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Fenomenologia

Nel documento Elementi di filosofia giuridico-penale (pagine 178-183)

3. Metodologia del Diritto penale nel secolo XX

3.2. Fenomenologia

La seconda grande scuola metodologica nel Diritto penale del No- vecento è imparentata con il neokantismo – quello di Marburgo –, ma i suoi principi ultimi riposano nella filosofia fenomenologica.

Come è noto, il movimento denominato Fenomenologia è sorto nella Filosofia generale come una reazione contro il positivismo, il psicologi- smo e l’idealismo. La sua parola d’ordine fu il ritorno alle cose stesse, ai dati immediati e innegabili della realtà, alle evidenze stabili, l’ontolo- gia delle cose, per poi edificare su quel sedimento la filosofia e le teorie scientifiche. Edmund Husserl, fondatore di questa corrente, distinse due classi di intuizioni, una che cattura dati fattuali, un’altra che si riferisce alle essenze. La nostra coscienza inizia con i dati empirici, l’esperienza sensoriale delle cose, in definitiva, con i fatti. Questi presentano una de- limitazione spazio-temporale e, per questo, sono contingenti. Tuttavia, quando un fatto si presenta alla coscienza, essa è capace di comprende- re anche un’essenza, per esempio, ascoltando l’aria La calunnia, di Rossini, e discernendo, nello stesso momento, «la musica». Così, ogni volta che la coscienza intuisce fatti, intravede anche essenze delle cose. Le essenze sono forme tipiche di apparizione dei fenomeni. Le si cono- sce mediante una classe speciale di intuizione, che Husserl chiamò in- tuizione eidetica.

Il primissimo oggetto di studio della Fenomenologia fu l’essere ideale, oggetti come i numeri, le leggi matematiche e i principi logici, che non esistono nello spazio né si producono nel tempo, ma possiedo- no una validità propria. Oltre alle essenze ideali, la Fenomenologia si aprì verso alcune ontologie regionali, quali la natura, la società, la mo- rale, la religione e, infine, il Diritto. Lo studio di questi oggetti intende comprendere e descrivere le loro essenze, le modalità tipiche con cui si presentano dinanzi alla coscienza i corrispondenti fenomeni, nel pre-

supposto che tali essenze sono a priori e, quindi, necessarie e autonome rispetto ai fatti in cui si realizzano. Le rispettive proposizioni saranno, quindi, giudizi universali e necessari, poiché riguardano relazioni tra essenze, indipendenti dalla realtà empirica. La filosofia fenomenologi- ca, «secondo la quale ogni processo di conoscenza è, prima di tutto, uno sguardo diretto verso la cosa e deve trovarsi orientato verso di essa» (Aster), non è una dottrina dei fenomeni, ma della struttura essenziale delle azioni in cui queste ci interpellano fenomenicamente. I fenomeni sono soggetti delle scienze empiriche, accanto o sopra le quali vi è una scienza materiale basata sull’intuizione di essenze, che descrive le leggi essenziali del settore fenomenico in questione.

Uno degli indirizzi in cui si è suddivisa la Fenomenologia è stato rappresentato dalla tendenza obiettiva o realista. Il realismo si manife- stò nella fenomenologia dei valori di Scheler e Hartmann, entrambi in- teressati alla esistenza dei valori, piuttosto che al loro modo di essere. I beni, modi di essere dei valori, sono cose che hanno valore, ma i valori stessi sono essenze obiettive, qualità in virtù delle quali le cose possono essere di valore. L’uomo, che qualifichiamo come persona in quanto è centro di azioni intenzionali – caratteristica in cui riposa la sua essenza antropologica, secondo Scheler –, è circondato da un cosmo di valori, che hanno esistenza oggettiva e sono materia, non di un’attività teoreti- ca, bensì di una intuizione emozionale che permette a lui di scoprirli e di riconoscere la gerarchia che si presenta tra di essi.

