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Mundus patet dall'ethos del trascendimento all'uomo planetario

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UNIVERSITA‟ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTA‟ DI CIVILTA‟ E FORME DEL SAPERE

ANNO ACCADEMICO 2013/2014

TESI DI LAUREA SPECIALISTICA IN FILOSOFIA E

FORME DEL SAPERE

MUNDUS PATET

DALLA CRISI DELL‟ETHOS DEL TRASCENDIMENTO ALL‟UOMO PLANETARIO

IL RELATORE LA CANDIDATA

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INDICE

p. 1 Introduzione

p. 7

1- La crisi dell'ethos del trascendimento:

Ernesto De Martino

p. 13 1.1 Il mondo magico: crisi della persona magica

p. 21 1.2 Morte e Pianto Rituale: la crisi del cordoglio

p. 38 1.3 La fine del mondo: apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche

p. 61

2- L'uomo del nostro tempo

p. 64 2.1 Il sistema tecnico

p. 89 2.1.1 Arte e letteratura nel secolo della tecnica: furore o alienazione

p. 100 2.2 L‟alienazione nel sistema tecnico

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p. 116 3.1 Alcuni dati sull‟impatto del sistema industriale

p. 129 3.2 Il principio di responsabilità e la cultura dell‟essere contro quella dell‟avere

p. 137 3.2.1 Il fallimento della Grande Promessa

p. 142 3.2.2 L‟empatia, un potenziale innato p. 148 3.3 Verso l‟uomo planetario

p. 160 Conclusione p. 168 Bibliografia

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Il comportamento ottuso degli uomini di fronte alla natura condiziona il comportamento ottuso che tengono tra loro Karl Marx Meno si è, e meno si esprime la propria vita; più si ha e più è alienata la propria vita Karl Marx Ci sono tre tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Sant‟Agostino

Che tutto segua il suo corso, questa è la catastrofe! Walter Benjamin

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Introduzione

Viviamo nel tempo della crisi: è tempo di trasformazione che si produce in uno o in molteplici aspetti della vita sociale; sottintende la messa in discussione di modelli di esistenza, individuali o collettivi, che entrano in contraddizione e si svelano inadeguati; è tempo, per definizione, di patologia in cui ogni aspetto del reale appare malato.

Il volto con cui si presenta la crisi attuale, che è quello economico, non ne è che solo una parte, quella che più delle altre - ma non è la sola a detenere il primato - palesa le potenzialità catastrofiche del tipo di società che viviamo.

La crisi è il prodotto del genius saeculi che il pensiero materialista riconduce alla sovrastruttura, prodotta quindi dai rapporti materiali di produzione; ancora una volta all‟economia dunque. Parlare della crisi attuale in senso puramente economico-finanziario è fuorviante e riduttivo; andrebbe inquadrata nella totalità evitando un vuoto primo piano.

Il pensiero della crisi attraversa il Novecento e, tra gli altri, in Italia, Ernesto de Martino l‟indagò.

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La crisi della presenza è il tema sul quale si sviluppano le sue opere: dal

Mondo Magico alla Fine del Mondo, de Martino analizza il cambiamento

di segno dell‟ethos del trascendimento che non crea più valore nell‟azione, nel concreto, poiché è nel trascendimento nel mondo che l‟uomo testimonia la valorizzazione dell‟ethos, attraverso la propria presenza, il suo esserci.

Secondo l‟antropologo la presenza è esposta perennemente al rischio di non esserci, fa parte del cammino antropologico doversi confrontare, di volta in volta con delle crisi. A partire dal mondo magico dove la presenza non è una datità ma in costante formazione ed è pertanto esposta sempre al rischio della dissoluzione; è una conquista, l‟esito di un faticoso dramma esistenziale. Ebbene, la presenza nel mondo magico lotta per affermarsi, testimoniando in tal modo la volontà di esserci. È una crisi singolare e collettiva nello stesso tempo: è il singolo che vive l‟angoscia e forma la collettività anch‟essa dunque, nel complesso, esposta al rischio di non esserci.

La magia, in questo mondo, si configura come destorificazione istituzionale: riporta la presenza a valorizzare l‟ethos nell‟azione; compie la catabasi verso le realtà psichiche in rischio e realizza l‟anabasi verso i valori; reintroduce quindi la presenza nel mondo aiutandola a superare la crisi attraverso la creazione di valori.

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Il tempo, nelle culture arcaiche è vissuto in maniera circolare, per cui il binomio crisi-rigenerazione vi si può configurare.

Il tempo ciclico, della sicurezza e della prevedibilità è al contempo un rischio nella storia umana perché tornare all'identico è il mondo più economico di divenire: non ci sono progressi. La natura tende all'eterno ritorno poiché è pigra e la cultura si configura come il drammatico distacco dalla pigrizia della natura; la cultura ha introdotto nella natura l'ethos della presenza in quanto volontà di storia umana che si oppone alla tentazione dell'eterno ritorno.

Con l‟avvento del cristianesimo il tempo diventa lineare, irreversibile; la rigenerazione è nella Passione di Cristo, l‟evento fondatore, la reintegrazione è escatologica. Il tempo è irreversibile, non c‟è possibilità alcuna di ritorno. La rigenerazione, reintegrazione culturale, è intesa come revisione dei comportamenti e dei pensieri adottati per orientarli secondo la prospettiva, in questo caso, della risurrezione dei morti e del giudizio nell‟aldilà.

De Martino analizza la sensazione di fine mondo nella cultura contemporanea che scorge, per esempio, nella catastrofe nucleare o nella nausea di Sartre. Sembra suggerire che la crisi della presenza oggi possa venire superata in una sorta di escatologia umanistica, scevra da principi

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religiosi, che vede come obiettivo l‟emancipazione dei popoli subalterni. Una reintegrazione culturale.

Da qui comincia il mio cammino: scoprire la natura della crisi contemporanea, indagare ciò che pone la presenza di fronte al rischio di non esserci e valutare se questa possa essere inserita nel binomio crisi-reintegrazione culturale.

Il tema materialista da cui ha preso avvio la seconda parte del lavoro, mi ha portato ad analizzare la struttura che non è solo precipuamente economica della società. Balza subito agli occhi come la tecnica, da ancella dell‟economia, sia divenuta il principale fattore della produzione industriale, come abbia conferito agli uomini il potere di diventare creatori e gli abbia fatto poi provare la vergogna prometeica, quella cioè di non essere all‟altezza dei prodotti che egli stesso ha plasmato.

Il sistema capitalistico nasce della dissoluzione dell‟ancien régime; l‟uomo diventa libero, indipendente, autosufficiente e critico. La nuova libertà, come ci dice Eric Fromm, crea però un profondo sentimento di insicurezza, solitudine, impotenza, dubbio e ansietà. Ciò rende gli uomini facili prede di una volontaria sottomissione a determinate autorità: dopo la palese schiavitù del sistema medioevale si passa alla schiavitù velata del sistema tecnico-capitalistico.

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Seguendo il percorso di quest‟ultima, si nota come, almeno fino ad un certo punto, seguiva l‟evoluzione dell‟uomo: con il fuoco, la prima invenzione tecnica, le tribù cominciarono a spostarsi, con la zappa creare comunità sedentarie, con l‟aratro renderle più grandi e così via. Quando però viene inserita nel modo di produzione, subisce un‟accelerazione tale da surclassare l‟uomo: un successo diventa l‟occasione di ulteriori passi in tutte le direzioni possibili; la sua velocità è tale da inglobare tutto ciò che incontra.

La teoria del ritardo culturale di William Fielding Ogburn - la quale, semplificando, presuppone l‟esistenza di due variabili in equilibrio e la dimostrazione che una è cambiata rispetto all‟altra e la conseguente rottura dell‟equilibrio – si può facilmente applicare alle variabili uomo-tecnica per svelare il profondo gap che tra esse si è venuto a creare. La seconda, inserita nel modo di produzione, ha delle caratteristiche tali che le permettono di superare a gran velocità l‟evoluzione dell‟uomo: il sistema tecnico si autoriproduce, è universalizzabile, rapido e fagocitante. Crea i presupposti per riprodursi, pervade ogni ambito del reale, distrugge con una velocità impressionante tutto ciò che incontra per far valere le sue ragioni. Riduce tutto ciò che incontra ad oggetto manipolabile, utilizzabile. La tecnica, se c‟è, deve essere usata, provata, sperimentata senza pensare ai possibili rischi che potrebbe comportare.

