo che non vuol morire!14.

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La malattia, stato fisico ed esistenziale di un pensiero differente, altro è, paradossalmente, la grande salute che permette di enunciare il disagio estetico ed esistenziale del poeta. Nonostante la malattia, il tocco garbato della sua penna non deviò, il suo stile non si appesantì, anzi andò perfezionando quella grazia ironica e svagata che già da prima aveva in buona parte conseguito: quella specie di triste-lieta noncuranza, in un certo senso simile alla lievità della matita con cui i medici tracciavano i contorni del suo male: «Appena un lieve sussurro all'apice… qui… la clavicola. / E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro»15. Ci chiediamo: era una recita la trasognata indifferenza di Gozzano? Era una finzione tesa a dissimulare, a mascherare anche di fronte a se stesso l’angoscia della fine? Dobbiamo supporre di no. Si trattava piuttosto di una posa naturale, che solo di primo acchito potrà parere affettata, artefatta. Un atteggiamento istintivo, spontaneo, e al tempo stesso fermo, altamente consapevole di sé, come risulta in modo chiarissimo dalla lettera al De Frenzi. Lettera nella quale Gozzano prende le distanze da quel poeta Stecchetti, che in una raccolta di versi si era finto, lui sì, tisico e disperato:

Ma come si vede che il poeta aveva sanissimi polmoni! È tutt’altra cosa l’idea di morire, tutt’altra cosa! Si resta lì: non saprei dire come. Ma non si mormora, non s’impreca, non si dicono cose brutte. Si aspetta sorridendo la morte: si sta quasi bene. E per questo trovo, invece, fraterna l’antica saggezza dei Sofisti […]. E appunto alla serenità socratica innestata e fecondata da tutte le tendenze moderne, vorrei informare la mia nuova poesia: la poesia di colui che si sente svanire a poco a poco, serenamente, e sente il suo io diventare gli altri16.

Da qui deduciamo chiaramente come la descrizione del proprio atteggiamento, diciamo così, «gentile» verso il declinare e il morire, venga addirittura a coincidere con una dichiarazione di poetica, con la rivendicazione di una poesia basata sul ritrarsi, sul farsi delicatamente ma anche lucidamente da parte. Ebbene, tale educato «passo indietro», tale sogguardare in modo disincantato e insieme sognante quegli altri a cui si lascia pudicamente il proprio posto, non è una conquista degli anni più maturi, non la si trova soltanto in poesie, come «II più atto» del 1910 dedicata al fratello:

Senza querele, o Morte, discendo ai regni bui; di ciò che tu mi desti, o Vita, io ti ringrazio. Sorrido al mio fratello… Poi, rassegnato e sazio, a lui cedo la coppa. E già mi sento lui17.

15 GOZZANO, Alle soglie, vv. 9-10.

16 Lettera di Gozzano del giugno 1907 al critico Giulio De Frenzi.

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In realtà, una simile poetica — che potremmo definire come poesia del «cedere lievemente il passo» — si può già vedere dispiegata nella sua interezza fin da prima della malattia, proprio nel primissimo componimento con cui si apre La via del rifugio e che del resto dà il titolo a tutta la raccolta. Così, se vogliamo accostarci al segreto di Gozzano — quel segreto con il quale riuscì ad attendere l'arrivo della «Signora vestita di nulla»18 come se si trattasse di un «incubo innocuo» — occorre innanzitutto leggere e rileggere le quartine della Via del rifugio. E poiché, come abbiamo appena visto, l'arrendevolezza blanda e quasi divertita di Gozzano nei confronti della morte aveva direttamente a che fare con la concezione della sua poesia e con la pratica del suo poetare, ecco che, interrogandoci sull'atteggiamento di Gozzano verso la morte, verremo forse a sapere qualcosa sul segreto ultimo della sua poesia. Egli fu uno che sempre sottolineò come insuperabile il divergere di poesia e vita: se ne lamentava («Ah! Se potessi amare!»), ma soprattutto se ne compiaceva: ci godeva nel ridurre la vita a citazione, a una serie di «vecchie stampe» «artificiose, belle più del vero» come in L'analfabeta. In effetti Gozzano è stato sempre considerato un poeta, per il quale «ragioni della letteratura e istanze della vita» non potevano coincidere, perché l'atto di scrivere non rispecchia in Gozzano l'atto di esistere.

Ed ora, o vecchio, e sazi la tua fame sulla panca di quercia, ove m’indugio; altro sentiero tenta al suo rifugio il bimbo illuso dalle stampe in rame19.

