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MODIFICAZIONI DELLE LIPOPROTEINE NEL DM

FATTORI DI RISCHIO EMERGENTI PER MALATTIA CARDIOVASCOLARE

La prevenzione delle malattie cardiovascolari si fonda sull’ identificazione di una serie di elementi (fattori di rischio) la cui presenza si associa con il rischio di eventi vascolari su base aterosclerotica.

I fattori di rischio, ampiamente diffusi nella popolazione, agiscono in un continuum di rischio progressivamente crescente e sembrano potenziarsi a vicenda. Studi osservazionali, quali il MRFIT (84) o il Framingham (85), hanno infatti dimostrato che il rischio globale in un individuo in cui coesistano più fattori di rischio è la conseguenza di una relazione esponenziale e non puramente additiva. L’identificazione di una serie di fattori di rischio modificabili per malattia cardiovascolare, quali ipertensione, ipercolesterolemia, fumo di sigaretta etc., ed il loro trattamento a scopo preventivo hanno rappresentato un fondamentale progresso nella medicina moderna.

E’ tuttavia noto come una certa quota di eventi cardiovascolari nella popolazione generale possa essere diagnosticata in soggetti che non sono portatori di fattori di rischio tradizionali, spingendo quindi i ricercatori a continuare ad indagare circa la scoperta di fattori di rischio aggiuntivi non ancora adeguatamente studiati.

Negli ultimi anni sono stati identificati una serie di nuovi fattori di rischio potenzialmente utili nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, ed in particolar modo l’attenzione è stata incentrata su specifici marker quali

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Lipoproteina(a), fibrinogeno, Proteina C Reattiva (PCR), Omocisteina. Altri elementi presi in considerazione sono stati l’acido urico e la funzione renale.

LIPOPROTEINA(A)

La lipoproteina(a) è una particella simile a LDL in cui una apoproteina A è legata tramite un ponte disolfuro ad una apoproteina B100. Le concentrazioni ematiche di lipo(a) variano notevolmente da individuo ad individuo e sono strettamente sotto controllo genetico. Le funzioni biologiche di questo potenziale marker ateroslerotico del sangue sono ancora poco chiare, ma sembra che lipo(a) sia filogeneticamente coinvolta nella risposta al danno vascolare provocato da agenti infettivi (86).

Quello che appare invece più chiaro è che questa particella rappresenta un reattante di fase acuta nel sangue e che la sua concentrazione ematica raddoppia in risposta al rilascio di citochine pro-infiammatorie (86).

Dagli studi effettuati è emerso chiaramente come lipo(a) abbia la capacità di legarsi avidamente a cellule endoteliali, macrofagi, piastrine e ad elementi della matrice extracellulare della parete vasale, promuovendo così la proliferazione di cellule muscolari lisce e la chemiotassi dei monoliti (86).

Alla luce di quanto detto ed in considerazione della capacità che la proteina ha di veicolare colesterolo a livello di lesioni endoteliali, la lipo(a) è stata postulata come una proteina fortemente atero-trombotica.

Di fronte ad un suo specifico ruolo pro-trombotico, il fibrinogeno potrebbe avere altri potenziali ruoli biologici che rendono plausibile l’inserimento di

FIBRINOGENO

Il fibrinogeno è una glicoproteina circolante che agisce allo stadio finale della cascata emo-coagulativa attivata in risposta a danno vascolare e tissutale (86).

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questo fra i possibili nuovi markers di rischio cardiovascolare; fra queste funzioni troviamo la regolazione nella adesione e migrazione di cellule pro- infiammatorie ed inoltre la vasocostrizione in risposta ad uno stimolo lesivo a livello vasale. Sembra inoltre che il fibrinogeno possa essere coinvolto nello stimolo alla aggregabilità piastrinica e nella determinazione della viscosità del sangue (86).

Anche il fibrinogeno rappresenta un reattante di fase acuta, la cui produzione epatica può essere incrementata di più di quattro volte in risposta a stimoli infiammatori oppure infettivi.