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L‟uomo si assume il rischio, vive nella società del rischio la cui entità non è né calcolabile né prevedibile.

Con questo tipo di struttura, date le sue caratteristiche, diventa destino dell‟uomo servire il modo di produzione tecnico-economico, accumulare capitale come fine in sé, consumare in modo crescente, servire la macchina. Diventa un ingranaggio di quella che Lewis Mumford e Jaques Ellul definirono “la Megamacchina”.

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1- La crisi dell'ethos del trascendimento:

Ernesto De Martino

Il concetto di crisi della presenza, la mutazione di segno dell'ethos trascendentale è il filo conduttore delle opere demartiniane: l'uomo di ogni epoca è chiamato a confrontarsi con il pericolo di non poter più esserci in qualsiasi mondo possibile; le apocalissi culturali dunque, secondo De Martino, ci accompagnano durante il nostro percorso antropologico.

Dal Mondo Magico (1948) alla Fine del Mondo (opera postuma, 1977), lo studioso segue un percorso che lo porta dall'analisi della crisi nel mondo antico per arrivare poi a quelle della società post industriale. Compie ricerche cercando di integrare etnologia, psicopatologia e filosofia, una triade che è il suo vero punto di forza, novità nell'orizzonte italiano. Rompe con gli schemi etnocentrici propri dell'evoluzionismo, col positivismo, gli indirizzi diffusionistici e funzionalistici, ponendo le basi per un‟etnologia guadagnata alla storia. Un'etnologia che unisce il mondo coloniale al mondo subalterno occidentale – unità data da condizioni e rivendicazioni sia sociali che politiche – collocata in modo ambivalente tra idealismo, e materialismo, tra Heidegger, e Marx.

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Un'etnologia, come lui stesso la definisce, di più ampio umanesimo, che diventa "disciplina del confronto del proprio con l'alieno1 che mira a raggiungere la consapevolezza antropologica attraverso la problematizzazione del nostro e il recupero dell'alieno.

I suoi studi ci mostrano un impegno nella ricerca di una prospettiva antropologica unitaria, che metta in relazione il proprio con l'alieno, unità prodotta dalla crisi della presenza che minaccia l'uomo fin dalle culture primitive e non arresta il suo corso neppure oggi di fronte all'uomo occidentale moderno2. La prova di detta unità antropologica si trova nei documenti psicopatologici – nei registri delle malattie psichiche nel corso dei secoli – dal loro confronto.

Egli li considera forieri di senso, strumenti che si strutturano sulla e contro la crisi, fondamentali anche per studiare le forme di quest'ultima in relazione al riscatto culturale. Lo scopo non è quello di spiegare il sano col malato ma di mostrare in che modo la crisi incide sull'essere, o meglio, sul volerci-essere-nel-mondo, in che maniera questa si manifesta con tutta la sua potenza, mostrare e comprendere il sano nella sua concretezza, nel suo farsi sano oltre il rischio di ammalarsi. I vissuti

1 E. De Martino, Cultura e scuola, n. 11, 1964, p. 8

2 Scrive in Furore Simbolo Valore "L'etnologia e la storia delle religioni confermano la tesi secondo cui una delle funzioni fondamentali della società consiste nel controllo e nella risoluzione di ciò che Freud chiamò l'«istinto della morte» cioè l'abicazione della persona come centro di decisione e di scelta secondo valori, la cieca evasione della eversione e del caos, la nostalgia del nulla". Cfr E. De Martino,

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psicopatologici mettono a nudo il momento del rischio con particolare evidenza.

Risulta difficile inquadrare De Martino, fissarlo in correnti di pensiero. La Pasquinelli lo dipinge come "un solitario, quasi un marginale, uno che ha battuto una propria strada e l'ha perseguita con metodo fino a ritrovarsi ogni volta in una posizione eccentrica o decentrata. Comunque sempre altrove dai percorsi ufficiali, in zone di frontiera o in quelle terre di nessuno ai confini tra una disciplina e l'altra, spesso giocando d'anticipo, più spesso di rimessa, quasi sempre di azzardo”.3

Quando l'egemonia di Croce era indiscussa egli tentò di estendere la metodologia storicista all'etnologia;4 suscitò la diffidenza della sinistra, ed in

3 C. Pasquinelli, Solitudine e inattualità di Ernesto de Martino in Ernesto

de Martino nella cultura europea, Liguori, napoli, 1997, p. 283

4 Ne il MM De Martino prende le distanze dal crocianesimo ortodosso sostenendo la tesi della storicizzabilità delle categorie crociane, rivaluta il mondo culturale delle società tradizionali intrise di magismo contro la filosofia implicitamente etnocentrica del Croce il quale non prestava attenzione alcuna ai mondi culturali delle società "primitive" extra occidentali. Lo storicismo dei crociani, secondo il De Martino è assolutamente incapace di guardare al di là della civiltà occidentale, nei cui confini resta imprigionato, è pigro, dogmatico e intento a tramutare ogni verità in verità spirituale e statica. Il mondo della magia ha invece per lui una sua realtà precategoriale ed è visto come una primordiale rappresentazione del mondo, funzionale al bisogno di garantire la presenza.

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particolare di Togliatti, per i suoi interessi per le pratiche magiche, il vissuto psicopatologico e le percezioni extrasensoriali.

Quando diede alle stampe il Mondo Magico lo scritto non venne compreso dai filosofi "che cercarono ognuno per suo conto di ricondurlo entro il recinto angusto del proprio pensiero per poi rimproverargli di starne fuori, né tantomeno fu apprezzato dagli etnologi a cui dovette risultare talmente estraneo da valergli (...) la beffarda qualifica di etnosofo”.5

Benedetto Croce sottopose a una critica impietosa l‟opera di de Martino, attaccando soprattutto quell‟ammissione demartiniana della storicità delle categorie che, di fatto, segnava il punto di maggior rottura con l‟ortodosso storicismo crociano. L‟errore imperdonabile commesso da de Martino è da Croce ravvisato in un indebito capovolgimento della prospettiva del “vero” storicismo: dimenticandosi che è lo spirito a creare la storia, de Martino ha ammesso l‟esatto contrario, facendo dello spirito un qualcosa di creato dalla storia nel suo incessante avanzare. Già nella seconda edizione de Il mondo

magico (1958) l'autore ritratta la precedente sua tesi che poneva la magia in

una fase precategoriale dello sviluppo del pensiero umano, per riaderire ai fondamenti delle critiche mossegli dal Croce.

La diatriba con Croce non è interesse del presente lavoro. A tal porposito si veda: A. Omodeo, il senso della storia, Torino 48, pp.107-112; Filosofia e

storiografia, Bari 49, pp. 192-208; "Intorno al magismo come età storica",

in Atti Accademia Pontaniana vol. I 1948. C. Pasquinelli, "Lo storicismo eroico di Ernesto de Martino", in La ricerca folklorica, II-III 81, pp. 77-83; G. Galasso, Croce Gramsci e altri storici, Milano 69, pp. 222-335

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Non scandalizza dunque che su di lui sia calato il silenzio, e quando se ne riparlò, a dieci anni da sua morte, gli valse l'appellativo di "meridionalista" che non rende giustizia al suo pensiero ed ha anzi contribuito in tal modo ad isolarlo in maniera definitiva.

Spogliamoci dunque di etichette ed appellativi, cerchiamo di inquadrare l'etnologo senza ricorrere alle dietrologie del pensiero che ossessionano molti commentati filosofi e che, come nel caso precipuo di De Martino, contribuiscono ad emarginare e conseguentemente ad eliminare dalla scena pensatori che in realtà sono "avanti"6 col pensiero rispetto a chi si è assegnato il compito di giudicarli.

