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2.3 La Tutela della biodiversità e del patrimonio genetico naturale

2.3.3 Il fenomeno della “Biopirateria”

Vandana Shiva identifica il processo di diffusone e sviluppo degli OGM nel mondo in una “seconda rivoluzione verde”; a differenza della prima, però,

427 La base di tali accordi è il già citato NAFTA, entrato in vigore nel 1994. Cfr. par. 1.2.1. 428 Cfr. RAJ PATEL, I padroni del cibo, cit., p. 99.

191 questa è condotta da poteri privati e il suo unico obiettivo è quello del profitto per le grandi aziende che dominano il mercato. Dietro le grandi promesse fatte, secondo le quali queste nuove biotecnologie sarebbero finalizzate a risolvere il cronico problema della fame in molte zone del mondo, la vera finalità dell’intero processo sarebbe quello di ampliare il controllo economico e politico sul settore semenziero, a livello internazionale. Attraverso i meccanismi di brevetto per gli organismi geneticamente modificati, i laboratori delle aziende citate lavorerebbero con la finalità di ampliare lo spettro delle sementi brevettabili, al fine di espandere il controllo delle stesse sull’intero patrimonio genetico disponibile. Al riguardo, si parla spesso di meccanismi controversi e poco trasparenti, quali quello della “Biopirateria”.Il fenomeno non è definito in modo ufficiale e uniforme nella dottrina; è possibile, tuttavia, prendere in esame alcune delle definizioni maggiormente utilizzate nel dibattito. Fra queste, vale la pena citare quella proposta dal gruppo ETC, rete di Organizzazioni della Società Civile impegnata di tutto il Mondo sui temi dell’impatto ambientale e socio- economico delle nuove tecnologie sulle popolazioni del Pianeta430, che propone

la seguente proposizione:

“Biopiracy refers to the appropriation of the knowledge and genetic resources of farming and indigenous communities by individuals or institutions who seek exclusive monopoly control (patent or intellectual property) over these resources and knowledge”431.

Il fenomeno, quindi, consiste nell’appropriamento, da parte di privati o Istituzioni, della conoscenza e delle risorse genetiche naturali appartenenti alle comunità indigene, al fine di applicare certificazioni di proprietà intellettuale sulle stesse.

Le origini di questa pratica possono essere ricercate negli inizi dell’era coloniale, durante la quale le potenze europee iniziarono a “depredare” il nuovo continente e gran parte dei territori, oggi definiti come “Sud Globale”, delle loro

430 Cfr. http://www.etcgroup.org

431. Cfr. DANIEL F.ROBINSON, Confronting Biopiracy: Challanges, Cases and International Debates,

192 ricchezze, senza alcun tipo di risarcimento verso le popolazioni indigene, da sempre detentrici e beneficiarie, delle risorse in questione. Al giorno d’oggi, gli attori principali di tale esercizio sembrano essere, come descritto precedentemente, le principali aziende biotecnologiche, intente a prendere possesso (tramite la certificazione di diritti di proprietà intellettuale) delle ricchezze provenienti dal patrimonio genetico e culturale dei territori abitati, soprattutto, dalle popolazioni indigene. A conferma dell’attualità di tale pratica, vale la pena citare due casi celebri, entrambi relativi al territorio dell’Amazzonia.

Il primo caso, qui menzionato, è quello dell’Ayahuasca, pianta rampicante diffusa nella foresta amazzonica, il cui infuso è noto per avere forti effetti allucinogeni. A fronte delle sue proprietà, la pianta è da sempre utilizzata dalle popolazioni indigene a fini sacrali e mistici; a conferma di ciò, basti pensare che il suo nome Ayahuasca, in lingua quechua, può essere tradotto come “vino dello spirito”. Negli ultimi anni, tuttavia, l’interesse rivolto verso l’arbusto è cresciuta notevolmente, soprattutto da parte di alcuni gruppi religiosi sincretisti brasiliani, tra cui l’União do Vegetal (UDV)432, che hanno cominciato a utilizzare

la pianta nel corso dei propri riti sacri. Questo incremento della base dei suoi consumatori e utilizzatori ha richiamato l’interesse della comunità scientifica internazionale e, soprattutto, delle imprese impegnate nel settore delle erbe medicinali, interessate a mettere le mani sulla proprietà intellettuale dell’arbusto al fine di poter ricavare introiti da un suo possibile utilizzo. In tal senso, Loren Miller, direttore della statunitense International Plant Medicine

Corporation, nel 1986 ottenne il brevetto e l’esclusivo diritto al possesso della

varietà vegetale, di nuovo denominata “Da Vine”, presso le competenti autorità degli Stati Uniti, nella totale noncuranza riguardo al fatto che la stessa veniva da sempre utilizzata dalle popolazioni indigene. Solo anni dopo, alcuni rappresentanti delle popolazioni in questione, “derubate” dalla proprietà dell’Ayahuasca e finalmente a conoscenza di quanto accaduto, presentarono dei ricorsi per il riesame della pratica di certificazione, dichiarando che il “Da Vine”

