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Vittoria Martinetto *

2. Lettura delle rassegne stampa (1972-2019)

2.3 Fattaccio a Buenos Aires (1973)

Malgrado le lamentele di Puig, ci pare che il suo terzo romanzo abbia ricevuto una considerevole attenzione da parte della critica, con qual- che dissonanza di voci, com’è normale che sia per un’opera enigmatica e formalmente complessa. Dopo un mese dall’uscita (dicembre 1973), a gennaio dell’anno entrante, il suo terzo romanzo è, per dire, settimo e poi sesto in classifica di vendite a Milano, preceduto da best seller italiani (Goldoni, Biagi, Montanelli) e seguito – stupefacente se si pensa

all’auge di questi autori negli anni ’70 – da Siddharta di Herman Hesse e Diario Indiano di Allen Ginsberg.

L’esclusione del Nostro da un’antologia uscita allora da Vallecchi, offre a Carabba l’occasione per introdurre lo «stravagante romanzo di Manuel Puig, un provocante narratore argentino, guarda caso sfuggito al catalogo della Latino americana»: Carabba insiste ancora una volta sulla sua unicità perfino rispetto ad altre sperimentazioni di grande prestigio come quelle di Borges, mettendo in rilievo lo spessore su cui si fonda la complessità di Fattaccio a Buenos Aires: «Puig non è un di- stratto funambolo in vena di finezze. Dietro il gioco c’è un’inquieta Ar- gentina, sovrastata dall’oscuro mito di Perón, le complicazioni erotico- sentimentali nascondono più alte ambizioni, il tentativo di constatare le violente ossessioni dell’uomo, bruciate in una vana speranza di libe- razione».

Pur comprendendo l’operazione letteraria e l’abile costruzione del romanzo sulla falsariga di un romanzo giallo, Maurizio Orlandi non ne è, invece, del tutto convinto: «Questo tentativo, di per sé interes- sante, non basta a riscattare completamente l’astrattezza della vicenda e il cliché ormai logoro del binomio sesso-violenza», e conclude: «L’opera nel suo insieme si presenta come un divertissement dell’au- tore che mette alla prova le sue capacità tecnico-espressive, senza su- scitare il convincimento pieno che esse diano corpo ad esigenze più profonde». Il tenore delle recensioni è, tuttavia, di generale ammira- zione e di conferma delle premesse poste dai due precedenti romanzi che lo catalogano come: «Uno dei più fervidi alchimisti letterari del momento» (Castelli). L’apprezzamento per l’abilità di Puig si conso- lida come si evidenzia nei seguente frammenti:

Affinando e talvolta esasperando quel particolare modo di raccon- tare che prevede l’uso, la sperimentazione, delle più diverse tecni- che narrative, lo scrittore argentino ha ora dato vita, in Fattaccio a Buenos Aires, al suo romanzo forse più maturo […] Un’opera forte, talvolta scabrosa, che raggiunge però momenti di rara potenza (Simonelli);

Fitto di componenti nevrotiche e psicopatiche, è realizzato con una simultaneità di espedienti narrativi ben dosati, messi in pagina con calcolata malizia. Puig gioca bene le sue carte con abilità e sa pren- dere dagli altri quel che gli serve: Salinger e la Sarraute, Mailer e Butor gli hanno insegnato parecchio (Porzio).

Sono significativi i trafiletti anonimi che, pur concisamente, ribadi- scono il valore dell’autore insieme a un’idea di ulteriore maturazione; dopo l’elenco del successo dei precedenti romanzi che hanno fatto di Puig un autore «già ben conosciuto», si legge: «Questo Fattaccio a Bue-

nos Aires è ancor più raffinato come tecnica e come fantasia…»; «Storia

drammatica raccontata magistralmente da Puig, con intelligenza, ar- guzia e anche con quella carica di humour che gli è caratteristica»; «Puig torna con il suo libro più impegnativo […] per manovrare una grande varietà di tecniche narrative senza che mai la sperimentazione formale – come ha scritto il Literary Times – diventi gratuita»; e ancora: «Questo è anche il libro più impegnativo e più drammatico di Puig. La vicenda si presenta come una specie di giallo che si conclude con un vistoso capovolgimento di prospettiva…». Non tutti, però, sembrano aver compreso e apprezzato la provocazione del finale aperto. Se in una breve recensione anonima uscita su «La Stampa» si cita il romanzo sfatando alcune obiezioni che abbiamo visto:

Questo romanzo sembra ad una prima lettura un pretesto senza troppe giustificazioni per sperimentare un tipo di impegno creativo poco credibile. Ma l’intelligenza di Puig sta proprio nel sapere re- cuperare la credibilità conducendo il racconto con estrema lucidità, con l’ausilio di una bonaria ironia mediante la quale, senza an- noiare, sblocca il drammatico empasse in cui vengono a trovarsi le esistenze di Gladys e Leo.

Riguardo al finale, però, esprime perplessità: «improvviso e assurdo al punto da lasciare davvero sconcertati». Angela Bianchini, puntuale nel riservare attenzione a Puig, che saluta già come un «piccolo classico», «per una certa vena particolare, abbastanza atipica nell’America La- tina», si mostra a sua volta titubante in merito al finale:

la vicenda è anche qui costruita fin nei minimi particolari così che gli aficionados degli intrecci di Puig e dei suoi colpi di scena non rimarranno delusi, sebbene la conclusione del giallo abbia forse meno mordente di quelle precedenti e soprattutto sia meno impor- tante. In effetti, l’interesse, nettamente angoscioso del libro non sta nella conclusione e si è esaurito, anzi, prima che la fine giunga.

Vale la pena citare, in chiusura, la tanto confusa quanto contraddittoria recensione di Gualberto Alvino da cui si evince, soprattutto, una man- cata comprensione del sotteso rimando a Marcuse, e ancor più della raffinata tecnica narrativa utilizzata da Puig (malgrado, grazie ai due romanzi precedenti, i malintesi in merito avrebbero già dovuto essere fugati): «La confusione della prospettiva, il pasticcio linguistico e la il- logica mescolanza dei diversi piani narrativi fanno di questo libro un clamoroso e ben calibrato bluff culturale»; viene definito «un romanzo leggibile» ma come esempio da non seguire: «rappresenta un itinerario di sperimentazione che gli operatori d’arte del secondo Novecento do- vrebbero abbandonare», salvo poi concludere con lo stesso tenore os- simorico che ha caratterizzato l’articolo: «l’ironia con la quale garbata- mente Puig pervade il racconto d’un respiro divertevole e sofferto, grottesco e compassionevole, assurdo ma infine credibile». Quanto al giudizio riguardo all’«inaspettato quanto assurdo» finale, si evince che il recensore non ha compreso affatto, come altri, che l’atmosfera thriller costruita lungo il romanzo è intenzionalmente disattesa, come lo era già stata l’atmosfera da romanzo rosa di Una frase, un rigo appena.