Costanza Costantino
Ingrandimenti di monete antiche.
L'interesse agli effetti economici di una politica finanziaria redistributrice di ricchezza è oggi assai vivo in ogni pae-se si manifesta non soltanto nei con-fronti dei sistemi economici attuali, ma anche di quelli del passato, che hanno — in modo particolare — perseguito tale scopo, come lo mostra un recente e pregevole studio di Giovanni Gera sull'imposizione progressiva nell'antica Atene
Il Pareto, che aveva a lungo meditato il problema, sosteneva2 che Atene sfuggi in parte ai mali peggiori (assassinii, esi-li, divisioni di terre) delle aspre lotte fra popolo e notabili « perché la spogliazio-ne privata vi era sostituita da provvedi-menti assai meglio ordinati di sociali-smo di stato. Ma anche questo fini' col portare i suoi frutti e menare alla rovi-na della città ».
Atene, secondo l'Andreades, è il solo stato di tutti i tempi nel quale si pos-sa studiare il completo sviluppo di una politica finanziaria, che dopo più di 2000 anni è ricomparsa e che, con lin-guaggio moderno, può essere detta so-ciale. Riandiamo brevemente con il Ge-ra all'esperimento finanziario ateniese per trarne qualche meditazione.
L'esame della composizione delle en-trate fra le quali primeggia l'eisforà — un tributo avente per oggetto il patri-monio, mai ordinario nonostante la sua frequenza, almeno nominalmente pro-porzionale, ma in pratica gravante con progressione crescente i ricchi attraver-so la manovra delle esenzioni — ha squarci di grande attualità specie dove ci consente di soffermarci su brani di orazioni di Demostene a difesa dei suoi clienti contro gli eccessi della pressione fiscale. La circostanza che l'oratore, ri-volgendosi all'assemblea, composta cer-to in maggioranza da non abbienti, di-chiari « voi non volete l'eisforà » prova che anche la povera gente temeva l'ei-sforà (perciò non dovevano esservi limi-ti di esenzione o tali limilimi-ti erano molto bassi). Lo stesso Demostene ci parla di poveri contadini, che a volte non posse-devano neppure una schiava e che do-vevano pagare l'eisforà. Le somme eva-se erano modeste; a ridurre l'entità dell'evasione contribuiva il pericolo di essere sottoposti ad un'azione di anti-dosis (richiesta di scambio di patrimoni)
ad iniziativa di chiunque si ritenesse in-giustificatamente più tassato e la minac-cia dei sicofanti (o informatori profes-sionisti), i quali si davano da fare a de-nunziare i ricchi non solo fra gli abi-tanti delle città soggette, ma fra gli ate-niesi.
All'eisforà — riscossa con certezza la prima volta al tempo della prima guerra peloponnesiaca durante il predominio dello sfrenato demagogo Cleone — si aggiunse nel 362 a.C., in conseguenza dello spirito radicale allora prevalente, la proeisforà (o prepagamento dell'ei-sforà) che imponeva ai ricchi di ogni simmoria l'obbligo di anticipare all'era-rio le somme votate dall'assemblea, sal-vo il diritto di farsi rimborsare « prò quota » dagli altri contribuenti. Secon-do il Pareto (Les systèmes socialistes), la proeisforà deve aver determinato in-numerevoli abusi, che vennero ad au-mentare lo sperpero.
Ma l'eisforà da sola non sarebbe basta-ta a dare un'impronbasta-ta di progressività a tutto il sistema tributario, se non vi fosse stata la coesistenza di altri mag-giori oneri sui più ricchi ed in partico-lare delle liturgie (soprattutto la trierar-chia — obbligo di armare e parzialmen-te manparzialmen-tenere con l'equipaggio una trire-me durante un anno) e l'epidosis. Cir-ca la trierarchia, Senofonte nell'Econo-mico (II, 6) dice: « Se scoppia una guerra tu sarai nominato trierarca, e con la trierarchia sarai gravato di tanti e ta-li gravami che non potrai riuscire a so-stenerli. E se opineranno che tu non ti comporti con prodigalità, ti colpiran-no con lo stesso rigore con cui agireb-bero se ti sorprendessero a rubare le loro sostanze ».
