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La fine del mondo: apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche

La lamentazione funebre è quella forma di ethos in crisi oggetto de La

Fine del Mondo (FM da adesso), ne è un caso limite.

In FM non si trova una definizione del concetto di ethos, sotteso in tutte le sue opere precedenti, è un'acquisizione già realizzata, un presupposto che necessita soltanto di ulteriori focalizzazioni.41

La ricerca sulle apocalissi culturali ha ancora al centro l'uomo, la sua presenza, il suo essere nel mondo. La FM continua a sviluppare la tesi del MM ed ha come tema l'esperienza del vissuto di fine mondo come esperienza patologica, come rischio che sottende l'esserci nel mondo e il rapporto di questo vissuto con le forme di riscatto culturale.

Il filo rosso che lega l'opera nel suo insieme, questa raccolta postuma di saggi non organica, è la catastrofe del mondano, dalle religioni storiche alla moderna civiltà occidentale.

Lo studio di De Martino è volto a integrare cristianesimo, marxismo ed etnologia nel tema apocalittico. La fine del mondo, questa crisi della

41 Cfr. P. M. Cherchi, Ernesto de Martino dalla crisi della presenza alla

presenza nella civiltà contemporanea – che si manifesta per esempio nella catastrofe nucleare o nella nausea sartriana – può, secondo l‟etnologo, essere inserita nel binomio crisi-rigenerazione in chiave escatologica vista in termini laici della fine di un determinato mondo storico (come l‟emancipazione dei popoli subalterni che pone fine al mondo borghese nella prospettiva marxiana che de Martino condivide). La prima immagine di apocalisse culturale che l'etnologo analizza è quella proposta dalle grandi religioni storiche in cui la fine è vissuta collettivamente come regresso nel caos e inizio di un nuovo ciclo dell'esistenza del mondo sotto la prerogativa mitica.

La seconda è quella cristiana che rompe lo schema circolare e offre prospettiva di riscatto. Analizza poi movimenti di stampo apocalittico presi dall'ambito etnologico che sorgono in risposta alla traumatica esperienza dell'invasione coloniale che implica l'annullamento del sistema di vita tradizionale e offre due prospettive del finire: un nuovo mondo, un nuovo ordine verso cui tendere oppure l'autentica caduta nel nulla. La quarta immagine è data dall'apocalisse marxiana che verte sulla fine di una determinata organizzazione sociale, premessa di un nuovo inizio.

Scrive de Martino "la fine dell'ordine mondano esistente può essere considerata in due sensi distinti, e cioè come tema culturale storicamente

determinato, e come rischio antropologico permanente. Come tema culturale storicamente determinato essa appare nel quadro di determinate configurazioni mitiche che vi fanno esplicito riferimento: per esempio il tema delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo nel quadro del mito dell'eterno ritorno o il tema di una catastrofe terminale della storia nel quadro del suo corso unilineare e irreversibile. Come rischio antropologico permanente il finire è semplicemente il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, il perdere la possibilità di farsi presente operativamente al mondo, il restringersi – sino all'annientarsi – di qualsiasi orizzonte di operabilità mondana, la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria secondo valori.

La cultura umana in generale è l'esorcismo solenne contro questo rischio radicale, quale che sia – per così dire – la tecnica esorcistica adottata; e se il tema culturale di un certo ordine mondano esistente costituisce una delle modalità storiche di ripresa e di riscatto rispetto a questo rischio anche lì dove questo tema è assente, o irrilevante, il rischio corrispondente è sempre presente e la cultura si costituisce appunto nel fronteggiarlo e nel controllarlo, quale che sia la modalità con cui la

drammatica vicenda si riflette nella consapevolezza culturale storicamente determinata".42 La cultura è meccanismo di rigenerazione.

L‟etnologo fornisce una copiosa documentazione su Jaspers, Jung, Storch, Ey Biltz e molti casi di "disturbi deliranti" ed esamina varie forme di un vissuto di alienazione che comporta la rottura dei rapporti tra io e mondo: la crisi può assumere in alcuni casi la complessa forma di delirio di fine mondo ma può anche presentarsi con forme diverse di vissuto in cui viene messo in crisi il rapporto col proprio corpo, con gli oggetti, con gli altri e con le dimensioni spazio-temporali.

