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Come si è già evidenziato, le organizzazioni del Terzo Settore adoperano una certa quota di volontari per realizzare le proprie iniziative287: questi soggetti eseguono compiti di vario genere senza ricevere in cambio “alcuna remunerazione di tipo

finanziario, o con una remunerazione minima, configurabile come rimborso spese e, comunque, non rapportata alla quantità e qualità o complessità del lavoro svolto”288. Poiché i lavori effettuati dai volontari non vengono retribuiti a livello economico, occorre riflettere su quali fattori possono stimolare tali persone ad impegnarsi in modo gratuito nelle attività di un ente non profit. Gli studi compiuti su questo argomento hanno individuato tre motivazioni principali: anzitutto, il ruolo di volontario permette di fornire un aiuto concreto ad altri individui ed alla società in generale. Inoltre, tale esperienza consente di conoscere nuove persone e di instaurare con loro un rapporto che ha caratteristiche differenti dalle relazioni che si intrattengono in ambito familiare e lavorativo; anche l’approvazione e l’apprezzamento degli scopi che l’organizzazione si è prefissata giocano un ruolo nella scelta di prestare servizio come volontario289. In coerenza con questi risultati, è stato constatato che la dedizione dei volontari verso l’ente è tanto più elevata “quanto più le motivazioni all’impegno sono di tipo sociale o

relazionale piuttosto che finalistico”290; al riguardo, altre variabili rilevanti consistono

285 Ibidem, pp. 191 – 192. 286 La Porte J.M., Op. cit., p. 102.

287 Cfr. 2.1. La definizione e le caratteristiche. 288 Colozzi I., Bassi A., Op. cit., pp. 203 – 204. 289 Ibidem, p. 212.

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52 nella “consapevolezza di essere personalmente importanti per l’organizzazione”291 e nel “coinvolgimento sociale con gli altri membri dell’organizzazione”292.

L’impiego dei volontari influisce in maniera determinante sulle dinamiche dell’ente: in primo luogo, occorre considerare che i volontari investono nell’organizzazione il loro tempo libero e che, quindi, non frequentano la struttura nella stessa misura e negli stessi momenti. Pertanto, quando si devono trasmettere dei messaggi che interessano tutti i volontari, il ricorso ad una comunicazione diretta è complicato dal fatto che essi non sono presenti contemporaneamente: in una simile situazione, si tende ad assegnare le funzioni di coordinamento ad un numero piuttosto consistente di soggetti e ad utilizzare in prevalenza degli strumenti di comunicazione mediata (come ad esempio il telefono). Tuttavia, questa scelta non è esente da ripercussioni: infatti, la comunicazione mediata può creare un certo grado di confusione tra la vita privata del volontario ed il suo ruolo organizzativo, perché permette di contattarlo anche quando non si trova materialmente nella struttura e si sta dedicando alle proprie incombenze personali o lavorative; al tempo stesso, tale modalità comunicativa può portare i volontari ad entrare concretamente in rapporto con un minor numero di componenti dell’ente293. Per limitare l’impatto di queste conseguenze, è opportuno prevedere un adeguato bilanciamento tra le forme comunicative mediate e quelle dirette.

Un altro elemento su cui è opportuno focalizzare l’attenzione riguarda il fatto che l’assenza di una retribuzione può indurre i volontari a non vivere i propri compiti come obbligatori e ad interpretarli in maniera più elastica: essi “possono considerare le

indicazioni ricevute come dei suggerimenti dando una mano ad altri nel fare altre cose, quando considerano necessario questo aiuto, o evitando di svolgere gli aspetti del lavoro che valutano sgradevoli, inutili o ridondanti”294; ad esempio, i volontari possono essere restii a dedicarsi alle attività ausiliarie, come la verbalizzazione delle assemblee o la pulizia della struttura, perché esse vengono percepite come poco stimolanti ed importanti rispetto al lavoro sul campo vero e proprio. Con tali osservazioni, non si vuole lasciare intendere che il contributo dei volontari sia meno significativo di quello 291 Ibidem. 292 Ibidem. 293 Ibidem, pp. 206 – 207. 294 Ibidem, pp. 207 – 208.

53 del personale retribuito o che quest’ultimo sia immune da fenomeni analoghi, che possono anzi rappresentare una forma di protesta verso la struttura di appartenenza; tuttavia, la problematica descritta non deve essere sottovalutata, se non si vuole compromettere l’efficienza dell’organizzazione295. Una possibile soluzione prevede il reclutamento di personale retribuito per l’esecuzione delle attività ausiliarie;i volontari possono comunque essere coinvolti in tali mansioni, grazie alle sollecitazioni che provengono dai membri dell’ente con cui hanno instaurato un rapporto di fiducia e che possono quindi mostrare loro con maggiore efficacia come anche questi compiti favoriscano il raggiungimento della mission: ad esempio, se il verbale di una riunione viene compilato in maniera comprensibile, le decisioni prese possono essere trasmesse facilmente agli altri e possono così venire attuate in modo corretto ed immediato296.