L'epidosis non era un'imposta, bensì' una contribuzione volontaria, a cui si ricorreva molto di frequente, sostiene Lécrivain3. Veniva considerato obbli-gatorio per i cittadini ricchi offrire doni alla città. I recalcitranti erano spesso denunziati nominativamente dagli orato-ri; pseudo liberalità del tutto compren-sibili in quanto a volte le confische ope-rate dai demagoghi erano incomparabil-mente più arbitrarie e gravose dei tri-buti di ogni genere, ricorda Aristotele. Ma l'originalità della politica finanzia-ria ateniese stava nella politica della spesa.
In Atene, contrariamente a quanto avve-niva nell'antichità, agli accennati one-ri sui più one-ricchi, corone-rispondeva tutta una politica di favore a vantaggio dei poveri, cosicché appare indubbia la vo-lontà dello stato di dare al sistema fi-nanziario nel suo complesso un netto carattere di progressività.
Contro la politica di Pericle che si van-tava di aver « diffuso l'agio fra tutte le categorie » venne avanzata la grave critica di aver introdotto una specie di socialismo di stato intraprendendo ope-re pubbliche non in funzione della loro utilità, ma solo per fornire occupazione ai cittadini, i quali, quindi, furono por-tati ad abbandonare il lavoro dei cam-pi e presero l'abitudine di affidare allo stato la responsabilità di provvedere al-le loro necessità.
Ma la creazione di pseudo posti di la-voro non era tutto. Poiché la democra-zia diretta in vigore ad Atene esigeva gran parte del tempo del cittadino, si adottò il sistema delle diarie concesse a chiunque passasse la sua giornata nei tribunali, nel senato e nell'assemblea popolare. Inoltre, vi erano largizioni di grano ai poveri; si divideva fra loro la carne delle numerose vittime immolate agli dei; per loro si organizzavano perio-dicamente pasti pagati dai ricchi; se si ammalavano erano curati gratuitamente da medici ufficiali; se divenivano inva-lidi, ricevevano un sussidio giornaliero. Infine i meno abbienti ricevevano un'elargizione, per lo più di due oboli al giorno (il teoricon), per poter assistere agli spettacoli tenuti in occasione delle varie festività ateniesi; tale spesa era dapprima piccola, si accrebbe poi in tal misura che forse divenne maggiore di
tutte le altre spese insieme. Il desiderio di avere degli avanzi da distribuire era tanto diffuso che venivano approvate con grande facilità le più gravose leggi fiscali, anche perché in gran parte colo-ro che votavano sapevano d'essere esen-ti o quasi, dagli oneri votaesen-ti.
Il Bòckh4 definisce il teoricon come la principale cagione della caduta di Ate-ne, il cancro che ne causò la fine. Giustino, nella sua Epitome di Pompeo Trogo, dà come una delle principali cause della decadenza ateniese quella che « le entrate dello stato, che prima servivano a mantenere soldati e marinai,
cominciarono ad essere divise fra la ple-be cittadina »; e secondo Teopompo Atene ebbe una lunga tradizione di cat-tiva amministrazione finanziaria e di demagogia politica.
Aristotele (Costituzione di Atene, XXIV, 3) ricorda che coloro che ricevevano un compenso, o un sussidio regolare dallo stato arrivavano fino a 20 mila, il che significa probabilmente 3 / 4 o 4 / 5 dei cittadini maschi adulti.
E proprio da Aristotele, in Politica (XLI, 3) ci pervengono fin dall'antichi-tà le critiche più imparziali a questo modo di spendere il pubblico denaro. Questi, che pur riconosce la necessi-tà storica di alcune distribuzioni, ripor-ta che i demagoghi confiscavano i beni dei ricchi solo per piacere al popolo; moltiplicavano assemblee e tribunali per avere scuse per pagare compensi; di-stribuivano eccedenze attive ai cittadini corrompendo il popolo senza soddisfare le necessità dei poveri (poiché aiutare cosi gli indigenti è come cercare di riem-pire d'acqua un setaccio); si dilettava-no di imposte sulle proprietà e di litur-gie inutili.
Egli consiglia invece di usare le ecce-denze di entrate non per distribuzioni ai cittadini, ma per incoraggiare il com-mercio e l'agricoltura al fine di rendere durevole la prosperità. Non risulta che i consigli di Aristotele siano stati seguiti. È singolare che gli autori che si sono occupati di questi fenomeni storici ab-biano fermato presso che tutti, ad ecce-zione del Pareto, l'attenecce-zione esclusiva-mente sul trasferimento di ricchezza
che in tal modo si operava, senza avve-dersi che questo si traduceva in una di-struzione sistematica dei capitali mobi-liari — l'elevato saggio d'interesse lo prova — e preparava la rovina certa della città.
