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Le fattispecie aggravate del reato

Fermo restando che la formulazione dell’art. 613 –bis c.p. fa propendere a disciplinare il secondo comma come una fattispecie autonoma di reato è utile, tuttavia, ipotizzare in questa sede le conseguenze che deriverebbero dal considerare il secondo comma come una circostanza aggravante del reato “base”. In tal caso il secondo comma dell’art. 613 – bis c.p. sarebbe volto a punire, con la reclusione da 5 a 12 anni, la tortura perpetrata da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti la sua funzione o servizio. Preliminarmente si deve sottolineare che come il reato di tortura di cui al primo comma, anche l’ipotesi del reato aggravato del pubblico ufficiale si perfezionerebbe solo in presenza di una pluralità di azioni. L’aggravante, che sanzionerebbe comunque in maniera più aspra la tortura perpetrata da pubblici ufficiali o incarati di pubblico servizio, si presterebbe comunque a dei rilievi critici.

Il rischio principale consiste nella possibilità di vederla soccombere di fronte all’operatività dell’art. 69 c.p. nella misura in cui disciplina il concorso tra circostanze eterogenee. In linea di principio, il bilanciamento con eventuali

attenuanti renderebbe la fattispecie di cui al comma secondo inefficacie a punire adeguatamente la tortura “ufficiale” e contestualmente annullerebbe la previsione di un quadro sanzionatorio ad hoc, nell’ipotesi in cui i maltrattamenti siano stati perpetrati da parte di un pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio. In realtà però l’aggravante sarebbe rimessa alla discrezionalità del giudice che ben potrebbe decidere la modifica del regime sanzionatorio arrivando al punto di poter escludere l’aggravante in un determinato contesto. In tal caso, si potrebbe imputare al legislatore l’erronea scelta di non aver estromesso l’applicazione delle attenuanti con riguardo alla qualità pubblica del soggetto agente.

Secondo l’art. 613 – bis(3) c.p., il divieto di tortura non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti. La scelta sembra ispirarsi all’art. 1 CAT nella misura in cui esclude il configurarsi del reato di tortura quando il dolore e le sofferenze derivino da sanzioni legittime.

La scriminante ha natura funzionale e deve essere ricollegata unicamente alle misure esecutive di provvedimenti legittimi. Va detto, però, che la previsione di legittimità fa riferimento a mere “sofferenze”, ovvero ad atti che inglobano un livello d’intensità sicuramente minore rispetto agli eventi alternativi di “acute sofferenze fisiche” e al “verificabile trauma psichico” di cui al primo comma. In altri termini, il terzo comma prevede una sorta di “filtro” capace di garantire la non sussumibilità entro il grave cono di incriminazione della tortura, delle sofferenze derivanti dall’esecuzione di legittime misure limitative o privative dei diritti. Le “sofferenze” di cui al terzo comma costituiscono sicuramente un quid minus rispetto agli eventi alternativi di cui al primo comma (acute sofferenze fisiche; verificabile trauma psichico), necessariamente caratterizzati da un livello superiore di intensità385. Ne deriva che se vi è semplice sofferenza non vi può essere tortura, non essendo integrati tutti gli elementi tipici del reato. Il più grande problema semmai, riguarda la verifica della legittimità dei provvedimenti limitativi o privativi dei diritti da parte del giudice. Si pensi a interventi coercitivi delle forze di polizia e all’esigenza di ricostruire ex post sul versante della necessità e della proporzionalità ordini di servizio. Occorre chiedersi, allora, se tale disposizione fosse davvero necessaria visto anche la presenza di scriminanti codificate, si pensi ad esempio alla

previsione di adempimento di un dovere ex art. 51 c.p., è idonea a escludere l’antigiuridicità della condotta del pubblico ufficiale in occasione dell’esecuzione dei propri doveri istituzionali386.

Gli ultimi due commi dell’art. 613 – bis c.p., rispettivamente il quarto e il quinto, introducono alcuni eventi che aggravano il reato semplice comportando in tal senso aumenti progressivamente crescenti della pena, che vanno da un minimo di un terzo se dai fatti di cui al primo comma derivi una lesione personale alla pena massima dell’ergastolo se il colpevole abbia volontariamente cagionato la morte della vittima di tortura. Anche in questo caso le fattispecie aggravate si configurano solo in presenza di una pluralità di azioni.