Dati epidemiologici supportano una associazione indipendente fra elevati livelli di fibrinogeno nel sangue e mortalità su base cardiovascolare. In particolare due recenti meta-analisi (87),(88) coinvolgenti rispettivamente 18 e 22 studi prospettici hanno dimostrato una forte associazione statisticamente significativa. Ulteriori altri studi hanno messo in relazione livelli elevati di fibrinogeno con ictus ischemico e vasculopatia periferica, trovando anche in questo caso una associazione forte e indipendente da altri fattori di rischio noti (89).

PCR

La Proteina C Reattiva (PCR) è anch’essa una proteina di fase acuta.

Un certo numero di dati in letteratura deporrebbe per un ruolo di essa come fattore predittivo di eventi caronarici in soggetti asintomatici ed apparentemente in buono stato di salute (90). Inoltre studi prospettici avrebbero evidenziato che PCR è elemento predittivo di recidiva e/o aumentata mortalità per quanto riguarda ictus ischemico (91), sindromi coronariche acute (92), angina pectoris stabile (93) e vasculopatia periferica (94). Infine elevati livelli ematici di PCR implicherebbero una prognosi peggiore in soggetti sottoposti ad angioplastica coronarica percutanea (95).

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L’omocisteina è un aminoacido prodotto dal metabolismo della metionina. Elevati livelli possono essere riscontrati in soggetti con difetti enzimatici geneticamente determinati e si associano a patologia vascolare su base trombotica (96). Tale rischio può essere fronteggiato mediante somministrazione di vitamine del gruppo B.

Alcuni studi avrebbero dimostrato che l’omocisteina può indurre danno vascolare promuovendo l’attivazione piastrinica, lo stress ossidativo, la disfunzione endoteliale, l’ipercoagulabilità e la proliferazione delle cellule muscolari lisce (96).

A conferma di quanto detto, numerosi studi avrebbero dimostrato un’associazione positiva fra livelli di omocisteina e rischio cardiovascolare

(97), ed una meta-analisi che ha incluso più di 4000 pazienti avrebbe dimostrato un aumento di coronaropatia, cerebropatia vascolare ed arteriopatia obliterante cronica nei pazienti con iperomocisteinemia (98).

Il possibile ruolo dell’acido urico come fattore di rischio per malattie cardiovascolari è dibattuto da diverse decadi. Esistono in letteratura diversi studi epidemiologici che correlerebbero livelli di acido urico nel sangue con il rischio di eventi cardiovascolari (99). Nello studio NHANES I (National Health and Nutrition Examination Survey) (100) ,5926 soggetti con età superiore ai 45 anni sono stati osservati nel tempo, dimostrando come i livelli ematici di acido urico fossero un fattore predittivo per mortalità cardiovascolare dopo

ACIDO URICO

L’acido urico è il principale prodotto del metabolismo purinico nell’uomo ed è prodotto a partire dalla Xantina (99).

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aggiustamento statistico per sesso, stato di menopausa, uso di diuretici, razza e precedenti eventi cardiovascolari.

In effetti dimostrare chiaramente un ruolo dell’acido urico come fattore di rischio indipendente può essere complicato dalla concomitanza di terapia diuretica nei pazienti studiati, e dal fatto che spesso l’uricemia è associata ad altri fattori di rischio noti (ipertensione, obesità, livelli bassi di HDL, ipertrigliceridemia, elevati livelli di insulina) a formare quel quadro clinico ben noto come sindrome metabolica. A questo proposito lo studio NHANES I teneva in considerazione la terapia con diuretici, ma non i criteri di definizione della sindrome metabolica, rendendo quindi ardua l’interpretazione dei risultati (99). Tuttavia in un simile studio osservazionale su uomini di media età in apparente buono stato di salute, veniva confermata questa associazione indipendente fra livelli di uricemia e mortalità cardiovascolare anche dopo aggiustamento statistico per gli elementi della sindrome metabolica (99).

