• Non ci sono risultati.

Panorama delle sue definizioni

Nel documento Elementi di filosofia giuridico-penale (pagine 137-141)

3. La pena

3.1. Panorama delle sue definizioni

Come per il reato, numerose sono le definizioni della pena, tante quante le modalità peculiari e concrete di intenderne il concetto.

L’obiezione relativa alla mancanza di nozioni stabili e di un accordo su questo decisivo estremo, non è recente. Hegel ha mostrato che «nella scienza positiva dei tempi moderni la teoria della pena è una delle ma- terie che peggio si è approfondita» e un secolo dopo, Nagler si lamen- tava del carattere vago e indeterminato del concetto di una entità che forma parte di quei fenomeni giuridici e sociali così evidenti, che pochi come questo sono utilizzati con tanta frequenza e senza riserve. Le di- screpanze sulla definizione della pena giuridica provengono non soltan- to dalle diverse prospettive che si adottano per costruire la definizione,

bensì dalla circostanza che il termine ha assunto durante la sua evolu- zione storica anche altri significati, un tempo confusi col giuridico, e la carica di tali significati ha pesato e gravita ancora nella sua definizione. In effetti, Nagler distinse quattro accezioni della pena, ubicate in un piano parallelo a quello della sua delimitazione propriamente giuridica, che definì pena naturale, morale, divina e sociale, e anche Kant si sentì obbligato a dare inizio alla sua dottrina sulla pena, separando la pena giudiziale (poena forensis) dalla pena naturale (poena naturalis) «per la quale il vizio si punisce da solo».

Fattuali sono anche le definizioni legali, naturalistiche e dogmatiche. Di valore più storico che attuale, le definizioni legali rivestirono fonda- mentale importanza ai propri tempi, pur se non hanno mai puntato a fis- sare il contenuto, bensì il fine della pena, come quella che figura ne Las

Siete Partidas di Alfonso X: «pena es emienda de pecho o escarmiento

que es dado según ley a algunos por los yerros que fizieron». Oggi non rimangono segni di questa classe di definizioni nella legislazione civile. Al contrario, il Codice di Diritto Canonico, del 1917, in perfetta con- gruenza con il criterio tradizionale della Chiesa cattolica rispetto al problema dello scopo della pena, ossia, la sua confessata preferenza per l’espiazione, dice che «poena ecclesiastica est privatio alicuius boni ad delinquentis corretionem et delicti punitionem a legitima auctoritate inflicta». In questo passaggio risuona la eco della più antica definizione legale che conosciamo, quella di Ulpiano, nel Digesto: poena est noxae

vindicta.

Le definizioni di carattere naturalistico o sociologico derivano dal- l’esperienza empirica e vogliono trovare in essa la sua aspirazione, mo- strandoci ciò che esiste e deve accadere in base a determinati presuppo- sti. Prevalentemente furono elaborate dal positivismo novecentesco. Una volta che il reato fu contemplato come un fatto individuale e socia- le, risultò perfettamente logico che la pena cambiasse la propria natura, che smettesse di appartenere al piano del dover essere e si tramutasse essa stessa in un fatto: la reazione biologica o sociale contro il malefi- cio. Il naturalismo evoluzionista coniò definizioni del primo tipo, come quella di Garofalo, «un rimedio per la mancanza di adattamento del reo». La versione sociologica del positivismo, che allo stesso modo ve- deva nella società un organismo naturale e vivente, affermerà che la pe-

na è una «reazione sociale contro le azioni antisociali» (Ferri). Questo genere di definizioni, con la loro deliberata identificazione della pena con un fatto, non sono scomparse nell’attualità. Risuonano ancora nella traduzione penale di quella rinascita delle concezioni organiche della società, chiamato funzionalismo sistematico. Non già nel vecchio senso che la pena sarebbe la manifestazione formalizzata di un organismo che reagisce contro ciò che perturba la sua esistenza, bensì come la risposta normativa che permette di stabilizzare il sistema sociale di fronte ad ac- cadimenti che esautorano le norme che lo reggono e le aspettative di comportamento che queste traducono come modelli di condotta41.

Dal canto loro, le definizioni dogmatiche dovrebbero accarezzare il proposito di riprodurre compendiosamente ciò che l’intero spettro di pene di un ordinamento dato mostra come essenziale per tutte e che condensa l’individualità del gruppo. Tutta la questione consiste in come si elabora l’astrazione a partire da quel materiale, per cui è necessario attenersi al Diritto positivo e non introdurre nel concetto questioni atti- nenti alla sua finalità. Tuttavia, spesso i criminalisti si sentono invitati a violare le frontiere del tema. Così, ci sono state definizioni che combi- nano elementi del suo concetto con argomenti attinenti allo scopo, per esempio in Binding e Liszt42. Altre si concentrano su problemi diversi

della Filosofia del Diritto, come l’appartenenza della pena al genere delle conseguenze giuridiche o l’indole del precetto violato dal reato, come quella di Grispigni e Bettiol43.