Nel Diritto, un’espressione della tendenza realista è stata la dottrina delle strutture ontologiche o logico-oggettive, dottrina che si inquadra nel concetto generale di «natura della cosa», non necessariamente fe- nomenologico. Le teorie della natura della cosa nutrono l’intenzione di dedurre dalla materia che bisogna regolamentare giuridicamente il con- tenuto stesso della disciplina, ossia il dover essere del Diritto o, per lo meno, un criterio indispensabile per interpretare i precetti giuridici esi- stenti. Ora, la natura della materia prima del Diritto, la natura della sua «cosa», non deve essere concepita in modo naturalistico, come se fosse un ente, bensì come l’essenza o il senso delle cose. Un modo per fissare tale natura consiste nell’impiego dei concetti di senso, idea, legame tra idee e tipo ideale, andando da «le relazioni esistenziali e le loro regole di condotta individuali fino al tipo ideale dell’istituto giuridico, passan-

do per l’interpretazione di senso riferita a queste idee» (Radbruch). Questo atteggiamento è distintivo della costruzione teleologica di con- cetti che utilizzò l’ultimo neokantismo sudoccidentale nella sua ricerca di concetti-tipi e del fine valorizzato a cui essi rispondono. L’altra stra- da per determinare quella natura è la visione di essenze della fenomeno- logia. E a questo circolo di pensiero appartiene, esattamente, la dottrina delle strutture ontologiche e la sua metodologia penale, conosciuta col nome di teoria finalistica dell’azione.

Hans Welzel, ideatore della teoria, cita espressamente Husserl e Hartmann quando afferma che «non è il metodo ciò che determina l’og- getto della conoscenza, bensì, al contrario, è il metodo che deve diriger- si essenzialmente e necessariamente verso l’oggetto in quanto parte del- l’essere ontico». La sua metodologia, e il sistema penale costruito con essa, consistono in una inversione dell’epistemologia del neokantismo di Baden. Se la comprensione umana è incapace di determinare l’ogget- to, verrà ad essere l’ente, nella sua legalità oggettiva, ciò che determina le classi e forme della conoscenza.

Welzel credette di poter trovare a sostegno di questo spostamento di prospettiva un appoggio in Kant, nel senso che le categorie kantiane sarebbero tanto forme della conoscenza così come condizioni logiche della possibilità dei fenomeni, per cui smettono di rappresentare solo categorie gnoseologiche e si convertono in altre di tipo ontologico.

D’altra parte, l’oggettivismo conoscitivo si associa in lui ad un og- gettivismo valutativo, poiché Welzel concepisce i valori come Scheler e Hartmann, cioè, in modo assoluto e obiettivo, e ad una comprensione delle scienze dello spirito allo stile di Marburgo. Le scienze ricevono il loro carattere dal settore della realtà studiato da esse, prima che dal me- todo che è loro peculiare. Mentre le scienze naturali contemplano la realtà nel suo aspetto causale, quelle dello spirito si occupano di feno- meni che portano impressa una finalità. Nella realtà, dunque, esistereb- be un ordine dell’accadimento causale e un altro del pensare finalista. Da tutto ciò dedurrà Welzel le strutture logico-oggettive, la cui radice è l’essenza antropologica, la capacità dell’uomo di autodeterminarsi in base a senso e fine, e il cui principio metodico consiste nel fatto che il giurista non può «disporre a suo capriccio dei concetti, ma deve sfor-

zarsi di comprendere la struttura ontica di quella realtà della cui com- prensione giuridica si tratta in ciascun caso» (Larenz).

«Tutta la materia giuridica è attraversata da queste strutture ontolo- giche come in un tessuto», assicura Welzel. Il legislatore trova vincoli non solo nelle leggi che reggono il mondo fisico, ma anche nelle strut- ture logiche della realtà, nella misura in cui egli voglia che la sua rego- lamentazione risponda all’essere delle cose32. L’ontologia del Diritto

penale riproduce alcune di queste strutture, tra le quali questo autore ne evidenzia in particolare tre. Primo, che l’azione umana è sempre eserci- zio di un’attività finalistica, non solamente un avvenimento che produ- ce causalmente certi effetti nel mondo esteriore. Questo dato ontologi- co, che non può essere ignorato dal legislatore, è gravido di risvolti si- stematici, in parte legati con la seconda struttura, che riguarda le rela- zioni tra autoria e partecipazione nel reato. Essa contiene la tripla esi- genza che induzione e complicità si presentino quali predicati di un atto doloso di autoria, che la loro dipendenza sia limitata, per cui la puni- zione dei partecipi richiede che l’autore abbia realizzato un fatto anti- giuridico, a prescindere dalla sua colpevolezza, e che la differenza tra l’uno e gli altri sia reale, non qualcosa di creato dal linguaggio o dalle preferenze del legislatore. Infine, la terza struttura si colloca nella col- pevolezza, che si dovrebbe considerare basata nel poter agire diversa- mente, che richiede il riconoscimento del potere esimente dell’errore sul divieto.