L'obiettivo che si propone il presente capitolo è vedere come De Martino sviluppa il concetto di crisi della presenza nelle sue opere, a partire dal suo primo lavoro: il Mondo Magico (d'ora in avanti MM) che si annuncia come saggio storiografico, ma esibisce solo in minima parte quel tipo di documenti che per la storiografia sono fondamentali; è dunque un'opera di carattere filosofico più che storiografico.

Il pericolo in cui incorre l'etnologo occidentale è quello di analizzare altre culture collocate in determinati periodi storici con le proprie

6 Di quest'avviso, tra gli altri, è Cirese il quale afferma che De Martino era "avanti" anni luce rispetto a lui e le diatribe tra di loro nacquero proprio per questo. Cfr Straniero, "Un colloquio con Cirese su Ernesto de Martino", in La musica popolare, vol. 14, 1976, pp. 2-33.

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categorie e di bollare con facilità alcuni comportamenti come psicopatici, come è accaduto nei casi di maghi e stregoni del mondo antico; è molto probabilmente, per tale ragione, che si hanno scarsissime testimonianze di ricercatori sul mondo magico, pertanto il documentumento storiografico è quasi inesistente nell'analisi demartiniana.

"Fin quando ci osterremo a giudicare il mondo magico per entro categorie tradizionali occulteremo ai nostri occhi il dramma che gli è proprio".7

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1.1

Il mondo magico: crisi della persona magica

"La tesi del mondo magico si può riassumere nella semplice assunzione che gli spiriti non esistono e non possono esistere per noi educati europei del XX secolo, ma sono una realtà per gente di altra educazione. La magia diventa per De Martino la forma di lotta della umanità in una fase in cui il problema fondamentale era il rischio di non esserci, la mancanza di una garanzia della presenza. Mentre gli uomini di oggi lottano per la libertà, gli uomini di ieri – inteso il ieri in senso di fase anteriore dello sviluppo spirtuale – lottavano per la presenza e la lotta si chiamava magia. Il linguaggio del mondo magico è genericamente esistenziale”.8

La tesi del mondo magico è dunque la crisi della presenza di cui gli istituti magici costituiscono il riscatto naturale.

De Martino riprende dall'analitica esistenziale il concetto di presenza; il capitolo centrale del mondo magico è concentrato sulla concreta applicazione di questo concetto rispetto al magismo.

8 Momigliano A., “Per la Storia delle religioni nell‟Italia contemporanea: Antonio Banfi ed Ernesto de Martino tra persona e apocalissi” in La

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La presenza demartiniana equivale perfettamente ad "esserci" ed ha un senso prettamente ontico e non fa transitare in se nessuna connotazione ontologica; l'essere nel mondo magico è possibile in un orizzonte esistenziale storico-culturale non ontologico-trascendentale come l'esserci di Heidegger, secondo cui l'essere nel mondo è una condizione già da sempre data - l'essere nel mondo e il dasein sono una datità - il dasein non può dunque essere rappresentato in una fenomenologia della crisi poiché non gli appartengono contenuti critici che mettono in causa la certezza ontologica del suo essere.

Per De Martino invece la presenza non è data e si configura come un problema, ed il magismo lo prova: la presenza è l'esito di un complesso e faticoso dramma esistenziale, una conquista sempre esposta al rischio della dissoluzione; il mondo magico è una fenomenologia del farsi della presenza.9

"L'interesse dominante del mondo magico è la conquista e la consolidazione dell'esserci della presenza. Difendere, padroneggiare, regolare l'esserci della persona e creare ordine nel mondo di conseguenza”.10

9 Cfr. P.M. Cherchi 1987

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E ancora "il problema del magismo è di garantire un mondo a cui un esserci si sente presente. Nella magia il mondo non è ancora deciso e la presenza lo decide”.11

Crisi della presenza è dunque volontà di esserci nel mondo.

Nel mondo magico crisi e presenza sono concetti che si accompagnano: la presenza segnala la crisi e la crisi la presenza. Quando insorge il rischio di non esserci, rischio di perdere la cultura e cadere nel campo della natura, la presenza vi resta impigliata ed entra in una profonda contraddizione esistenziale con se stessa: da qui ha inizio la crisi della presenza.

Nel MM la presenza, l'esserci nel mondo, è preso in esame come problema collettivo, come problema generale. I suoi protagonisti sono gruppi definiti su base etnica o personaggi collettivi; non ci sono personaggi ma ruoli che ricoprono determinate persone all'interno della società magica come lo stregone e lo sciamano, gli specialisti che possono rialzare il mondo dalla sua caduta stabilendo un nuovo ordine di partecipazione.12

11 Ivi, p. 145

12 In Morte e pianto rituale saranno le donne che piangono il morto e i contadini lucani i personaggi collettivi ma avranno un nome (Rosa Stasi, Rocco Tammone...); i loro nomi sono al centro della storia, in un tempo e in un luogo entro i quali il lettore è invitato ad incontrarli. Sono

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Nel mondo magico dunque l'esserci non è un fatto, ma un compromesso storico: l'individuazione non è del tutto formata. Da ciò il dramma della presenza che, davanti al rischio di annientarsi nel mondo, si trova a possedere un alter ego.

Il dramma magico ha quindi due poli: il crollo della presenza, annullamento totale, scatenarsi di impulsi incontrollati e il riscatto della presenza che vuole esserci nel mondo.

E' il dramma che, in sostanza, creò il mondo della magia.

"Dramma magico è entrare in rapporto col maligno, cioè con la propria angosciosa labilità, e nell'acquistare il potere di combatterlo e scacciarlo equivale a conquistare il potere di padroneggiare la propria labilità".13 Quando ha inizio il dramma storico della magia? Tutto "comincia con l'angosciosa esperienza di una presenza che non riesce a mantenersi di fronte al mondo. Dentro quest'esperienza si costituiscono le prime e più semplici rappresentazioni magiche segnalatrici del rischio come l'influenza maligna a cui si è sottoposti, che costringe l'esserci ad abdicare. La stessa forza magica nel momento del riscatto si determina

individui, che nel MM invece non comparivano. E' una storicità idealistica quella del MM, senza cronologia e diacronia. I contadini lucani lo costringeranno poi a misurarsi con la gli eventi; saranno la voce del mondo popolare subalterno che chiede di entrare nella storia.

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come resistenza al rischio di dissoluzione dell'esserci, come sforzo per debellare il maligno. La presenza si manifesta come una tensione che minaccia di fuggire via. La dissoluzione è una forza maligna, insidiatrice e angosciosa. Nel momento del riscatto si determina come resistenza al rischio di dissoluzione. Ha una precisa collocazione: parti del corpo o oggetti. (...) Oggetti che vanno oltre il loro orizzonte sensibile si sottraggono ai loro limiti e precipitano nel caos. Crisi orizzonte sensibile: rischio di perdere ogni limite: tutto può diventare tutto; il nulla avanza. La magia recupera per l'uomo il mondo che sta perdendo. Nel mondo magico le cose possono prolungarsi oltre i limiti sensibili: la realtà sentita può effettivamente violare la durata dell'attualmente sensibile (del non ancora deciso)".14

Le manifestazioni del rischio di non esserci-nel-mondo si possono riscontrare nella letteratura psichiatrica: il malato è staccato dal presente, non può completamente esserci; la realtà del mondo appare strana e la presenza è avvertita come perduta, come polarizzata in un frammento critico non deciso. Il soggetto patologico è il sé stesso reso prigioniero di un contenuto particolare15.

14 Ivi, pp. 141-149

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La presenza in crisi "viene riscattata attraverso un'esistenza a due che restituisce orizzonte all'esserci. La dissoluzione viene arrestata e la presenza riprende se stessa in virtù di una fissazione in un oggetto l'uomo e la pietra, l'uomo e la bestia, l'uomo e la sua ombra stanno come due in uno e la presenza che non si mantiene davanti al mondo supera il proprio rischio con un compromesso.

Il rischio magico dell'interruzione caotica del mondo nell'io o del deflusso dell'io nel mondo implica necessariamente un rischio anche per l'oggettività del mondo; è crisi del mondo nella sua oggettività: come la resistenza dell'esserci alla propria dissoluzione genera la rappresentazione dell'influenza maligna a cui la presenza è esposta e della forza personale magica attraverso cui questa influenza è combattuta e debellata, così la resistenza dell'esserci alla dissoluzione del mondo genera la rappresentazione di un "oltre" pericoloso delle cose e degli eventi. Poi la rappresentazione di un ordine pragmatico in forza del quale padroneggiare quell'oltre e arrestare il processo di dissoluzione"16.