41 Jakobs dice di essa che «è sempre una reazione di fronte alla violazione di una

norma», una replica fattuale alla prova anche empirica della delusione di una aspettati- va sociale, il cui fine è «il mantenimento della norma come modello di orientamento per i contatti sociali».

42 «La perdita di diritti o beni giuridici che lo Stato impone nel rispetto del Diritto

ad un delinquente, a soddisfacimento della sua irreparabile violazione colpevole del Diritto e per mantenere l’autorità della legge violata» (Binding). «Male che il giudice penale infligge al delinquente, a causa del reato, per esprimere la riprovazione sociale rispetto all’atto e all’autore» (Liszt). La prima definizione imprime alla pena un senso retributivo; la seconda, uno eclettico, retributivo e preventivo speciale.

43 Sono molto simili: «conseguenza che il Diritto oggettivo collega alla violazione

dei precetti criminali» (Grispigni); «conseguenza giuridica del reato, e cioè, la sanzione predisposta per la violazione di un precetto penale» (Bettiol).

Dal canto nostro, pensiamo che potrebbe risultare più semplice e adeguato all’indole dell’argomento concepirla come una perdita o limi- tazione di determinati beni giuridici, imposta secondo la legge dagli organi giurisdizionali e in sentenza definitiva nei confronti dell’indivi- duo che questa dichiara responsabile di un reato. In ogni caso, questa definizione non risulterà applicabile, così com’è, a qualsiasi ordinamen- to, bensì soltanto a quelli rispettosi della legalità e personalità della re- sponsabilità criminale.

Restano le definizioni filosofiche. Sappiamo che obbediscono al- l’obiettivo di cogliere la pena nel suo carattere assoluto, come categoria

a priori del pensiero, libera da ogni condizionamento empirico, non ri-

cavata da questo o quell’ordinamento, presente o storico, bensì esami- nata nel suo maggior grado di astrazione e universalità.

Anticamente, tuttavia, questo genere di definizioni ha confuso la pe- na giuridica con la punizione del peccato o del male morale. Ciò si os- serva chiaramente in quella del francescano spagnolo Alfonso de Castro (1550), che spiana la strada ai secoli dell’Età moderna: «la pena è la passione che infligge un danno a colui che la subisce, o, per lo meno, che di per sé può infliggerlo, imposta o contratta per un peccato proprio e passato». Nel giusnaturalismo razionalista si ripete la considerazione tomista della pena come patimento e, in fondo, come un male, fenome- no ben rappresentato nella celebre definizione di Grozio: malum

passionis quod infligitur ob malum actionis. Invece, celebre merito di

Thomas Hobbes è stato quello di aver spogliato la pena di ogni pretesa di giustizia assoluta, riducendola al semplice prodotto dell’associazione degli uomini sotto l’egida del potere civile, oltre alla segnalazione del carattere pubblico di questa sanzione giuridica44. Ma una rondine non fa

primavera. La comprensione della pena come un male contrapposto ad altro male riappare nei criminalisti contemporanei, che persistono nel definirla quale «un male che s’impone all’autore di un fatto colpevole» (Welzel) e nell’affermare, categoricamente, che chi «nega il carattere di male come segno distintivo della pena, nega in realtà e prima di tutto la

44 «Una pena – scrive – è un danno inflitto dall’autorità pubblica su chi ha fatto o

omesso ciò che si giudica dalla stessa autorità come trasgressione alla legge, affinché la volontà degli uomini possa restare, in questo modo, meglio predisposta all’obbedien- za».

pena stessa» (Bockelmann), come se questa fosse un’idea, non un con- cetto.

Ogni volta che la si definisce come un male si infonde nuova vita al- la falsa valutazione che tinge la pena con reminiscenze etiche, ricavan- dosi «la sua essenza dalla considerazione morale e dall’aspetto sogget- tivo del reato, misto a banali rappresentazioni psicologiche sugli stimoli e l’intensità degli espedienti sensibili contro la ragione» (Hegel). La questione per cui la pena debba essere un male (o un bene) è un contro- senso che dovrebbe essere definitivamente bandito dalle elaborazioni filosofiche o scientifiche su questo frammento dell’ordinamento, per- ché, posto il dilemma in termini soggettivi, emerge che il delinquente può percepire la pena tanto come una sofferenza quanto come un piace- re, e se lo si analizza sul piano dell’interesse sociale, allora si cerca di risolvere un problema giuridico con categorie morali o di pura sensibili- tà, «disconoscendo la differenza di natura e portata tra i due piani» (Ri- vacoba). Qualcosa di non molto diverso può rimproverarsi alle defini- zioni filosofiche che associano al concetto un’allusione allo scopo della pena, poiché quella della finalità è sempre un’idea, e, di per sé, un crite- rio regolativo, che non dovrebbe figurare nel concetto, pena il rischio di perturbare la sua intelligenza.

Nel documento Elementi di filosofia giuridico-penale (pagine 137-141)