Dal punto di vista strettamente metodologico, questa dottrina non ha reso considerabili apporti aggiuntivi a quanto già ottenuto per la rico- struzione dei tipi delittuosi con la metodologia neokantiana. Anche Welzel si serve del concetto di bene giuridico come elemento chiave dell’interpretazione, ma dal punto di vista del suo oggettivismo valuta- tivo, che trasforma le esigenze dell’etica sociale in postulati assoluti o, quanto meno, caratterizzati da una certa rigidità. Sicché il risultato principale della sua impostazione va ricercato nel sistema della teoria

32 Per Welzel, «la violazione di queste strutture non significa che la disciplina non

sia valida, bensì che non raggiungerà il suo fine, e cioè, che si è dettata una disciplina con lacune, contraddittoria e non obiettiva», in altre parole, in contrasto con il suo og- getto o, se si preferisce, che stabilisce una valutazione distinta dell’oggetto menzionato da essa.

del reato che deriva dalla prima delle strutture logico-obiettive, la dire- zione finalistica dell’azione umana. In effetti, se la finalità dell’autore è insita all’azione, ne deriva che il dolo, ridotto alle sue componenti psi- cologiche di cognizione e volizione, appartiene ai tipi come loro aspetto soggettivo. La struttura mista del tipo provoca una modificazione nel contenuto del giudizio di antigiuridicità, che diventa bipartito, ossia, composto dal disvalore d’evento, che corrisponde all’offesa oggettiva di un bene giuridico, e dal disvalore d’azione, che coincide con la vo- lontà cattiva o antigiuridica dell’esecutore (illecito personale).

Questa sequenza ontologica è interrotta da una parentesi in sede di colpevolezza, che si considera in termini esclusivamente normativi, come la rimproverabilità del soggetto per non aver adeguato la propria volontà alle esigenze giuridiche33. I concetti di matrice ontologica riap-

paiono, tuttavia, nella delimitazione tra atti preparatori e tentativo, nella definizione dell’autore del reato e nell’intelligenza dell’unità o pluralità dell’azione. Il primo riposa nel piano concreto dell’autore, la seconda richiede che questo possieda il dominio del fatto e l’ultima prende in considerazione l’unità del fattore finale, secondo il giudizio giuridico- sociale che trasudano i tipi.

La derivazione di concetti giuridici a partire da categorie ontologi- che deve essere giudicata partendo dai presupposti della teoria finalisti- ca. Non ha senso criticarla secondo i punti di partenza di altre scuole, normativiste o concettualiste, perché si tratterebbe di un dialogo tra sordi34. Il vero problema del sistema in questione risiede nel corollario

inevitabile al quale lo condussero i suoi fondamenti fenomenologici. Già si è segnalato che la filosofia del ritorno alle cose stesse ha nel suo grembo la distinzione tra scienze empiriche e scienze delle essenze de- gli oggetti empirici, indipendentemente dalle forme concrete con cui

33 Rimproverabilità che sussiste se egli, nonostante commetta un’azione oggettiva-

mente giustificata e, dunque, lecita, non la commise nella consapevolezza della situa- zione giustificata. Questo è uno dei risvolti dell’illecito personale o riferito all’autore, che si ripercuote nella disgregazione delle responsabilità dei membri di un consorzio delittuoso, poiché l’eventuale giustificazione di uno di essi non si estende necessaria- mente agli altri.

34 Il quale vide quali protagonisti Welzel con il suoi oppositori più importanti, Karl

quelle possano realizzarsi in questi. Così, accanto alla Dogmatica giuri- dico-penale, esisterebbe una scienza penale tout court, la prima occupa- ta da dati accidentali, contingente come questi, la seconda concentrata in elementi permanenti, indiscutibili, dal valore universale. Da qui l’in- sistenza degli adepti di questa scuola35 nel porre in rilievo gli elementi

transnazionali e sovra-positivi della scienza penale, come se questa do- vesse possedere un linguaggio, ma anche alcuni concetti applicabili do- vunque, a prescindere dall’ordinamento che il giurista abbia dinanzi a sé, quale unica scienza «corretta». In altre parole, quello che in origine aspirava ad essere un limite dell’elaborazione concettuale – e una bar- riera ontologica per il legislatore –, cadde nella trappola di trasformare il dato ontologico in fonte dei concetti stessi e, in definitiva, di definire come deve essere il Diritto36.

Con ciò, naturalmente, la fenomenologia applicata alle questioni pe- nali segnò il suo destino, condannandosi ad essere superata da correnti meno proclivi alla mummificazione della Giurisprudenza e alla sua confusione con la Filosofia del Diritto.

Nel documento Elementi di filosofia giuridico-penale (pagine 178-183)