C’è anche da sottolineare che, tendenzialmente, la pratica della letteratura esclude per lui qualsiasi riferimento diretto alla vita», come sottolineava Marziano Guglielminetti20. Se andiamo a rileggere l'opera di Gozzano ponendoci dal punto di vista della raffigurazione della morte in essa contenuta — se utilizziamo cioè la figura della morte come una privilegiata chiave d'accesso per comprendere la sua poesia — ci potremo accorgere che esiste in Gozzano un momento al tempo stesso evanescente e insistente, in cui arte e vita, invece di divergere, tornano a coincidere: una dimensione del tempo inafferrabile, come sospesa nel vuoto, e però sempre presente, dove la poesia e il reale vengono a sovrapporsi, fino a divenire una cosa sola. Per riuscire a cogliere un simile istante puntiforme ma tuttavia prolungato all'infinito — e che attraversa l'opera intera di Gozzano, come una dimensione magica e nascosta in cui la bellezza della letteratura e la realtà del mondo non

18 GOZZANO, Poesie sparse, L’ipotesi, v. 2 («Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia, / se già la Signora vestita di nulla non fosse per via…»).

19 GOZZANO, L’analfabeta, vv. 177-180.

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sono più in dissidio — proviamo dunque a riascoltare La via del rifugio, cominciando appunto da quanto qui viene detto a proposito del morire:

Verrà da sé la cosa vera chiamata Morte: che giova ansimar forte per l’erta faticosa?21.

Un simile pensiero filosofico — basato sull'accettazione della morte e sull'abbandono al mondo, così che quest'ultimo possa manifestare la propria verità (una filosofia non dissimile dal wu-wei, il «non-agire» proclamato dal taoismo) — che si allinea a tale professione di quietismo corrisponde a un atteggiamento appunto da filosofo orientale («siccome quell'antico / brahamino dei Pattarsy»): uno stato di sonnolenza dell'anima che «s'adagia nelle tregue», rimanendo come sospesa fra essere e non essere, là dove il proprio esistere, risibilmente ridotto a una quasi-cosa, diventa fonte di ironico stupore:

Ma dunque esisto! O strano! vive tra il Tutto e il Niente questa cosa vivente detta guidogozzano!22.

Tuttavia, proprio tale ironico sostare ai margini del mondo, risulta essere la condizione poetico-esistenziale che permette al mondo intero di farsi avanti, di mostrarsi ai nostri occhi. È un'epifania, totale, panteista, un intersecarsi vertiginoso di sottomondi e sopramondi, una sorta di cosmogonia in miniatura, che sembra poter venire alla luce proprio grazie al fatto che il poeta ha messo in stato di sospensione i propri desideri:

non penso a che mi serba la Vita. Oh la carezza dell'erba! Non agogno che la virtù del sogno»: l’inconsapevolezza23.

21 GOZZANO, La via del rifugio, vv. 156-160; anche in Lettera di Guido Gozzano ad Amalia Guglielminetti, 24 maggio 1908.

22 GOZZANO, La via del rifugio, vv. 33-36.

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Ecco allora farsi innanzi tutti insieme — come una piccola folla fantasmatica e festante — il mondo del passato («da trecent'anni...»); l'infanzia («bimbe di mia sorella...»), l'artificio e la citazione (il sogno tolto dall'affresco o dal «missale»); il mondo del gioco (la filastrocca); l'incanto delle donne («Oh quella dolce / Madama Colombina...»); il piacere del vagheggiamento («Sognare...»); la bellezza e l'autenticità della natura (la farfalla); e di nuovo la morte diminuita, ridotta a dramma lillipuziano («Non vuol morire / Oh strazio / d'insetto!»). E tutto ciò al tempo stesso abbassato, contratto in una dimensione iperinfantile (il gioco della conta) e sovrainnalzato a livello del mistero più profondo (l'imperscrutabilità della sorte, quale enigma ultimo dell'esistere)24. Insomma, una specie di girandola sacra, di fantasmagoria misterica, attraverso la quale la totalità del mondo viene evocata all'alba del proprio esistere: momento aurorale, sintesi suprema di microeternità, dove per un momento solo, ma prolungato per un tempo indefinito, la vita sorge dentro la Poesia, l'esistere viene alla luce insieme alla strofa che lo canta. Ma questo istante magico, nel quale letteratura ed esistenza si manifestano insieme sulla scena dell'essere in un unico movimento di estensione è stato reso possibile appunto da un atteggiamento — che è insieme poetico ed esistenziale — basato, come si diceva prima, su un sorridente ritrarsi, su un gentile, pudico passo indietro: un non voler sfidare la sorte (il «quatrifoglio» che ci si astiene da raccogliere), per rimanere semplicemente lì, a sogguardarla con gli occhi semichiusi, lasciando che questa continui a sua volta a fissarci, simile a un «aruspice» che ci «segue / con l'occhio di una donna»:

Un desiderio? Sto supino nel trifoglio e vedo un quatrifoglio che non raccoglierò25.