È, in altre parole, la reintegrazione magica che opera attraverso la destorificazione istituzionale: "Viene istituita una presenza rituale a

Aut, 1956, pp.17-38.

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carattere iterativo, impersonale e sognante: tale presenza (...) è tecnicamente adatta sia a operare la catabasi verso le realtà psichiche in rischio di alienazione, sia ad avviare l'anabasi verso i valori”.17

Attraverso la destorificazione istituzionale è possibile creare valori, fornire orizzonti di senso, dare avvio al processo di reintegrazione dell'esserci-nel-mondo. Dirà in Morte e Pianto Rituale "il carattere fondamentale della tecnica religiosa sta nel contrapporre alla destorificazione irrelativa una destorificazione istituzionale del divenire, cioè una destorificazione fermata in un ordine metastorico (mito) col quale si entra in rapporto mediante un ordine metastorico di comportamenti (rito). (...) Con ciò è offerto un orizzonte per entro il quale si compie la ripresa delle possibili alienazioni individuali e la loro riplasmazione nei valori culturali".18

De Martino sottolinea questo importante aspetto della destorificazione: le tecniche magico-religiose non salvano se non aprono ai valori, se non sono storiograficamente ricostruibili come momenti economici che agevolano l'anabasi. Assegna al mito il ruolo di paradigma metastorico in grado di orientare l'andamento della prassi rituale, all'iterazione rituale quello di mascherare i momenti critici del divenire presentandoli

17 E. De Martino, MM p. 31

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come se fossero ripetizioni di un paradigma di crisi-riscatto che ritorna sempre uguale a se stesso19. Entro la protezione mitico-rituale si enucleano, a vari livelli di autonomia e consapevolezza "vita economica e sociale, diritto e politica, ethos, arte e speculazione, cioè l'orizzonte umanistico propriamente detto di una civiltà".20

Il MM è il punto di partenza di un lungo percorso teorico e il punto al quale bisogna tornare per comprendere la reale profondità tematica di alcuni concetti e la terminologia concettuale in De Martino. È difficile imbattersi in qualche pagina demartiniana che non si muova nell'orbita del MM e che non sia stata pensata in continuità con quella messa a punto teorica.

19 L'iterazione dell'identico sarà altro nucleo concettuale che accompagnerà l'etnologo fino all'eterno ritorno de La Fine del Mondo passando per la tecnica di ripetione dei moduli verbali, di melodie tradizionali, di gesti standardizzati messi in atto nel plancutus rituale per l'elaborazione del lutto, oggetto di analisi di Morte e Pianto Rituale.

20 E. De Martino, "Storicismo e irrazionalismo nella Storia delle Religioni", in Studi e materiali di Storia delle Religioni vol.28 (1957) p. 93.

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1.2

Morte e Pianto Rituale: la crisi del

cordoglio

In Note di viaggio, De Martino presenta le spedizioni in Lucania, cominciata nel 1950, come la seconda tappa di un viaggio che ha avuto inizio col MM.

Il filo conduttore è il "costante interesse per le formazioni culturali nate dalla esperienza di una radicale precarietà esistenziale e maturate nella lotta contro l'angoscia di mantenersi come persone davanti all'insorgere dei momenti critici dell'esistenza storica".21

In Morte e Pianto Rituale (MPR d'ora in avanti) la sindrome del cordoglio è assimilata alle crisi della persona magica: il rischio di non esserci nel mondo è il rischio di passare con tutto ciò che passa, il rischio di paralisi culturale che la morte della persona cara determina sull'intero orizzonte esistenziale di chi resta.

"La perdita del mondo, il suo naufragio semantico nel vuoto aperto della morte, l'annichilimento del soggetto in una sorta di immobile e stuporosa asimbolia rispetto ai significati della vita e del suo movimento, sono, accanto alle ricorrenti pulsioni autolesionistiche, i dati

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della crisi; la regia del cordoglio, il suo bilanciato articolarsi tra destorificazione della morte e accettazione dell'evento luttuoso mediante un travaglio che sublima in memoria valorizzatrice i dati dell'assenza, sono invece le condizioni del graduale recupero e della reintegrazione culturale della presenza vulnerata. Da questo punto di vista, la continuità col MM è decisamente trasparente. (...) MPR è appunto l'opera che registra in modo sensibile il bisogno di dare un nuovo sostegno ontico-temporale alle inflessioni ontologiche derivanti dal MM".22

De Martino ribadisce il concetto di crisi della presenza, ne fornisce ulteriori determinazioni senza attaccare il contenuto tematico originario del MM.

"La presenza malata è quella presenza che in qualche momento critico dell'esistenza ha rinunciato a risolverlo nel valore ed è passata con esso. L'ombra del passato che non è stato fatto passare spia l'occasione per riproporsi: la presenza malata si manifesta come apparente, sta nel presente in modo inautentico poiché vi patisce il ritorno mascherato di un identico passato in cui è rimasta impigliata. Per la presenza malata il presente perde la sua autenticità esistenziale e tende a configurarsi come simbolo cifrato del passato non oltrepassato: resta incapace di un

22 Cherchi P. M., Ernesto de Martino dalla crisi della presenza alla

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autentico presente esposta al rischio di patire il ritorno dello smarrimento. La presenza che non ha deciso la sua storia quando doveva farlo sta ora destorificata, fuori dal rapporto reale con la storia concreta del mondo culturale".23

Specificherà meglio negli appunti raccolti a formare la Fine del Mondo: "La presenza è esserci-nel-mondo, dove la espressione «esserci» va intesa nel senso dinamico di un trascendere le situazioni nel valore. È il

ci che, in quanto dispiegantesi volontà operativa hic et nunc determinata,

raccoglie tutto il senso dell'esserci-nel-mondo. Il ci infatti indica che in una particolare situazione da decidere emerge la presentificazione valorizzante della presenza, ed emerge appunto nella decisione e nella scelta. D'altra parte la emergenza del «ci», in quanto valorizzazione è partecipazione dell'essere, e nella misura in cui tale partecipazione ha luogo la presenza esiste. (...) La presenza è esserci-nel-mondo, e la sua norma di esistenza è tutta racchiusa in quel ci che attualizza l'essere e si apre all'essere, che riprende il passato e si dischiude al futuro. (...) Ma proprio perché la presenza ha la sua norma in ciò, essa racchiude il «no» nel suo «si»: il rischio di restare prigioniera della situazione, di non deciderla, di non andare oltre di essa, di non trascenderla, di non emergere da essa come energia morale di valorizzazione intersoggettiva,

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di comunicazione universalizzante. È il rischio di non-esserci-nel-mondo, di non passare con la situazione invece di oltrepassarla nel valore, di ripeterla invece di deciderla (...). È il rischio di restare senza margine davanti alla natura da controllare umanamente, e di isolarsi progressivamente dalla società, dalla storia, dalla cultura (...). È infine il rischio dell'assenza, della presenza che dilegua e scompare, rischio contro cui la presentificazione è chiamata a combattere".24

L'esistenzialismo italiano, da cui il nostro prende molti spunti, ha il merito di aver sottolineato che il fondamento dell'umana esistenza non è l'esserci ma il dover esserci (in polemica con Heidegger e Jaspers), cioè quello slancio valorizzante intersoggettivo della vita.

Questo doverci essere nel mondo comporta il rischio radicale di non esserci in nessun mondo possibile, la possibilità del crollo dell'ethos del trascendimento valorizzante, la sua mutazione di segno. Perciò la crisi della presenza è un rischio antropologico permanente.

L'analisi fenomenologica di alcuni caratteristici sintomi della perdita della presenza come esperienza di un sé spersonalizzato, sognante, vuoto, inattuale, mostra il vuoto dei valori, l'impotenza del trascendimento, l'inattualità dell'esserci in cui affiora l'insolubile

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problema dell'astratta possibilità di sé e del mondo, mostra la perdita di sé come potenza oggettivante e del mondo come risultato dell'oggettivazione.