Esisteva ad Atene uno spirito di diffi-denza, se non di odio, verso la ricchez-za e tale spirito ispirava i popolari ate-niesi, sia nei tribunali, sia nella riscos-sione delle entrate, sia nella erogazione delle spese. Anche il Barbagallo5 rico-nosce che in Atene si svolse la più viva-ce, talvolta rabbiosa, politica antipluto-cratica.
Qualche pennellata lo mostra.
Secondo Isocrate (Sulla pace, 128), i più poveri avrebbero provato meno
soddi-se possono, coloro che invidiano.
E Lisia in una requisitoria politica (Contro Epicrate, I): « Bisogna riflette-re come spesse volte udiste costoro a di-re, quando volevano ingiustamente far condannare qualcuno, che, non giudi-cando secondo il dettato loro, perdere-ste l'indennità ».
Si potrebbe continuare a lungo, ma lo spirito del sistema è chiaro.
Molte meditazioni scaturiscono dalla av-vincente trattazione, che — come scri-ve il D'Albergo nella prefazione — non si riesce ad abbandonare una volta ini-ziata la lettura. Ma una tutte le sinte-tizza: taluni sistemi finanziari moderni presentano rassomiglianze non trascura-bili con quello della più nobile demo-crazia dell'antichità, senza averne tutta-via i pregi; tra di essi eccelle quello italiano.
Neppure ci è possibile applicare all'Ita-lia la considerazione del Gera: « Pro-babilmente il tenore di vita in Atene rimase basso, perché la scelta degli ate-niesi era di destinare in prevalenza i mezzi alla cultura, al teatro, all'istru-zione ed ai magnifici monumenti pubbli-ci, e non alla produzione ».
sfazione nel riuscire ad appropriarsi dei beni dei ricchi che nello spogliarli dei beni stessi; e ancora (Sulla scambio, 160): « È più pericoloso essere ritenuto per ricco che aver perpretrato un delit-to... di questo si può ottenere grazia o indulgenza, mentre la ricchezza condan-na irremissibilmente a perire ».
Secondo Senofonte (Economico, II, 5, 8), già Socrate aveva mostrato come l'as-setto finanziario della sua città rendes-se l'esistenza dell'uomo ricco più tor-mentata di quella del povero.
Anche Aristotele (Politica, libro V, ca-pitolo IV) ci informa che i demagoghi calunniavano di continuo « al fine di confiscare i beni dei ricchi ».
E di nuovo Isocrate (Sullo scambio, I, 160) dice che al suo tempo (354 o 353 a.C.) erano più persone spogliate dei lo-ro beni, perché ricche, che i malfatto-ri puniti per i loro delitti. Nella stessa orazione lamenta che alcuni giurati sia-no cosi inaspriti dall'invidia e dalla mi-seria da farsi alleati degli ingiusti, ai quali perdonano, mentre fanno perire,
N O T E
1 G I O V A N N I G E R A , L'imposizione progressiva nel-l'antica Atene, Giorgio Bretschneider, Roma, 1975.
2 V I L F R E D O P A R E T O , Les systèmes socialistes,
Pa-rigi, 1902 (ediz. 1965, p. 157).
3 G I O V A N N I G E R A , op. cit., p . 9 9 .
• A . B Ò C K H , L'economia pubblica degli Ateniesi,
1817; tradotto da una nuova edizione e stampato in «Biblioteca di storia economica», diretta da Pareto, Milano, 1903, voi. I, parte 1, citato da
G . G E R A , p p . 1 5 e 1 0 9 .
5 C . B A R B A G A L L O , Il tramonto di una civiltà,
Firenze, 1923, voi. II, p. 30, citato da G . G E R A ,
(Trailibri)
PRESENTATI DAGLI AUTORI F. VICARELLI, Keynes, l'instabilità del capitalismo Voi. di 12,5 x 19 cm, pp. 209
-ETAS libri, Milano, 1977 - L. 3500.