Non tutti i lavori sono però concordi. Il Framingham Heart Study (101) ad esempio non ha trovato una associazione indipendente fra uricemia e mortalità cardiovascolare dopo aggiustamento statistico per l’uso di diuretici ed infine una grossa meta-analisi su 16 studi prospettici non ha confermato questa associazione, escludendo l’impiego dei livelli di acido urico come fattore di rischio cardiovascolare (102).

Infine di recente uno studio Americano (103) avrebbe esaminato l’associazione fra livelli di acido urico e vasculopatia periferica, dimostrando un’associazione indipendente dagli altri fattori di rischio cardiovascolari e confermando i risultati di un precedente studio su dei pazienti diabetici di tipo 2 Taiwanesi (104).

Il meccanismo attraverso il quale l’acido urico potrebbe essere associato con la malattia aterosclerotica rimane ancora poco chiaro, ma potrebbe giocare un importante ruolo nell’aggregazione piastrinica, nella formazione di radicali

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liberi e nello stress ossidativi. L’acido urico è anche un potente anti-ossidante non enzimatico, quindi alte concentrazioni ematiche di questo potrebbero anche essere interpretate come una risposta adattativi all’incrementato stress di tipo ossidativi indotto dall’iperglicemia (105).

Per concludere, se l’acido urico sia un reale fattore di rischio predittivo di malattia cardiovascolare oppure un potente marker di stress ossidativo cronico resta ancora una domanda oggetto di dibattito.

RIDUZIONE DI GFR

Negli ultimi anni si è verificato un crescente interesse nello studio di una possibile relazione fra malattia renale e malattia cardiovascolare. Diversi studi hanno esaminato il nesso fra multipli valori cut-off di creatinina ematica ed eventi cardiovascolari, e molti, ma non tutti di questi hanno documentato un incremento del rischio associato ad elevati valori di creatinina (106).

Relativamente pochi studi hanno invece valutato i valori stimati di Filtrato Glomerulare (GFR) con la mortalità generale e cardiovascolare. Nel Second National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES II), un GFR stimato di meno di 70 ml/min per 1.73 mt2 era associato con un incremento del 68% del rischio di morte per cause generali e con un incremento del 51% del rischio di morte per cause cardiovascolari (106). Nell’Atherosclerosis Risk in Communities Study, un GFR compreso fra 15 e 59 ml/min per 1.73 mt2 era associato con un 38% di incremento del rischio di malattia cardiovascolare

(108). Tuttavia, il NHANES I Epidemiologic Follow-up Study non ha confermato questi dati, non trovando una associazione statisticamente significativa fra livelli di GFR compresi fra 30 e 60 ml/min per 1.73 mt2 e mortalità generale e cardiovascolare (109).

Esistono varie spiegazioni per stabilire un ipotetico nesso fra malattia renale cronica e aumentato rischio di morte e di malattia cardiovascolare.

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In un recente studio (106) è stata osservata una aumentata prevalenza di fattori di rischio per malattia aterosclerotica, oltre che una aumentata prevalenza di malattia cardiovascolare, in una ampia popolazione di individui adulti con ridotti valori di GFR. Tuttavia la presenza di ridotti valori di GFR restava fortemente associato al rischio di malattia cardiovascolare anche dopo i relativi aggiustamenti statistici per i vari fattori di rischio, confermando così il possibile ruolo di GFR come fattore di rischio indipendente.

La ridotta funzionalità renale risulta essere anche associata con aumentati livelli di fattori pro-infiammatori, anomali livelli di apolipoproteine, aumentata coagulabilità del sangue, anemia, ipertrofia ventricolare sinistra, aumentati livelli di calcificazione arteriosa ed infine con segni di disfunzione endoteliale. Se e come questi fattori elencati interagiscano con altri nel determinare un aumentato rischio di eventi avversi in soggetti con disfunzione renale rimane ancora non del tutto chiaro (106).