Il quarto comma della norma introduce una circostanza aggravante ad effetto comune nella misura in cui prevede l’aumento della pena base se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale, e due circostanze aggravanti indipendenti che aumentano la pena rispettivamente di un terzo se dai fatti derivi una lesione personale grave e della metà nei casi in cui i maltrattamenti producono una lesione gravissima. Se l’aumento della pena in ragione della lesione personale grave e gravissima appare in linea con quanto previsto dal primo comma, qualche perplessità può derivare dalla previsione dell’aumento della pena se dai fatti derivi una lesione personale. Quest’ultima è infatti oggetto di un’interpretazione estensiva in continua evoluzione da parte della Corte di Cassazione che ha ascritto al concetto di lesione fenomeni certamente meno gravi degli atti di tortura, come ad esempio l’irritazione cutanea prolungata accompagnati da difficoltà respiratorie e nausea387,

il semplice taglio dell’avambraccio388. Ben si potrebbe ritenere, allora, che la

386 Tunesi S., Il delitto di tortura, p. 12.

387 Cass. Pen., Sez V., sentenza del 14 giugno 2013, n. 46787: “ In tema di lesioni personali,

integrano la malattia di cui all’art. 582 c.p. gli effetti derivanti dal getto sul viso di gas urticante consistenti non soltanto in una irritazione cutanea prolungata, ma anche in fenomeni di nausea e conati di vomito accompagnati da senso di soffocamento, in quanto produttivi di alterazioni funzionali dell’organismo”.

388 Cass. Pen.,Sez. V., sentenza del 26 aprile 2010, n. 16271: “ Ai fini della configurabilità del delitto

di lesioni personali costituiesce malattia la lesione cutanea consistente in un taglio all’avambraccio guaribile in tre giorni, in quanto anche una modesta soluzione di continuo dell’epidermide, con soffusione ematica, non può non comportare una sia pur minima, ma comunque apprezzabile compromissione locale della funzione propria dell’epidermite che non è solo quella di carattere

circostanza aggravante comune della lesione personale già appartenga intrinsecamente alla condotta e quindi che il disvalore di cui dovrebbe essere portatrice la circostanza sia già ampiamente contenuto nel fatto base389.

Il quinto comma invece, inserisce due aggravanti che fanno riferimento alla morte come conseguenza della tortura, però in due contesti differenti. Il primo, punito con la reclusione di anni 30, riguarda la morte quale conseguenza non voluta dall’agente che si verifica durante l’attività di tortura. Il secondo, punito con la pena dell’ergastolo, si riferisce all’evento morte come conseguenza voluta da parte dell’autore del reato. La prima fattispecie aggravata usa sempre la locuzione “se dai fatti di cui al primo comma” lasciando ben intendere che anche in questo caso il reato aggravato si perfeziona solo in presenza di una pluralità di azioni. La seconda fattispecie aggravata, invece, non fa più riferimento ai fatti del primo comma, ma dispone semplicemente che è prevista la pena dell’ergastolo “se il colpevole cagiona volontariamente la morte”, lasciando presumere che anche un singolo atto di tortura idoneo a cagionare la morte sia di per sé sufficiente a integrare il reato.

Ambedue le fattispecie aggravate di tortura potrebbero essere considerate come scelte inadeguate del legislatore. La criticità appare evidente in caso di morte quale conseguenza non voluta, che rischia di configurare un tipico caso di responsabilità oggettiva basata sul nesso causale tra condotta e evento390. Appare,

inoltre, superflua la previsione dell’ergastolo, quando dalla tortura derivi la morte come conseguenza voluta. In questo senso la condotta dell’agente ben potrebbe qualificarsi come omicidio volontario ai sensi dell’art. 575 c.p., eventualmente inasprito da circostanze aggravanti comuni come quella di cui all’art. 61(4), c.p.391.

estetico – sensoriale ma anche e soprattutto quella di protezione dell’intero organismo, in ogni sua parte, da contatti potenzialmente nocivi con agenti esterni di qualsivoglia natura”.

389 Marchi I., Il delitto di tortura, p. 165. 390 Tunesi S., Il delitto di tortura, p. 13.