Keynes è quasi certamente l'economista che più intensamente ed estesamente si sia immerso nei problemi della realtà economica del suo tem-po. L'intensità della sua partecipazione alle vi-cende economiche interne e internazionali è un puntuale riflesso del suo carattere, che lo por-tava ad impegnarsi in prima persona e ad espri-mere e sostenere con forza il suo parere su ogni questione che ritenesse rilevante per le sorti del suo paese e per una convivenza civile tra le nazioni. L'estensione del suo impegno è invece il risultato congiunto della sua vasta pre-parazione culturale e del periodo storico in cui è vissuto. Quale periodo, meglio di quello com-preso tra il 1910 e il 1946, avrebbe potuto offrire più occasioni di riflessione e di analisi sulle ca-ratteristiche, il funzionamento, i pregi e i limiti del sistema economico capitalistico? (...) Keynes ha avuto una vasta produzione scienti-fica. I suoi scritti spaziano da un rilevante con-tributo alle basi logiche del calcolo probabili-stico (Treatise on Probability), alla lucida ana-lisi delle istituzioni monetarie e finanziarie del-l'India (Indian Currency and Finance), e del si-stema finanziario inglese alla vigilia della prima guerra mondiale, dalla spietata denuncia degli errori politici e di politica economica commessi dagli alleati alla conferenza per la pace a Pa-rigi (Le conseguenze economiche della pace), e dal governo inglese sul problema del « ritorno all'oro • (Le conseguenze economiche di Win-ston Churchill), ai fondamentali contributi di teo-ria economica (La riforma monetateo-ria. Il trattato della moneta, Occupazione interesse e moneta. Teoria generale).
Keynes è considerato un maestro del pensie-ro economico moderno. La sua Teoria generale costituisce un punto di svolta rispetto ad una tradizione teorica consolidata e ad un metodo di analisi della realtà economica, anche se, a quarantanni dalla pubblicazione, il significato e i limiti di quest'opera sono una questione con-troversa. La Teoria generale può anche consi-d e r a r s i in un certo senso, la summa consi-del pensie-ro teorico di Keynes. Essa si presenta cioè come il punto di arrivo rispetto ad un travaglio d i pensiero che si snoda, con impeto e senza ti-more di cambiar rotta quando la direzione ap-pare sbagliata, attraverso gli scritti che la pre-cedono. (...)
Qual è la visione del sistema economico capita-listico che Keynes si è formato dal suo contat-to con i problemi concreti del suo periodo scontat-to- sto-rico? Quali sono le linee attraverso cui quella visione si è trasformata, nella sua produzione scientifica, in proposizioni teoriche, e cioè in af-fermazioni di validità generale, fino al disegno, appunto, di una Teoria generale? E qual è il filo logico attraverso cui, tra intuizioni geniali, ripen-samenti, contraddizioni, incertezze, oscurità, il corpo di pensiero della Teoria generale ha prèso forma?
Questo libro desidererebbe rispondere, in qual-che modo, a queste domande e vorrebbe farlo con un linguaggio accessibìlee ad un pubblico più ampio degli «addetti al mestière ». A parte la qualità delle risposte, un tale compito mi sa-rebbe sembrato impossibile fino a qualche tem-po fa, allorché la mia attenzione era concentrata su quel ginepraio di letteratura accademica che
i vari tentativi di interpretazione del pensiero keynesiano hanno accumulato negli ultimi qua-ranta anni.
La possibilità di accesso all'intero corpo de-gli scritti di Keynes, e soprattutto alla sua va-stissima corrispondenza epistolare, resa possibi-le dalla recente pubblicazione delpossibi-le sue opere a cura della Royal Economie Society, mi ha molto incoraggiato nel tentare l'impresa. L'incoraggia-mento maggiore, soprattutto, l'ho avuto dalla convinzione, acquisita gradualmente attraverso la rilettura di Keynes con il filtro di molti suoi scritti inediti, che la sua massima aspirazione era quella di farsi capire da tutti. Mi è parso da allora più chiaro il senso del brano con cui Harrod termina la sua Vita di J. M. Keynes: « Due anni circa dopo la sua morte, mi trovavo sdraiato su un pendio della collina del Sussex in una bella giornata estiva. Alto su di me, in sella ad un cavallo bianco, era il bel pastore mutilato di un braccio, ora divenuto bovaro, Beckett Stan-den. Parlava con eleganza contadina del bestia-me, spiegando come la fattoria fosse divenuta autosufficiente in foraggi e descrivendo i pro-getti di Keynes per migliorarla ed estenderla. Evidentemente, sapeva anche di alta politica. ' Sua Signoria non avrebbe mai approvato il modo come hanno dilapidato quel prestito ame-r i c a n o ' . Ci fu una pausa e il suo volto divenne un'ombra più serio; cercava le parole giuste. ' Ma a parte tutto questo, — disse — lei sa ch'era un brav'uomo; sedeva su un mucchio di fieno e mi parlava a lungo, molto alla buona ' ».