Col venir meno della funzione oggettivante gli oggetti appaiono accennare ad un oltre inautentico, vuoto: questo oltre improprio è la potenza oltrepassante della presenza che invece di fondare l'oggettività sta diventando essa stessa un oggetto, si sta alienando con l'oggetto nell'oggetto. Il mondo diventa irrelativo, simile ad uno scenario senza eco di memorie e affetti, esperienza di estraneità radicale. La crisi di oggettivazione si riflette nelle esperienze di spersonalizzazione e incompletezza di sé e di fissità, inconsistenza e artificialità nel mondo ma anche nell'esperienza di una forza o tensione cieca in sé stessi e nel mondo. Gli oggetti che non stanno in limiti oggettivi sono avvertiti come forze in atto di scaricarsi, in atto di agire come potenze estranee e cieche che incombono minacciosamente sulla presenza. Crolla la possibilità di mantenere gli oggetti distinti gli uni dagli altri e di contrapporre sé al mondo: l'universo appare in tensione come sul punto di annientarsi in un‟imminente catastrofe.

"Il rischio di alienazione del dominio oggettivo comporta l'esperienza di una disposizione maligna delle cose e degli eventi, di un «essere agitato

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da» che si sostituisce all'agire su eventi dell'oggettivazione: le cose diventano cause".25

Il rischio della perdita della presenza è segnato dall'angoscia. "L'angoscia si determina nella presenza come reazione di fronte al rischio di non poter oltrepassare i suoi contenuti critici e di sentirsi inattuale e inautentica nel presente: l'angoscia è il rischio di perdere la possibilità stessa di dispiegare l'energia formale dell'esserci. Segna l'attentato alle radici stesse della presenza, sottolinea il rischio di perdere la distinzione tra soggetto e oggetto. (...) L'angoscia è esperienza della colpa perché la caduta dell'energia di oggettivazione è la colpa per eccellenza che chiude il malato nella melancolia. L'angoscia indica che la presenza resiste alla sua disgregazione ma le resistenze e le difese che hanno luogo in regime di crisi hanno il carattere comune di essere sostanzialmente improprie in quanto non ripristinano la signoria del mondo dei valori e non valgono per reintegrare in modo attivo nella realtà storica di cui si fa parte: il non fare si orienta verso la paradossale ricerca assolutamente vuota di contenuti e di impegni formali ed il fare si risolve nell'egemonia dialettica del vitale che pretende in vari conati di ricostruire la presenza".26

25 Ivi, p. 29 26 Ivi, pp.30-32

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Questo è il modo della destorificazione irrelativa che non offre nessuna occasione di anabasi verso i valori.

"Modi di destorificazione irrelativa della crisi:

 attraverso il non fare: reazione stuporosa, ritualismo e simbolismo protettivi;

 attraverso l'agire: stare nell'esistenza senza starci in quanto qualunque cosa accada contrappone all'accadere lo stare immobile delle sue iterazioni. Mania del raccogliere e conservare, incorporazione nella cavità naturali del corpo, fame insaziabile di cibo, sfrenato erotismo, furore distruttivo e omicida. La presenza in crisi si limita a prestare all'accelerazione vitale l'inerte contenuto di rappresentazioni e sentimenti che simulano ma che non sono valori reali;

 attraverso simboli protettivi a cui si affida il compito di rischiudere l'azione. Rappresentano il conato di occultare a sé la storicità del reale e quindi la responsabilità personale delle iniziative in modo che il fare effettivo sia nient'altro che iterazione del già deciso e fatto su un piano metastorico. Modo di stare nella storia senza starci, più disperato tentativo di dischiudersi all'azione. I simboli allusivi a cui ricorre la presenza malata sono conati individuali vuoti di prospettiva culturale (al

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contrario dei miti magico-religiosi)".27

Nella civiltà primitiva l'uomo è impegnato nella creazione di forme istituzionali atte a proteggere la presenza dal rischio di non esserci nel mondo. É proprio dall'esigenza di questa protezione che si legittima l'origine della vita religiosa come ordine mitico-rituale.

La destorificazione religiosa è dunque un modo di riscatto della presenza malata in quanto istituisce un primo rapporto col sé alienato e dispiega le potenze operative dell'uomo mediando il ritorno alla storia attraverso l'offerta di un orizzonte di segno culturale: all'ombra del divino si matura l'umano.

Nell'orizzonte protettivo e reintegratore della metastoria mitico-rituale gli individui cercano gli dei ma trovano la storia umana.

"La religione, il sacro, ferma nella metastoria mitica l'alienazione irrelativa della crisi e realizza la reintegrazione del divino nell'umano. Permette di entrare in rapporto con le alienazioni della crisi e inaugura una dinamica che sospinge alla riconquista delle forme di coerenza culturale a vari livelli storicamente determinati di autonomia e consapevolezza, grazie alla destorificazione mitico rituale che si fa

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mediatrice del ridischiudersi delle altre forme di coerenza culturale (economia, ordinamento sociale, politico, arte, scienza)".28

Il sacro è la tecnica mitico-rituale che protegge la presenza del rischio di non esserci nella storia e media il ridischiudersi di determinati orizzonti umanistici.29

Ogni forma di vita religiosa in quanto fondata sulla destorificazione mitico-rituale comporta un momento tecnico che ne costituisce la sfera più propriamente magica, la tecnica magica media e dischiude un determinato orizzonte umanistico.

Scrive in degli appunti collocati poi ne La Fine del Mondo: "la religione, il simbolismo mitico-rituale, è stata – e in parte ancora è – un istituto culturale che ha dischiuso l'esserci-nel-mondo per l'umanità minacciate dal rischio di non esserci"30. E ancora: "La religione è una tecnica per

28 Ivi, p. 40

29 A tal proposito si veda E. De Martino: "Il concetto di religione", in La

Nuova Italia, vol. 4, pp. 325-329, 1933; "Crisi della presenza e

reintegrazione religiosa", Aut Aut 1956, pp.17-38; M. Massenzio: "Destorificazione istituzionale", in Studi e Materiali di Storia delle

religioni 1985, pp. 197-204; "il problema della destorificazione", La ricerca folklorica 1986, pp. 23 e sgg

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destorificare il passaggio critico, riprendere la alienazione della presenza, reintegrare la presenza nella storia".31

Nelle antiche civiltà religiose mediterranee ancor prima che il cristianesimo rendesse il suo nuovo ethos della vita e della morte, una delle più importanti forze culturali per combattere la crisi del cordoglio fu l'istituto del lamento funebre rituale.

De Martino compie ricerche sul lamento funebre lucano direttamente sul campo dal 1950 al 1956.

L'obiettivo che si era prefissato era quello di arrivare alla comprensione storiografica del lamento funebre antico partendo dal lamento lucano. Scrive: "anche se il lamento funebre antico folklorico ha perso il nesso organico con i grandi temi delle civiltà religiose del mondo antico, e anche se i suoi orizzonti mitici sono particolarmente angusti e frammentari, esso può fornire ancora, almeno nelle aree di migliore conservazione, utili indicazioni per ricostruire la vicenda rituale che, nel mondo antico, strappava dalla crisi senza orizzonte e reinseriva nel mondo della cultura".32

31 Ivi, p. 663 32 Ivi, p. 60

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I modi della crisi del cordoglio nel mondo contadino lucano sono residui anacronistici del mondo antico. Si può dunque esaminare come il rito della lamentazione si innesta nella crisi e come assolve ancora la sua funzione culturale riparatrice e reintegratice per ricostruire l'analogo rapporto nelle antiche civiltà religiose del mediterraneo.

Il lamento funebre è tecnica del piangere: modello di comportamenti che la cultura fonda e la tradizione conserva al fine di ridischiudere i valori che la crisi del cordoglio rischia di compromettere. È azione rituale circoscritta da un orizzonte mitico; attraverso modelli mitico-rituali del pianto sono mediamente ridischiusi gli orizzonti formali compromessi dalla crisi.