La FM ha come base tre blocchi concettuali: l'ethos del trascendimento di Croce; l'esserci di Heidegger convertito nel dover esserci, sulla base dell'esistenzialismo italiano; la forza psicologica di Janet intesa come la forza morale che permette di arrivare ad una decisione.

L'esserci di Heidegger e la presenza di Janet in de Martino giustificano il continuo passaggio dal campo ontologico a quello psicologico.43

42 E. De Martino, FM, p. 196

43 A tale proposito si veda il saggio di S. Barbera in La contraddizione

Dal MM a FM lo studioso passa dal simbolismo mitico-rituale all'eterno ritorno la cui immagine è data dal rituale del mundus.

Mundus è una fossa situata al centro di Roma dove Romolo vi gettò tutte

le primizie come offerta sacrificale e i cittadini, ciascuno, una zolla della propria terra; è centro di Roma e centro della terra, simbolo che configura il cielo e la terra, il sopra e il sotto e concentra in sé lo spazio cosmico e culturale.

Sotto è il regno degli inferi e della fertilità della terra. "Viene aperto ritualmente tre volte l'anno in giornate nefaste, cataclismatiche. I defunti vagano tra gli uomini, ogni attività importante viene sospesa, il caos torna sulla terra, il passato (i morti) si ripresenta con un volto minaccioso. Ma la normalità quotidiana riprenderà al cessare dei giorni nefasti".44

Il mundus è un simbolo mitico-rituale che fissa il rischio della fine del mondo, rischio simboleggiato dal ritorno dei morti sulla terra e dalla sospensione delle attività culturali come combattimenti, comizi, arruolamento dei soldati, attività amministrative in generale. Viene aperto il 5 ottobre, il 24 agosto e l'8 novembre. Si evoca così il "rischio della fine del mondo, esocizzandolo e controllandolo, attraverso la

limitazione, nel tempo e nello spazio, del ritorno dei morti e della fine di ogni attività culturale umana".45

È anche però possibilità di redenzione: entro questi giorni, per scongiurare la fine, i cittadini hanno la possibilità di redimersi.

La fine e l'inizio del mondo ripropone in forma metaforica il rischio di una sempre possibile caduta psicopatologica, della cultura nel caos e assieme il superamento del rischio in forme di riscatto sociale e culturale secondo il modello crisi-simbolo-reintegrazione culturale.

La coscienza ciclica del tempo si configura come sistema protettivo; media la storicità del divenire umano e lo difende dal rischio di annientarlo nella pura ripetizione dell'identico, l'irreversibilità del tempo degli uomini rischia di farsi reversibile; la funzione simbolica, mitico- rituale del mito delle origini ha proprio la funzione di riprendere la reversibilità e mutarla di segno cioè avviarla nuovamente verso l‟irreversibilità del divenire storico-culturale aperto al dover essere valorizzante.

Tuttavia il tempo ciclico, della sicurezza e della prevedibilità è al contempo un rischio nella storia umana perché questa non deve tornare e non deve ripetersi poiché il suo ritorno indica la catastrofe

dell‟irreversibilità valorizzatrice. Tornare all'identico è il mondo più economico di divenire: non ci sono progressi.

"L'ethos primordiale della presenza ha riplasmato l'eterno ritorno della natura nel simbolismo mitico-rituale in quanto eterno ritorno rituale dello stesso mito delle origini: l'eterno ritorno mitico-rituale è una

imitatio naturae per entro la stessa cultura al fine di dischiudere la storia

in un regime protetto, fondato sul "come se" della destorificazione".46 La natura tende all'eterno ritorno poiché è pigra, la cultura è il drammatico distacco dalla pigrizia della natura; la cultura ha introdotto nella natura l'ethos della presenza in quanto volontà di storia umana che si oppone alla tentazione dell'eterno ritorno.

La fine del mondo come ethos del trascendimento valorizzante lungo tutto il fronte del valorizzabile e quindi come crisi del valore inaugurale del progetto comunitario dell'utilizzabile può essere vissuta su più fronti: come catastrofe degli eventi extramondani, come catastrofe dell'esserci, catastrofe del tempo, conati anastrofici irrisolventi.