Continua a nuocere tutt'oggi a Gozzano un'ingiusta fama di poeta minore, «troppo» crepuscolare: coloro che l'hanno frequentato solo sui banchi di scuola senza più riprenderlo in seguito, lo rievocano spesso nel ricordo come un poetino svenevole che si dilettava nel ridurre la vita a scenetta di provincia: quasi che il suo fosse «un mondo di chicche al limoncello» (Slataper), dove fra sospiri e rimpianti ci sorridono personaggi che alla lunga fanno venire, diciamo così, il latte alle ginocchia: la Mamma, la nonna Speranza, la Signorina Domestica, l'Avvocato un po' malato... Che Gozzano non fosse l'ingenuo, patetico cantore di un piccolo mondo, lo capirono subito critici come Borgese e Serra, che colsero la grandezza della sua poesia nel gioco della finzione e della simulazione: «Ha la civetteria degli accordi che paion falsi, delle bravure che sembrano goffaggini di novizio; si diverte

24 I versi citati sono tutti tratti da La via del rifugio.

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a fare il piemontese, l'avvocato, il provinciale» (Serra); «Gozzano sa le origini letterarie di tutti i sogni [...]. Finge [...] che ogni sua emozione sia d'origine libresca» (Borgese)26.

Eppure, proprio grazie a questo metodo che partiva dall'inautentico (del mondo) per approdare all'inautentico (della letteratura), Gozzano fu il primo che riuscì a rendere autentico, vero, il mondo «piccolo e borghese» (come lo definiva lui stesso) dell'Italia provinciale, a cavallo fra i due secoli: fu il primo a darne una descrizione poetica, compiuta, concreta, ricolma di oggetti, atmosfere, personaggi, come nella celebre L'amica di nonna Speranza:

Venezia ritratta a mosaici, gli acquarelli un po' scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d'anemoni arcaici, le tele di Massimo d'Azeglio, le miniature,

i dagherrottipi: figure sognanti in perplessità,

il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto27.

Abbandonata da Gozzano la prima idea di raccogliere le liriche della giovinezza in un pascoliano e simbolistico Libro (ma il «gran libro sublime» della vita e della natura è nell'Analfabeta e in un «Libro intonso» nel Responso, e Pascoli affiora qua e là, ad es., in Ignorabimus), La via del rifugio, uscito a Torino nell'aprile del 1907, raccoglie una scelta di versi giovanili tra i quali il poeta

26 Anche la critica contemporanea ha visto in Gozzano un poeta innanzitutto finzionale, consapevole che in un mondo totalmente inautentico l'arte poteva farsi solo illusorio «museo» di se stessa (così Bàrberi Squarotti nell'Introduzione per l'edizione Bur). Fondamentali per questa lettura in chiave d'artificio sono le considerazioni di Sanguineti: Gozzano, cosciente dell'obsolescenza della poesia, tale per cui «un libro di rima dilegua, passa, non dura» e che i versi «invecchiano prima di noi», come si espresse ne L'ipotesi adotta una «linea di condotta gustosamente paradossale: anziché fabbricare il moderno destinato all'invecchiamento [...] cioè l'obsolescendo, fabbrica direttamente l'obsoleto, in perfetta coscienza e serietà. Ciò che è di moda è da lui contemplato e assunto come già demodé [...]. Si tratta di intendere che tutto è datato, irrimediabilmente datato [...] e che dunque, in partenza, la degradazione del consumo fa di ogni immagine, di ogni "bella cosa viva", una "vecchia stampa"» (SANGUINETI, Guido Gozzano, Indagini e letture, Introduzione). Sempre secondo questa linea interpretativa centrata sulla finzionalità, si muove la lettura di Marziano Guglielminetti. Poiché risultava impossibile per Gozzano raggiungere tanto nella vita come nella poesia un'autenticità immediata del sentimento, ecco che qualsiasi esperienza o situazione, per potere essere avvalorata e descritta, doveva ripresentarsi come motivo letterario, cioè sotto forma di parodia, rifacimento, riappropriazione di temi già codificati dalla letteratura. Di per sé non autentico, il mondo veniva autenticato solo all'interno di una dimensione comunque non autentica, quale quella della citazione letteraria. Di conseguenza, per lui, «il ritorno alla vita si risolve in un ritorno alla letteratura, essendo da tempo bruciata ogni possibilità di attingere ulteriormente al repertorio della vita autentica». L’esisteva in Gozzano è come «un fondo di istintiva sanità, di spontanea vibrazione emotiva»; «il suo atteggiamento di fondo è ottimistico, costruttivo; bello gli appariva il mondo e desiderabile» (SANGUINETI, Guido Gozzano, Indagini e letture, Introduzione). Ma questo solo per arrivare poi a sostenere che la finzionalità, in ogni caso dominante, è da considerarsi un esito e non un punto di partenza. Possiamo dedurre che in Gozzano l'artificio fu sempre e soltanto suggestione letteraria, atteggiamento acquisito, non costituzionale.