193 non rappresentava di certo un’invenzione, essendo stato già precedentemente coltivato e utilizzato, e che, pertanto, non poteva essere brevettato. Nel 1999, la Parte postasi a difesa degli interessi delle popolazioni indigene, costituita dalle associazioni Amazon Coalition e Coordinating Body of Indigenous Organizations

of the Amazon Basin (COICA), con l’aiuto del Centre for International Environmental Law (CIEL), vinse momentaneamente la causa, ma senza benefici

per le popolazioni rappresentate433; anzi, nel 2001, il brevetto “Da Vine” fu

restaurato, grazie alla presentazione di nuove prove da parte dello stesso Miller, e rimase valido fino al 2003, anno di naturale scadenza del certificato.

Il secondo caso riguarda, invece, la Maca Peruviana. La radice, storicamente utilizzata dalle popolazioni indigene del Perù (è, infatti, chiamata anche “l’ultima coltivazione degli Incas”), è stata patentata dalla compagnia statunitense Pure

World Botanicals, che ne detiene attualmente 4 brevetti negli USA, relativi a

diverse parti o modalità di utilizzo della pianta stessa o dei suoi estratti434.

Anche in questo caso, tuttavia, tutte le componenti contenute nelle certificazioni ottenute dalla società statunitense non rappresentavano alcun nuovo utilizzo o scoperta riguardo la pianta in oggetto, ma, al contrario, erano pratica comune delle popolazioni indigene del Perù. I brevetti in questione, in altre parole, non facevano altro che “depredare” le popolazioni autoctone di parte della propria cultura, tecniche e tradizioni, al fine di detenerne abusivamente la proprietà e ricavare profitto dal futuro utilizzo da parte di terzi della radice o dei suoi estratti certificati. In questo caso, al contrario di quello esposto precedentemente, il Governo locale è intervenuto prontamente sulla questione, ponendosi a difesa dei diritti delle popolazioni autoctone e della loro cultura tradizionale. Nello specifico, nei primi anni 2000, le autorità nazionali

433 Le autorità statunitensi rimossero momentaneamente il brevetto in questione perché la

stessa varietà vegetale fu trovata nel Chicago’s Field Museum e non perché riconobbe il diritto di proprietà delle popolazioni indigene. Cfr. LEANNE M.FECTEAU, The Ayahuasca Patent Revocation:

Raising Questions about Current U.S. Patent Policy, Boston College Third World Law Journal 21,

2001, pp. 69 – 104.

434 Nello specifico, la società statunitense detiene il brevetto per: i) la versione senza cellulosa

dell’estratto, ii) la tecnica di estrazione, iii) l’uso della pianta per la cura di disfunzioni sessuali in esseri umani e animali, iv) la modalità di somministrazione della cura verso uomini e animali. Cfr. AMANDA J.LANDON, Bioprospecting and Biopiracy in Latin America: The Case of Maca in Peru,

194 intervennero richiedendo la revoca dei brevetti in parola, affermando che essi non riguardavano in alcun modo nuove invenzioni o scoperte, ma conoscenze e usanze tipiche di alcuni territori del Perù, risalenti a secoli prima. Impugnando delle disposizioni normative nazionali che impedivano il brevetto di parti di piante o i relativi estratti, lo Stato riuscì nel suo intento, senza però richiedere (e, dunque, ottenere) alcun risarcimento pecuniario dalla società per l’impropria certificazione della pianta, o definire ufficialmente i detentori e proprietari di tale capitale intellettuale. Ciononostante, grazie al caso in questione, il Governo peruviano agì in difesa delle popolazioni indigene e della loro cultura, impedendo improprie “attribuzioni” delle proprie conoscenze e tradizioni da parte di soggetti terzi.

Il fenomeno della Biopirateria, ben descritto dai due casi esposti in precedenza, rientra appieno nell’ottica occidentale relativa al concetto di “diritto di proprietà intellettuale”, secondo il quale un singolo, individuo o società, può detenere il possesso di una pratica o di un’invenzione, ricavando profitti dall’uso della stessa da parte di terzi. Tale concezione stride, invece, con quella delle popolazioni indigene o di altre culture “non occidentali”, secondo le quali ogni nuova scoperta o invenzione diventa automaticamente beneficio dell’intera comunità e viene condivisa con tutti i suoi membri. L’introduzione forzata del principio del brevetto, dunque, entra fortemente in contrasto con tali culture, costringendone l’erosione di alcuni dei principi cardine del legame sociale tra i membri, quali la condivisione del sapere e del patrimonio culturale comune. Inoltre, sembra evidente che l’avanzare di tali pratiche predatrici può mettere a repentaglio uno degli elementi essenziali alla sopravvivenza stessa degli ecosistemi e delle varietà locali: la biodiversità.