La crisi percepita come fine del mondo, come universo in tensione, scatena la ricostruzione magica del mondo come meccanismo di difesa; la crisi vissuta come un essere-agito-da scatena deliri di persecuzione e reintegrazioni magiche.

Dette forme di difesa, in generale, non sono compatibili con la civiltà, appartengono al regno della psicopatologia ed appaiono come spasmodiche e caricaturali.

Le difese culturali cominciano quando ci si apre alla storia; si entra nelle sfere storiche attraverso il nesso mitico-rituale: la storicità viene trasfigurata attraverso l'iterazione dell'identico.

"La fine del mondo nel documento psicopatologico è stata (...) analizzata prevalentemente come catastrofe progressiva di tutti gli ambiti percettivi possibili, come crisi irrisolvente dello stesso sfondo di ovvietà e di domesticità delle cose. Ma a partire dal semplice indeterminato vissuto di spaesamento può prendere rilievo dominante la catastrofe del proprio corpo e della presenza al mondo, nel quadro eminentemente depressivo non tanto di una incombente minaccia apocalittica, che grava sugli oggetti, quanto di un già consumato annientamento del proprio corpo e della propria persona".47

Non è il mondo che crolla ma l'esserci nel mondo, muta il segno della presentificazione intenzionante, cade cioè l'ethos del trascendimento valorizzante su tutto il fronte del valorizzabile.

Nei gradi più leggeri del fenomeno i malati si sentono estraniati, mutati, meccanici, affermano di sentirsi in una condizione crepuscolare, come ci

fosse un velo tra loro e il mondo, vivono senza sentirsi vivere. L'essere- agito-da abbraccia qualsiasi campo del vivere, perciò si sentono come automi, marionette.

La crisi percepita come fine del mondo, come universo in tensione scatena diverse forme di alienazione e delirio.48

48 Una delle forme che assume è il mutamento di significato; in questa situazione il mondo può acquistare troppo o troppo poco significato. Il troppo poco della semanticità manifesta la perdita dell'autentico oltre culturale, dell'operabilità delle cose. Il troppo di semanticità manifesta la modalità del vuoto oltre; gli ambiti percepiti vanno oltre in modo irrelato, in cerca di un orizzonte di percepibilità e questa ricerca è vissuta come attesa catastrofica. Semplicemente, in entrambi i casi si perde il fondo di domesticità percepito nel più banale accadere quotidiano. Il mondo o si allontana lasciando un'intimità vuota oppure irrompe non lasciando margine di scelta valorizzante.

Le fobie, nelle quali entra in crisi la capacità di oggettivazione, minacciano di polarizzare la presenza, di imprigionarla; la presenza corre il rischio di identificarsi con il contenuto fobico stesso, crolla così la stessa oggettivazione come possibilità in modo tale che l'angoscia diventa paralizzante. "Nel contenuto fobico il passato chiede di passare effettivamente, e rammemora che non si può andare avanti senza aver saldato i conti lasciati aperti: ma lo chiede alienato in una metafora incomprensibile, perentoria, esclusivistica, che rinnova la crisi, e scatena l'angoscia paralizzante" scrive a p. 93; l'angoscia è il rischio di passare con ciò che passa in luogo di farlo passare nel valore.

La derealizzazione e la depersonalizzazione sono forme della crisi dei rapporti con gli oggetti e con l'identità della propria persona, anche questi possono essere dipinti nell'orizzonte dei deliri di fine mondo. Il delirio di

nega la realtà, alterazione della realtà vissuta come annientamento della realtà. Mania e melancolia sono ulteriori forme di caduta dell'ethos del trascendimento e ne manifestano la colpa radicale. La seconda si determina come colpa mostruosa, radicale e immotivata che si estende su tutto il fronte dell'operabile, e la colpa è quella di vivere l'ethos del trascendimento e consiste nella perdita di motivazione su tutto il fronte del motivabile, i malati si sentono responsabili dell'infelicità di tutto il mondo. La prima è caratterizzata da una immotivata gaiezza ed euforia, da un mutamento del corso psichico verso la fuga delle idee, abolisce ogni barriera fra la persona e il mondo.