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espunse, per consiglio dell'amico Mario Vugliano28, i componimenti troppo scopertamente dannunziani. Si tratta di un libro chiaramente composito e che rivela le incertezze e le sperimentazioni del primo Gozzano che, affascinato ancora dalla dannunziana «grande virtù delle parole» (La medicina), trovava gli accenti più originali nei novenari di Un rimorso, tra ricordo e lirica, o quando sperimentava un uso antinaturalistico dei martelliani di Giacosa nelle Due strade, o nei doppi novenari dell'Amica di nonna Speranza, esempio felicissimo di tono colloquiale e lirico-ironico, e testo capitale per intendere l'atteggiamento del poeta, che è di distacco e insieme di adesione metaforica, rispetto al passato e alle «buone cose di pessimo gusto» (v. 2).

Ma l'opera, al di là dei risultati, è rilevante soprattutto perché offre un primo, e per certi aspetti definitivo, abbozzo di un'ideologia gozzaniana di fondo, debole ma interessante, e da ricondurre a una sorta di «misticismo» positivistico su base monistica (con generiche influenze nietzschiane, come il contrasto «Luce-Ombra» e il mito dell'eterno ritorno — già in Vallini — dell'Analfabeta): al di là delle «favole» e dell'«Apparenza», la «gran Madre Natura» (Sonetti del ritorno, parte V. v. 11) vive un eterno ciclo di evoluzione attraverso il quale nessun essere gode di un qualche primato: «Ritorna il fiore e la bisavola. / Tutto ritorna vita e vita in polve: / ritorneremo, poiché tutto evolve / nella vicenda di un'eterna favola» (L'analfabeta, w. 117-120). L'uomo è una «cosa vivente», come le pietre, i fiori e gli insetti, come «la cosa / vera chiamata Morte», mentre la vita è un «gioco affatto / degno di vituperio, / se si mantenga intatto / un qualche desiderio» (La via del rifugio, vv. 165-168). Oppresso dalla «mole immensa / di dolore che addensa / il Tempo nello Spazio» (La via

del rifugio, w. 134-136), il poeta aspira a una soluzione negativa che lo sottragga all'eterno e

crudele gioco del tempo che si ripete senza soste: «E non l'Uomo Sapiente, / solo, ma se parlassero / la pietra, l'erba, il passero, / sarebbero pel Niente» (Nemesi, vv. 97-100). Altra soluzione, rispetto alla rinunzia buddistica, al nirvana, è per Gozzano quella di ritagliarsi un piccolo spazio in cui rifugiarsi, quello del sogno: «Oh la carezza / dell'erba! Non agogno / che la virtù del sogno: / l'inconsapevolezza» (La via del rifugio, w. 41-44).

28 Mario Vugliano (n. 1883), piemontese, laureato in legge, si interessò di giornalismo e di letteratura; divenne redattore-capo del quotidiano La Perseveranza e pubblicò suoi scritti su varie riviste di inizio Novecento. Scrisse qualche romanzo, un libretto d'operetta e, in collaborazione con Egidio Possenti, anche un'opera teatrale. Non pubblicò mai in volume le sue poesie, seppure la rivista Riviera Ligure, nell'ottobre del 1904, avesse annunciato a breve l'uscita di un libro intitolato: Prima del sole.

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