"Il lamento funebre lucano si enuclea per entro la crisi del cordoglio, gradualmente dominandola e risolvendola in un ordine culturale significativo che è appunto il rito della lamentazione".33

La crisi del cordoglio è il rischio di non poter trascendere il momento critico della situazione luttuosa: si patisce il rischio del progressivo restringersi di tutti i possibili orizzonti formali della presenza.

"Nella carenza dell'energia formale della presenza i tentativi di ripresa si risolvono in trascendimenti impropri: così il «far morire i morti in noi» si può manifestare nell'aggressività contro il cadavere o nel bisogno di

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rivendicare il morto con una nuova uccisione o con l'insorgenza di un determinato furore distruttivo o l'erotismo".34

Il cadavere contagia: il suo andare oltre irrelativo e senza soluzione trasmette il proprio vuoto agli altri ambiti del reale. Torna come spettro: esso sta nella crisi dei sopravvissuti come contenuto in cui la presenza è rimasta impigliata e prigioniera. Torna in modo inautentico.

La crisi del cordoglio può assumere modi di delirio di negazione dell'evento luttuoso quando non si registra lavoro alcuno di interiorizzazione del morto ma un pesante distacco dalla realtà: la presenza malata ha perduto la via di risoluzione del lutto per perdersi nel patologico oblio. Qui la presenza deve lottare contro la perdita dell'attualità del reale e il ritorno irrelativo.

L'intero periodo di lutto assolve nel mondo antico il compito tecnico di riplasmare culturalmente i rischi connessi alla perdita della presenza davanti all'evento luttuoso.

Tali rischi sono l'assenza e la scarica convulsiva, il planctus, l'anoressia, la bulimia, l'ebetudine stuporosa, l'erotismo, il furore distruttivo, il ritorno irrelativo del morto come rappresentazione ossessiva o come immagine allucinatoria, l'amnesia della situazione luttuosa e le varie inautenticità che l'accompagnano, il delirio di negazione dell'evento.

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"Il lamento funebre lucano è da interpretarsi come ripresa e reintegrazione culturale dell'ebetudine stuporosa e del planctus irrelativo in quanto rischi a cui è esposto chi è colpito da lutto. La lamentazione funeraria affronta l'ebetudine stuporosa e la sblocca, accoglie il planctus e lo sottopone alla regola dei gesti ritmici tradizionalmente fissati, (...) riplasma il gridato e l'ululato in ritornelli emotivi da iterare periodicamente, in modo che fra ritornello e ritornello sia dato orizzonte al discorso individuale".35

Il ritornello non può essere libero perché rischia di tornare ad essere sommerso dal planctus irrelativo. Da qui la necessità di impiegare moduli verbali definiti che accompagnano la recitazione con una mimica ritmica definita; dal planctus irrelativo così il lamento diventa planctus ritualizzato.

Il lamento è, in sostanza, strumento tecnico di ripresa e reintegrazione, tecnica protettiva dell'ebetudine stuporosa e del planctus irrelativo della crisi. Assolve anche funzione risolutrice rispetto al ritorno irrelativo del morto come rappresentazione ossessiva o come immagine allucinatoria, al terrificante ritorno del morto come spettro.

"Sul piano della presenza rituale del pianto l'ebetudine stuporosa è sbloccata, il planctus irrelativo è ripreso e riplasmato in ritornelli

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emotivi periodici che danno orizzonte protettivo al discorso, al quale a sua volta vengono fornite le protezioni interne dei moduli verbali, mimici e melodici (...) Il lamento funebre è indirizzato a procurare al morto una seconda morte culturale".36

La stereotipia del ritornello emotivo protegge il discorso dalle insorgenze imprevedibili del parossismo irrelativo.

"La tecnica della lamentazione rituale tende (...) a dare orizzonte al discorso e a proteggerlo dalle insorgenze della crisi irrelativa: ma la conquista del discorso è possibile solo per entro un quadro mitico in cui il morto è come se fosse ancora vivo, trattenuto e ritardato nel suo trapasso in virtù dell'apparente paradossia che lo rappresenta al tempo stesso morto e partecipe al mondo dei vivi, avviato ritualmente alla lontananza del suo regno e al tempo stesso ritualmente richiamato ad intessere con i vivi la rete dei rapporti interiori secondo valore".37

La lamentazione non può riuscire nel suo compito se mito e rito non le fanno da ancelle.

36 Ivi, p. 110 37 Ivi, p. 214

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La civiltà greca, più di ogni altra civiltà del mondo antico, lavorò a liberare il lamento funebre dal suo originario carattere rituale e a risolverlo in forme letterarie profane.

La crisi decisiva del lamento funebre come rito pagano ha luogo soltanto con l'avvento del Cristianesimo; al centro della storia sta ora la morte dell'esemplare Uomo-Dio, una morte che vince la morte, una morte che diventa sonno prima del risveglio eterno.

Già nel Levitico e nel Deuteronomio ci sono le prime polemiche religiosamente motivate contro le offese al corpo arrecate dal planctus rituale in quanto manomettono la proprietà di Dio; sono dunque interdette.

"In questo sistema di destorificazione della morte non soltanto il planctus in alcuni suoi eccessi, ma tutto il lamento funebre antico diventava misconoscimento dell'opera redentrice di Cristo: (...) il tempo in cui la morte era morte si era definitivamente chiuso, e con esso anche il tempo del planctus e del lamento".38

Ancor oggi, stranamente, il lamento funebre è esercitato nelle campagne di non irrilevanti aree del continente europeo: e "ancorchè sia ridotto quasi da per tutto alle sole plebi rustiche e abbia perduto ovviamente l'ampiezza e la complessità degli orizzonti mitici pagani, e l'organicità

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rispetto al restante mondo culturale, qualche cosa della sua antica tragica serietà ancora in esso perdura".39

Riassumendo dunque "la crisi comporta, in tutte le sue manifestazioni morbose, un rischio di destorificazione irrelativa, cioè un cader fuori di ogni possibile storia umana culturalmente illuminata e aperta ai valori della cultura: l'assenza radicale e la conversione dell'ethos della presenza nella scarica convulsiva costituisce il sintomo estremo di questa destorificazione irrelativa; ma anche gli altri sintomi comportano una estraneazione compatibile con qualsiasi vita culturale. I sistemi tecnici di ripresa sono orientati verso la destorificazione istituzionale, che in quanto destorificazione raggiunge la crisi sul suo proprio livello, e in quanto istituzionale se la assume coraggiosamente ridischiudendola mediatamente al mondo dei valori. In generale i rituali funerari e i loro orizzonti mitici formano appunto sistemi di destorificazione istituzionale della morte, da considerare nella loro qualità di coerenze tecniche risolutrici della crisi del cordoglio e mediatrici di altre forme di coerenza culturale. In questo quadro va analizzato l'antico lamento funebre in quanto partecipe di sistemi di destorificazione istituzionale (rituali e mitici) della morte. Innanzi tutto il lamento funebre antico è un momento

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tecnico dei corrispondenti rituali funerari rivolto a riprendere le tentazioni della ebetudine stuporosa e del planctus irrelativi e a ridare orizzonte al discorso della lamentazione. Mercé la istituzione di una presenza del pianto, anonima e sognante, impersonale e destorificata, la ebetudine stuporosa è ripresa e sbloccata, e il planctus irrelativo riplasmato in ritornelli emotivi periodici, in modo da lasciar orizzonte al discorso fra ritornello e ritornello. (...) La varietà infinita delle concrete situazioni luttuose viene (...) destorificata in modelli mimici, melodici e letterari che sono fissati nella memoria culturale della comunità e ripetuti come obbligo rituale in ogni singolo evento di morte. (...) La reintegrazione del morto nel mondo dei valori e il superamento della crisi sono (...) tecnicamente mediati dall'arresto dell'alienazione irrelativa, dalla configurazione dell'al di là, dal ritardo del trapasso e dalla sua negazione, e dai corrispondenti comportamenti rituali: sono cioè protetti da particolari modi di destorificazione mitico-rituale".40

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1.3

La fine del mondo: apocalissi culturali e

apocalissi psicopatologiche

La lamentazione funebre è quella forma di ethos in crisi oggetto de La

Fine del Mondo (FM da adesso), ne è un caso limite.