A tal proposito, va sottolineato che il funzionamento di un’organizzazione che si avvale di volontari può essere descritto nei termini della relazione tra un centro ed una periferia: il centro è formato dai soggetti che manifestano un alto coinvolgimento verso l’ente sul piano della presenza, dell’impegno e delle informazioni possedute; la periferia è composta invece dalle persone che, pur assicurando un certo apporto, sono caratterizzate da un coinvolgimento decisamente inferiore. In virtù della loro esperienza, delle loro conoscenze e delle loro qualità, i membri del centro costituiscono un fondamentale punto di riferimento per i membri della periferia297, che “si rivolgono a

loro per porre domande, per fare proposte o per dichiarare disponibilità e da loro aspettano le istruzioni”298. Il controllo ed il coordinamento delle attività appare quindi legato più ad aspetti informali e relazionali che ad aspetti formali come le cariche ufficiali: “i volontari accettano di ricevere istruzioni e in genere vi si attengono perché

hanno fiducia nella persona particolare che le ha date e non perché sono costretti”299. Inoltre, non va trascurato il fatto che molte organizzazioni del Terzo Settore comprendono sia volontari e sia lavoratori retribuiti: il rapporto tra questi due soggetti deve essere gestito con particolare attenzione, perché la loro compresenza può dare

295 Ibidem, pp. 208 – 209. 296 Ibidem, pp. 216 – 217. 297 Ibidem, pp. 209 – 210. 298 Ibidem, p. 210. 299 Ibidem, p. 210.

54 adito a situazioni conflittuali. Ad esempio, i lavoratori retribuiti possono assumere un atteggiamento svalutante nei confronti dei volontari, dai quali si distinguono sia per il percorso formativo e le competenze professionali, sia per il tipo di impegno organizzativo, che risulta continuativo nel primo caso, saltuario e legato alla disponibilità di tempo libero nel secondo; i lavoratori retribuiti possono anche guardare ai volontari come a dei rivali con cui sono in competizione per l’adempimento di determinati incarichi o addirittura per la posizione occupata all’interno dell’istituzione. Dal loro punto di vista, i volontari possono mostrare poca stima per i lavoratori retribuiti, che non incarnano lo spirito di servizio del Terzo Settore, perché chiedono di venire remunerati per le proprie prestazioni300. Una strategia utile per far fronte a queste occasioni di tensione richiede di “rendere meno definiti i confini tra ruoli retribuiti e

ruoli volontari”301: a tale scopo, i lavoratori retribuiti possono essere incoraggiati ad attuare dei “comportamenti che possano essere letti come “offerta” gratuita

all’organizzazione del loro tempo e/o del loro denaro”302, mentre i volontari possono venire maggiormente coinvolti “nella definizione delle modalità di organizzazione e di

erogazione delle prestazioni”303; interventi come questi dovrebbero promuovere un maggiore avvicinamento tra le due categorie, incoraggiando uno scambio reciproco di natura costruttiva.

Allo scopo di approfondire la tematica del rapporto tra personale volontario e retribuito, è opportuno fare una riflessione sui processi evolutivi che hanno interessato gli enti non profit: nel corso degli anni, le organizzazioni del Terzo Settore, ed in modo particolare le cooperative sociali, sono andate incontro ad una “progressiva

strutturazione organizzativa e gestionale che le ha trasformate in vere e proprie “imprese sociali””304; grazie a questo processo, esse hanno potuto rispondere ai bisogni emergenti della società in materia di servizi socio-assistenziali e hanno potuto adattarsi ai nuovi regolamenti e normative introdotte. Questo fenomeno ha prodotto due effetti principali: da un lato, gli enti hanno dovuto appoggiarsi in misura sempre maggiore a

300 Ibidem, pp. 217 – 218. 301 Ibidem, p. 218. 302 Ibidem. 303 Ibidem. 304 Ibidem, p. 219.

55 lavoratori retribuiti, capaci di garantire prestazioni adeguate dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Dall’altro, la collaborazione dei volontari ha subito un forte ridimensionamento: infatti, per questi ultimi è difficile trovare spazio all’interno di organizzazioni che si concentrano in misura sempre maggiore sulla prestazione e che parallelamente sembrano attribuire minore rilevanza agli aspetti socio-relazionali305. Tuttavia, la diminuzione dei volontari rappresenta uno svantaggio per l’ente, perché la loro azione “affianca alla dimensione tecnico-professionale della prestazione una

dimensione esplicitamente relazionale; limita i rischi di “oligarchizzazione” dell’organizzazione, favorendo un controllo democratico delle decisioni; limita il rischio che l’organizzazione e i suoi operatori vedano solo il problema specifico e non la persona nella sua integralità e unicità”306. Il recupero della componente volontaria costituisce quindi un nodo cruciale che il Terzo Settore deve affrontare, per riaffermare le caratteristiche che lo differenziano dall’ambito pubblico così come dalle imprese di mercato307 e per trovare un equilibrio che consenta di lavorare efficacemente tanto sulla prestazione quanto sulla relazione.