FATTORI DI RISCHIO SPECIFICI NELLA POPOLAZIONE DIABETICA

Proteinuria

A questo scopo uno studio su una ampia coorte di soggetti con DM2 arruolati nel Winsconsin Epidemiologic Study of Diabetic Retinopathy (WESDR) ha dimostrato chiaramente che persone con DM insorto in età adulta e con microalbuminuria o macroproteinuria presentavano rischi maggiori di morte per malattie cardiovascolari e per ictus ischemico se confrontati con pazienti diabetici di tipo 2 privi di microalbuminuria. In particolare i pazienti diabetici . Alcuni studi su pazienti diabetici di tipo 2 avrebbero dimostrato una relazione sia della microalbuminuria che della macroproteinuria con una incrementata mortalità riconducibile a malattie cardiovascolari. Tuttavia alcuni di questi studi hanno coinvolto un basso numero di partecipanti e non hanno chiaramente dimostrato se questo aumentato rischio sia indipendente dalla concomitanza di altri fattori di rischio noti (110).

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di tipo 2 e con microalbuminuria avevano un rischio incrementato di 1.8 volte di morte per malattia cardiovascolare e di 2.0 volte di morte per coronaropatia (110).

I risultati in letteratura non sono però del tutto concordi. Uno studio Giapponese non ha rilevato alcuna associazione significativa (111) ed altri (112) studi ancora avrebbero concluso che la relazione fra escrezione albuminica urinaria e mortalità su base coronarica e vasculopatica non sia indipendente dalle altre variabili correlate al diabete mellito.

Un certo numero di argomentazioni sono state proposte in letteratura per tentare di spiegare questo nesso fra proteinuria e morbidità o mortalità cardiovascolare.

La spiegazione più plausibile di tale evidenza potrebbe essere quella secondo la quale l’albuminuria possa essere interpretata come un marker di importante disfunzione endoteliale o di vasculopatia sistemica, e quindi di uno stato aterogeno. Ci sono studi che in effetti avrebbero messo in risalto l’associazione esistente fra albuminuria, alterata capacità fibrinolitica e aumentati valori ematici di fattore di von Willebrand (110). Evidenze scientifiche estrapolate da trias clinici controllati su pazienti con DM2 hanno inoltre chiaramente dimostrato che uno stretto controllo pressorio può ridurre il rischio di sviluppare albuminuria fra gli ipertesi (113), mentre l’inibizione farmacologia del sistema renina-angiotensina mediante ramipril può prevenire significativamente l’insorgenza della microalbuminuria fra i soggetti non ipertesi (114).

ABPI (Indice di Winsor). L’indice di Winsor (Ankle-Brachial Pressure Index)

è una misura del rapporto fra la pressione sistolica rilevata a livello di gamba con quella rilevata a livello del braccio. Valori di ABPI al di sotto di 0.9 sono riconosciuti come al di sotto della norma. L’ABPI è una semplice e riconosciuta metodica di screening per identificare soggetti asintomatici

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portatori di vasculopatia periferica. Presso il nostro centro, l’ABPI è routinariamente ottenuto come parte integrante di un programma di screening per le complicanze croniche del diabete.

Bassi valori di ABPI sono stati associati ad un aumentato rischio di eventi coronarici acuti fatali nella coorte di pazienti dell’ Edimburgh Artery Study

(115) e ad aumentata mortalità per malattie cardiovascolari (116) indipendentemente dalla concomitanza dei fattori di rischio convenzionali nella popolazione generale. Questi dati confermerebbero quindi l’associazione fra vasculopatia periferica e aumentato rischio di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari nella popolazione generale.

Studi su 344 pazienti del Framingham Heart Study (117) e e su 48 del “man born in 1914” di Malmo (118) hanno inoltre esteso la questione anche alla popolazione diabetica, stabilendo che in questi pazienti la presenza di vasculopatia periferica incrementa la mortalità per cause cardiovascolari. Questi risultati sarebbero stati confermati da un più ampio studio (119), nel quale valori di ABPI inferiori a 0.9 sarebbero associati ad una mortalità cardiovascolare superiore a quella di pazienti diabetici con ABPI nel range di normalità.

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