In FM non si trova una definizione del concetto di ethos, sotteso in tutte le sue opere precedenti, è un'acquisizione già realizzata, un presupposto che necessita soltanto di ulteriori focalizzazioni.41

La ricerca sulle apocalissi culturali ha ancora al centro l'uomo, la sua presenza, il suo essere nel mondo. La FM continua a sviluppare la tesi del MM ed ha come tema l'esperienza del vissuto di fine mondo come esperienza patologica, come rischio che sottende l'esserci nel mondo e il rapporto di questo vissuto con le forme di riscatto culturale.

Il filo rosso che lega l'opera nel suo insieme, questa raccolta postuma di saggi non organica, è la catastrofe del mondano, dalle religioni storiche alla moderna civiltà occidentale.

Lo studio di De Martino è volto a integrare cristianesimo, marxismo ed etnologia nel tema apocalittico. La fine del mondo, questa crisi della

41 Cfr. P. M. Cherchi, Ernesto de Martino dalla crisi della presenza alla

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presenza nella civiltà contemporanea – che si manifesta per esempio nella catastrofe nucleare o nella nausea sartriana – può, secondo l‟etnologo, essere inserita nel binomio crisi-rigenerazione in chiave escatologica vista in termini laici della fine di un determinato mondo storico (come l‟emancipazione dei popoli subalterni che pone fine al mondo borghese nella prospettiva marxiana che de Martino condivide). La prima immagine di apocalisse culturale che l'etnologo analizza è quella proposta dalle grandi religioni storiche in cui la fine è vissuta collettivamente come regresso nel caos e inizio di un nuovo ciclo dell'esistenza del mondo sotto la prerogativa mitica.

La seconda è quella cristiana che rompe lo schema circolare e offre prospettiva di riscatto. Analizza poi movimenti di stampo apocalittico presi dall'ambito etnologico che sorgono in risposta alla traumatica esperienza dell'invasione coloniale che implica l'annullamento del sistema di vita tradizionale e offre due prospettive del finire: un nuovo mondo, un nuovo ordine verso cui tendere oppure l'autentica caduta nel nulla. La quarta immagine è data dall'apocalisse marxiana che verte sulla fine di una determinata organizzazione sociale, premessa di un nuovo inizio.

Scrive de Martino "la fine dell'ordine mondano esistente può essere considerata in due sensi distinti, e cioè come tema culturale storicamente

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determinato, e come rischio antropologico permanente. Come tema culturale storicamente determinato essa appare nel quadro di determinate configurazioni mitiche che vi fanno esplicito riferimento: per esempio il tema delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo nel quadro del mito dell'eterno ritorno o il tema di una catastrofe terminale della storia nel quadro del suo corso unilineare e irreversibile. Come rischio antropologico permanente il finire è semplicemente il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, il perdere la possibilità di farsi presente operativamente al mondo, il restringersi – sino all'annientarsi – di qualsiasi orizzonte di operabilità mondana, la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria secondo valori.

La cultura umana in generale è l'esorcismo solenne contro questo rischio radicale, quale che sia – per così dire – la tecnica esorcistica adottata; e se il tema culturale di un certo ordine mondano esistente costituisce una delle modalità storiche di ripresa e di riscatto rispetto a questo rischio anche lì dove questo tema è assente, o irrilevante, il rischio corrispondente è sempre presente e la cultura si costituisce appunto nel fronteggiarlo e nel controllarlo, quale che sia la modalità con cui la

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drammatica vicenda si riflette nella consapevolezza culturale storicamente determinata".42 La cultura è meccanismo di rigenerazione.

L‟etnologo fornisce una copiosa documentazione su Jaspers, Jung, Storch, Ey Biltz e molti casi di "disturbi deliranti" ed esamina varie forme di un vissuto di alienazione che comporta la rottura dei rapporti tra io e mondo: la crisi può assumere in alcuni casi la complessa forma di delirio di fine mondo ma può anche presentarsi con forme diverse di vissuto in cui viene messo in crisi il rapporto col proprio corpo, con gli oggetti, con gli altri e con le dimensioni spazio-temporali.

La FM ha come base tre blocchi concettuali: l'ethos del trascendimento di Croce; l'esserci di Heidegger convertito nel dover esserci, sulla base dell'esistenzialismo italiano; la forza psicologica di Janet intesa come la forza morale che permette di arrivare ad una decisione.

L'esserci di Heidegger e la presenza di Janet in de Martino giustificano il continuo passaggio dal campo ontologico a quello psicologico.43

42 E. De Martino, FM, p. 196

43 A tale proposito si veda il saggio di S. Barbera in La contraddizione

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Dal MM a FM lo studioso passa dal simbolismo mitico-rituale all'eterno ritorno la cui immagine è data dal rituale del mundus.

Mundus è una fossa situata al centro di Roma dove Romolo vi gettò tutte

le primizie come offerta sacrificale e i cittadini, ciascuno, una zolla della propria terra; è centro di Roma e centro della terra, simbolo che configura il cielo e la terra, il sopra e il sotto e concentra in sé lo spazio cosmico e culturale.

Sotto è il regno degli inferi e della fertilità della terra. "Viene aperto ritualmente tre volte l'anno in giornate nefaste, cataclismatiche. I defunti vagano tra gli uomini, ogni attività importante viene sospesa, il caos torna sulla terra, il passato (i morti) si ripresenta con un volto minaccioso. Ma la normalità quotidiana riprenderà al cessare dei giorni nefasti".44

Il mundus è un simbolo mitico-rituale che fissa il rischio della fine del mondo, rischio simboleggiato dal ritorno dei morti sulla terra e dalla sospensione delle attività culturali come combattimenti, comizi, arruolamento dei soldati, attività amministrative in generale. Viene aperto il 5 ottobre, il 24 agosto e l'8 novembre. Si evoca così il "rischio della fine del mondo, esocizzandolo e controllandolo, attraverso la

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limitazione, nel tempo e nello spazio, del ritorno dei morti e della fine di ogni attività culturale umana".45

È anche però possibilità di redenzione: entro questi giorni, per scongiurare la fine, i cittadini hanno la possibilità di redimersi.

La fine e l'inizio del mondo ripropone in forma metaforica il rischio di una sempre possibile caduta psicopatologica, della cultura nel caos e assieme il superamento del rischio in forme di riscatto sociale e culturale secondo il modello crisi-simbolo-reintegrazione culturale.

La coscienza ciclica del tempo si configura come sistema protettivo; media la storicità del divenire umano e lo difende dal rischio di annientarlo nella pura ripetizione dell'identico, l'irreversibilità del tempo degli uomini rischia di farsi reversibile; la funzione simbolica, mitico-rituale del mito delle origini ha proprio la funzione di riprendere la reversibilità e mutarla di segno cioè avviarla nuovamente verso l‟irreversibilità del divenire storico-culturale aperto al dover essere valorizzante.

Tuttavia il tempo ciclico, della sicurezza e della prevedibilità è al contempo un rischio nella storia umana perché questa non deve tornare e non deve ripetersi poiché il suo ritorno indica la catastrofe

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dell‟irreversibilità valorizzatrice. Tornare all'identico è il mondo più economico di divenire: non ci sono progressi.

"L'ethos primordiale della presenza ha riplasmato l'eterno ritorno della natura nel simbolismo mitico-rituale in quanto eterno ritorno rituale dello stesso mito delle origini: l'eterno ritorno mitico-rituale è una

imitatio naturae per entro la stessa cultura al fine di dischiudere la storia

in un regime protetto, fondato sul "come se" della destorificazione".46 La natura tende all'eterno ritorno poiché è pigra, la cultura è il drammatico distacco dalla pigrizia della natura; la cultura ha introdotto nella natura l'ethos della presenza in quanto volontà di storia umana che si oppone alla tentazione dell'eterno ritorno.

La fine del mondo come ethos del trascendimento valorizzante lungo tutto il fronte del valorizzabile e quindi come crisi del valore inaugurale del progetto comunitario dell'utilizzabile può essere vissuta su più fronti: come catastrofe degli eventi extramondani, come catastrofe dell'esserci, catastrofe del tempo, conati anastrofici irrisolventi.