A. DEL MONTE, Politica regionale e sviluppo economico - Vói. di 14 x 22 cm, pp. 277
- Franco Angeli, Milano, 1977 - L. 7000.
L'obiettivo del presente lavoro è quello di ana-lizzare l'efficacia delle politiche di sviluppo regio-nale volte a promuovere l'industrializzazione delle aree depresse di un determinato paese. I punti principali che saranno affrontati sono: 1) l'in-fluenza della politica regionale sull'andamento delle principali variabili economiche delle aree depresse; 2) le caratteristiche della struttura in-dustriale di tali aree e le modifiche che tale struttura subisce come effetto della politica de-gli incentivi; 3) considerazioni sull'efficacia dei diversi tipi di incentivi e sui limiti di una politica regionale rivolta essenzialmente ad aiutare le im-prese a risolvere i problemi dal lato dei costi, ma non quelli dal lato della domanda.
I motivi che ci hanno spinti ad una analisi di tal tipo sono da un lato quello di fare il punto sui risultati della politica regionale in alcune aree e dall'altro quello di trarre considerazioni più generali sulle caratteristiche che l'intervento a favore delle aree depresse deve avere per poter essere efficace. (...)
Le linee essenziali della politica di intervento nelle tre aree da noi considerate sono analiz-zate nei primi due^ capitoli. Nei capp. 1 e 2 viene evidenziato come la caratteristica essen-ziale della politica regionale in tali aree sia stata quella di favorire attraverso un sistema di in-centivi la localizzazione di nuove iniziative indu-striali. La politica degli incentivi non è stata però coordinata con altri tipi di interventi volti a favorire uno sviluppo basato sui poli di cre-scita, né tanto meno volta a risolvere i problemi di mercato delle imprese. Il risultato di tale politica è un certo successo per quanto riguar-da la localizzazione di nuovi impianti, ma un notevole insuccesso per quanto riguarda il dar
vita a nuove imprese. Non solo nel Mezzogior-no ma anche in aree più avanzate come la Sco-zia si è assistito ad un declino delle imprese preesistenti all'inizio della politica regionale, e ad una espansione di impianti di imprese ester-ne alle aree depresse. In altre parole lo sviluppo industriale non è avvenuto come espansione in-terna di imprese preesistenti, ma come aumento del numero di imprese esterne che hanno rite-nuto conveniente localizzare i propri impianti nelle aree depresse. (...)
Se questi sono i limiti principali della politica regionale seguita nelle aree considerate non bisogna ignorare che i periodi di politica regio-nale attiva mostrano una dinamica relativa delle aree depresse rispetto al resto dell'economia più intensa rispetto ai periodi di assenza di tale politica. Nei capp. 3 e 4 viene evidenziata que-sta più intensa dinamica relativa negli anni di intervento attivo. In termini assoluti, però, i ri-sultati negli anni di politica regionale attiva non sono sempre migliori di quelli del periodo pre-cedente. In Irlanda del Nord dove la politica regionale è stata particolarmente intensa assi-stiamo ad una crescita del reddito maggiore sia di quella del Regno Unito sia di quella avutasi nel periodo di debole politica regionale. In Sco-zia e nel Mezzogiorno tale dinamica in assoluto rimane inferiore in entrambi i periodi a quella registratasi a livello nazionale e nel caso del Mezzogiorno addirittura inferiore a quella avu-tasi negli anni in cui la politica regionale era più debole. (...)
Nel cap. 6 si mostra che mentre in Scozia ed Irlanda del Nord vi è una tendenza verso la spe-cializzazione nei settori a più alta intensità di lavoro, accade l'inverso nel Mezzogiorno. Inol-tre, è evidenziato nel cap. 7 che nel Mezzogior-no all'interMezzogior-no dei singoli settori, rispetto al pe-riodo di assenza di politica degli incentivi, vi è una spinta molto più intensa verso le produ-zioni più capitalistiche.
Inoltre, nel 1971, nel Mezzogiorno nei settori tecnologicamente più avanzati le dimensioni me-die, che sono un indice approssimativo della intensità di capitale, sono maggiori che nel re-sto d'Italia. (...)
Una valutazione dell'intensità della politica degli incentivi e dei suoi effetti sul livello della