Catatonia e schizzofrenia sono forme di delirio che comportano la

presenza di una paradossale tensione drammatica creante il rifiuto di entrare in relazione col mondo e il tentativo di instaurare con esso un rapporto di relazione e di difesa. Si manifesta nelle ecomimie, ripetizioni di gesti, stereotipie ecc.. La catatonia è conato protettivo di ridurre il divenire dell'essere secondo la destorificazione radicale racchiusa nel rifiuto di qualsiasi rapporto col mondo: ogni nuova posizione del corpo viene isolata dal divenire e mantenuta. Il mondo appare come molteplicità di mondi sensibili, se ne sceglie uno soltanto e lo si isola, come se il mondo si riducesse ad esso. È un meccanismo di estrema difesa. Le stereotipie concedono qualcosa al mutamento ma riplasmano il comportmanto introducendovi un gesto di isolamento e di impartecipazione, come un'armatura che separa e protegge. Il mutare viene accolto ma ridotto alla ripetizione dell'identico e che, in fin dei conti non è un mutare ma un eterno ritorno. In questo ripetere è efficace la forma della ripetizione destorificatrice, non il contenuto: il ritualismo è momento di separazione protettivo dal mondo. È evidentemente paradossale il fatto che nell'angoscia della storia che non si ripete ci si chiuda nel ritualismo e propio per ciò non c'è spazio per mutamento alcuno.

De Martino mette a confronto questi ritualismi psicotici con quelli culturali: "Tutto accade come se la destrutturazione della presentificazione valorizzatrice fosse la caricatura della vita magico- religiosa nelle sue espressioni storico-culturali. La melancolia e il senso di una colpa radicale richiamano- senza dubbio caricaturalmente – la predestinazione calvinistica e il suo senso acutissimo della intrinseca peccaminosità dell'umano, la mania richiama invece la dissipazione apparente dei rituali dionisiaci. Il vissuto di essere-agito-da sembra collegarsi a fatture e stregonerie, mentre i deliri di grandezza sembrano accennare a maghi e sciamani e profeti e messia. Le stereotipie, i ritualismi, i cerimoniali ossessivi ricordano i comportamenti rituali, lo stupore catatonico accenna alla fuga dal mondo dei mistici attraverso l'estasi. La pluralità delle esistenze psicologiche simultanee presenta affinità con la transe del mago, il crollo del mondo con l'apocalittica".49 Come sottolinea Silvano Arieti in Interpretation of schizophrenia (NY 1955) il primitivo che agisce deve essersi sentito in colpa molto spesso; fare è essere potenzialmente colpevole poiché non si può sapere l'effetto che genera una causa. Infatti, colpa e causa hanno lo stesso termine in molte lingue primitive. Il primitivo, dunque, per diminuire il senso di colpa, inibisce l'azione libera ed esegue atti accettati dalla tribù; è la

tribù stessa che insegna agli individui quali atti sono da compiere e in che modo: da qui nascono ritualismo e magia. Il rituale assicura all'individuo che l'effetto sarà buono ed evita il peso del senso di colpa. Arieti paragona esplicitamente lo schizzofrenico al primitivo.

Scrive "in altre parole il paziente si trova nella stessa situazione di un uomo primitivo quando si trovò di fronte alla nuova paventosa arma, la scelta dell'azione. Come il primitivo, egli cercò protezione rifugiandosi in compromessi neurotici, compulsioni e ossessioni, che corrispondono al rituale e alla magia".50

La differenza sta nel fatto che mentre il primitivo è protetto dalla tribù e dal ritualismo magico, il malato calato ormai nel pieno mondo della cultura deve crearsi da sé le barriere protettive.

De Martino cita Arieti nei suoi appunti; probabilmente si serve del paragone schizofrenico-primitivo proprio per quella prospettiva antropologica unitaria verso la quale verte la totalità dei suoi studi.