La crisi percepita come fine del mondo, come universo in tensione, scatena la ricostruzione magica del mondo come meccanismo di difesa; la crisi vissuta come un essere-agito-da scatena deliri di persecuzione e reintegrazioni magiche.

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Dette forme di difesa, in generale, non sono compatibili con la civiltà, appartengono al regno della psicopatologia ed appaiono come spasmodiche e caricaturali.

Le difese culturali cominciano quando ci si apre alla storia; si entra nelle sfere storiche attraverso il nesso mitico-rituale: la storicità viene trasfigurata attraverso l'iterazione dell'identico.

"La fine del mondo nel documento psicopatologico è stata (...) analizzata prevalentemente come catastrofe progressiva di tutti gli ambiti percettivi possibili, come crisi irrisolvente dello stesso sfondo di ovvietà e di domesticità delle cose. Ma a partire dal semplice indeterminato vissuto di spaesamento può prendere rilievo dominante la catastrofe del proprio corpo e della presenza al mondo, nel quadro eminentemente depressivo non tanto di una incombente minaccia apocalittica, che grava sugli oggetti, quanto di un già consumato annientamento del proprio corpo e della propria persona".47

Non è il mondo che crolla ma l'esserci nel mondo, muta il segno della presentificazione intenzionante, cade cioè l'ethos del trascendimento valorizzante su tutto il fronte del valorizzabile.

Nei gradi più leggeri del fenomeno i malati si sentono estraniati, mutati, meccanici, affermano di sentirsi in una condizione crepuscolare, come ci

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fosse un velo tra loro e il mondo, vivono senza sentirsi vivere. L'essere-agito-da abbraccia qualsiasi campo del vivere, perciò si sentono come automi, marionette.

La crisi percepita come fine del mondo, come universo in tensione scatena diverse forme di alienazione e delirio.48

48 Una delle forme che assume è il mutamento di significato; in questa situazione il mondo può acquistare troppo o troppo poco significato. Il troppo poco della semanticità manifesta la perdita dell'autentico oltre culturale, dell'operabilità delle cose. Il troppo di semanticità manifesta la modalità del vuoto oltre; gli ambiti percepiti vanno oltre in modo irrelato, in cerca di un orizzonte di percepibilità e questa ricerca è vissuta come attesa catastrofica. Semplicemente, in entrambi i casi si perde il fondo di domesticità percepito nel più banale accadere quotidiano. Il mondo o si allontana lasciando un'intimità vuota oppure irrompe non lasciando margine di scelta valorizzante.

Le fobie, nelle quali entra in crisi la capacità di oggettivazione, minacciano di polarizzare la presenza, di imprigionarla; la presenza corre il rischio di identificarsi con il contenuto fobico stesso, crolla così la stessa oggettivazione come possibilità in modo tale che l'angoscia diventa paralizzante. "Nel contenuto fobico il passato chiede di passare effettivamente, e rammemora che non si può andare avanti senza aver saldato i conti lasciati aperti: ma lo chiede alienato in una metafora incomprensibile, perentoria, esclusivistica, che rinnova la crisi, e scatena l'angoscia paralizzante" scrive a p. 93; l'angoscia è il rischio di passare con ciò che passa in luogo di farlo passare nel valore.

La derealizzazione e la depersonalizzazione sono forme della crisi dei rapporti con gli oggetti e con l'identità della propria persona, anche questi possono essere dipinti nell'orizzonte dei deliri di fine mondo. Il delirio di

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nega la realtà, alterazione della realtà vissuta come annientamento della realtà. Mania e melancolia sono ulteriori forme di caduta dell'ethos del trascendimento e ne manifestano la colpa radicale. La seconda si determina come colpa mostruosa, radicale e immotivata che si estende su tutto il fronte dell'operabile, e la colpa è quella di vivere l'ethos del trascendimento e consiste nella perdita di motivazione su tutto il fronte del motivabile, i malati si sentono responsabili dell'infelicità di tutto il mondo. La prima è caratterizzata da una immotivata gaiezza ed euforia, da un mutamento del corso psichico verso la fuga delle idee, abolisce ogni barriera fra la persona e il mondo.

Catatonia e schizzofrenia sono forme di delirio che comportano la

presenza di una paradossale tensione drammatica creante il rifiuto di entrare in relazione col mondo e il tentativo di instaurare con esso un rapporto di relazione e di difesa. Si manifesta nelle ecomimie, ripetizioni di gesti, stereotipie ecc.. La catatonia è conato protettivo di ridurre il divenire dell'essere secondo la destorificazione radicale racchiusa nel rifiuto di qualsiasi rapporto col mondo: ogni nuova posizione del corpo viene isolata dal divenire e mantenuta. Il mondo appare come molteplicità di mondi sensibili, se ne sceglie uno soltanto e lo si isola, come se il mondo si riducesse ad esso. È un meccanismo di estrema difesa. Le stereotipie concedono qualcosa al mutamento ma riplasmano il comportmanto introducendovi un gesto di isolamento e di impartecipazione, come un'armatura che separa e protegge. Il mutare viene accolto ma ridotto alla ripetizione dell'identico e che, in fin dei conti non è un mutare ma un eterno ritorno. In questo ripetere è efficace la forma della ripetizione destorificatrice, non il contenuto: il ritualismo è momento di separazione protettivo dal mondo. È evidentemente paradossale il fatto che nell'angoscia della storia che non si ripete ci si chiuda nel ritualismo e propio per ciò non c'è spazio per mutamento alcuno.

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De Martino mette a confronto questi ritualismi psicotici con quelli culturali: "Tutto accade come se la destrutturazione della presentificazione valorizzatrice fosse la caricatura della vita magico-religiosa nelle sue espressioni storico-culturali. La melancolia e il senso di una colpa radicale richiamano- senza dubbio caricaturalmente – la predestinazione calvinistica e il suo senso acutissimo della intrinseca peccaminosità dell'umano, la mania richiama invece la dissipazione apparente dei rituali dionisiaci. Il vissuto di essere-agito-da sembra collegarsi a fatture e stregonerie, mentre i deliri di grandezza sembrano accennare a maghi e sciamani e profeti e messia. Le stereotipie, i ritualismi, i cerimoniali ossessivi ricordano i comportamenti rituali, lo stupore catatonico accenna alla fuga dal mondo dei mistici attraverso l'estasi. La pluralità delle esistenze psicologiche simultanee presenta affinità con la transe del mago, il crollo del mondo con l'apocalittica".49 Come sottolinea Silvano Arieti in Interpretation of schizophrenia (NY 1955) il primitivo che agisce deve essersi sentito in colpa molto spesso; fare è essere potenzialmente colpevole poiché non si può sapere l'effetto che genera una causa. Infatti, colpa e causa hanno lo stesso termine in molte lingue primitive. Il primitivo, dunque, per diminuire il senso di colpa, inibisce l'azione libera ed esegue atti accettati dalla tribù; è la

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tribù stessa che insegna agli individui quali atti sono da compiere e in che modo: da qui nascono ritualismo e magia. Il rituale assicura all'individuo che l'effetto sarà buono ed evita il peso del senso di colpa. Arieti paragona esplicitamente lo schizzofrenico al primitivo.

Scrive "in altre parole il paziente si trova nella stessa situazione di un uomo primitivo quando si trovò di fronte alla nuova paventosa arma, la scelta dell'azione. Come il primitivo, egli cercò protezione rifugiandosi in compromessi neurotici, compulsioni e ossessioni, che corrispondono al rituale e alla magia".50

La differenza sta nel fatto che mentre il primitivo è protetto dalla tribù e dal ritualismo magico, il malato calato ormai nel pieno mondo della cultura deve crearsi da sé le barriere protettive.

De Martino cita Arieti nei suoi appunti; probabilmente si serve del paragone schizofrenico-primitivo proprio per quella prospettiva antropologica unitaria verso la quale verte la totalità dei suoi studi.

L'occidente contemporaneo è in preda al terrore di perdere il mondo ma anche da quello di essere perduti nel mondo, si teme di perdere l'ehos del trascendimento oppure si considera il mondo come un‟insidia da cui

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