L'occidente contemporaneo è in preda al terrore di perdere il mondo ma anche da quello di essere perduti nel mondo, si teme di perdere l'ehos del trascendimento oppure si considera il mondo come un‟insidia da cui

mettersi al riparo; il rischio di una guerra nucleare è simbolo di una civiltà che rischia di perdersi, totalmente. E ciò è patologico di per sé: come, del resto, sottolinea la Gallini nell'introduzione a FM, il limite che separa l'apocalittica moderna dalla sfera delle patologie sembra oggi assottigliarsi.

"Nella vita religiosa dell'umanità il tema della fine del mondo appare in un contesto variamente escatologico, cioè come annunzio di un definitivo riscatto dei mali inerenti all'esistenza mondana. (...) L'attuale congiura culturale dell'occidente conosce invece il tema della fine al di fuori di ogni orizzonte religioso di salvezza, e cioè come nuda e disperata presa di coscienza del mondano «finire». E a dimostrarcelo ci sono arti e letteratura. La forma più estrema che può assumere è la catastrofe atomica, la possibilità cioè che l'umanità si autodistrugga"51. La crisi si manifesta non nel suo aspetto immediato ma in forme mediate dalla cultura come per esempio la sensibilità artistica e l'esercizio intellettuale; il delirio di fine viene presentato nel quadro più generale del vissuto di alienazione.

L'esperienza dell'apocalisse nelle arti e nella letteratura52 permette di interpretare le opere come costi di reintegrazione, sintomi di malattia,

51 Ivi, p. 467

come veri e propri documenti clinici. L'arte è un mondo di recuperare gli eventi minacciati dal caos, scende negli inferi per compiere poi l'anabasi.

attenzione alla perdita del rapporto della persona col proprio corpo, con le cose e con il mondo, sintomi di civiltà che ha perduto i propri valori. Camus, Moravia, Sartre sono autori più commentati. La nausea di Sartre è il mondo indigesto, un mondo che non è più incluso nel trascendimento, che non conosce più presentificazioni valorizzanti. La nausea è il rischio della nuda esistenza, spogliata dalla presentificazione valorizzante umana, di tutte le memorie operative della cultura, di tutti i nomi evocanti queste memorie, di tutti gli abiti che rendono familiare il mondo: è quindi il rischio del nulla, della fine del mondo, dell'annientarsi di qualsiasi margine rispetto al mondo. Infatto l'esistenza non può essere nuda, e non può perchè non deve, e non deve perchè essa deve essere ethos del trascendimento intersoggettivo. Prust invece con la sua ricerca del rempo perduto esprime il richiamo del passato in un orizzonte operativo valorizzante che è alla base di qualsiasi vita culturale, di qualsiasi esserci-nel-mondo. Scrive a pagina 564: "Proust vive la crisi del rapporto io-mondo, ridiscende al livello in cui le cose, le persone, il proprio corpo si fanno tombe anonime, anzi fosse comuni del passato, e sorprende l'emergenza di quel rammemorare primordiale da cui prende senso il mondo, e per cui può costituirsi e mantenersi come mondo ovvio, domestico, utilizzabile, inaugurale forma della nostra libertà. Combray che risorge dalla tazza di tè significa che in una tetra giornata d'inverno e nella prospettiva di un triste domani, quando par che il mondo si afflosci, anche da una tazza di tè può ricominciare la inversione di segno, la rispresa che ritesse nel mistero di una oscura affettività il legame con i giorni di Combray e che attraverso quel concretissimo frammento di vissuta cosmogonia, riconquista l'oltre di un mondo sin'allora patito come logoro, transeunte, crollante".

"L'arte figurativa del rinascimento non aveva bisogno di scendere molto in basso per recuperare oggetti ed eventi, e per compiere l'anabasi verso la forma, mentre l'arte contemporanea deve raggiungere livelli molto più profondi per tentare la catarsi"53 per tale ragione non è da condannare se ha consumato la catastrofe della figura.

"La «crisi» nelle arti figurative, nella musica, nella narrativa, nella poesia, nel teatro, nella filosofia e nella vita etico-politica dell'occidente è crisi nella misura in cui la rottura con un piano teologico della storia e con il senso che ne deriva (piano della provvidenza, piano dell'evoluzione, piano dialettico dell'idea) diventa non già stimolo per un