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L’indagine negli ambiti dell’occultismo e della parapsicologia produsse fecondi influssi nell’opera di Capuana. Egli esercitò per anni con rigore investigativo lo sperimentalismo spiritico, raccogliendone i frutti nel saggio del 1884 intitolato Spiritismo?, un’esposizione problematica imperniata sul dubbio metodologico, in cui confluirono ricerche, testimonianze ed opinioni su svariati fenomeni psichici e metapsichici, dal sonnambulismo all’ipnosi fino all’allucinazione artistica. Il suo contenuto, dettato in veste di epistola a Salvatore Farina, preannunciava nell’interrogativo del titolo la fondamentale ambivalenza dell’impostazione teorica, singolarmente bilicata – l’eclettico autore ne è cosciente – tra idealismo, positivismo e spiritismo: rifiutando lo scetticismo aprioristico vi si sosteneva la lettura positivistica tendente ad interpretare i fenomeni paranormali come semplici esagerazioni di fatti normali, oppure come prodotti o dell’eredità fisio-psicologica o di quella nuova forza dell’organismo chiamata forza psichica. L’ambizione di Capuana era quella di far confluire in una concezione sincretica le opposte istanze dell’idealismo e del positivismo. Anni prima aveva trovato una formulazione unitaria nell’opera di Angelo Camillo De Meis, Dopo la laurea (1868), un romanzo epistolare in cui, promuovendosi la dottrina hegeliana secondo cui la vera scienza è la «scienza-pensiero» e non quella meramente empirica, si tracciava un disegno storico della civiltà letteraria occidentale. Nell’opera e

Federica Adriano, Alienazione, nevrosi e follia: esiti della ricerca scientifica nella narrativa italiana tra Otto e Novecento, Tesi di Dottorato in Scienze dei Sistemi Culturali; Università degli Studi di Sassari

nella personalità di De Meis, ascetica e poliedrica figura di scienziato e di filosofo, si riconosceva un’intera generazione d’intellettuali; e Capuana vi trovò un principio di duttile integrazione tra hegelismo, scienze naturali e positivismo. Nel nostro saggio l’autore sostiene che l’origine e la natura delle «communicazioni in forma artistica» siano analoghe a quelle spiritiche; evidenzia il ruolo preponderante dell’elemento inconscio nella creazione artistica rispetto all’apporto della tecnica; afferma che tutti gli scrittori, per vie diverse, arrivano a sperimentare l’allucinazione artistica, cioè l’«incosciente incarnazione di un loro concetto»; quindi argomenta l’analogia, apertamente condivisa dal Lombroso, tra l’allucinazione artistica e quella spiritica:

L’arte, come forma e nient’altro che forma, ha un proprio organismo che si va di giorno in giorno sviluppando in tutta la sua rigogliosa crescenza, e non sta nell’arbitrio dell’artista l’accettarne o il rifiutarne la preesistente ricchezza di forma, […]. Eppure la compenetrazione di quella forma col fantasma artistico individuale, qual esso risulta dal complesso delle facoltà dell’artista, rimarrà, forse per sempre, un fenomeno inesplicabile nella sua essenza. […]

Il valore, la vitalità di un’opera d’arte dipende anche dalla maggiore o minore quantità di impressioni immediate che noi vi facciamo intervenire. Queste non sono, come parrebbe a prima vista, intieramente coscienti. La più gran parte, accumulate indirettamente, per la via dei sensi, nei ricettacoli nervei e psichici del nostro organismo, si svegliano, si coordinano, si fondono in uno stupendo insieme sotto il pungolo di un’eccitazione volontaria o che almeno sembra tale. L’artista procede, in questa circostanza, come i soggetti del sonnambulismo provocato, ed ha la sua particolare allucinazione; la quale differisce dalle sonnambuliche unicamente per gradi, minimi o massimi, d’intensità e non per la intima sua natura.

Per entrare, come sogliamo dire, nella pelle del nostro personaggio noi adoperiamo ora contrazioni muscolari e isolamenti di determinate sensazioni a fine di lasciarne libere alcune altre più confacenti al nostro scopo; ora vere interruzioni o sospensioni della nostra personalità; e il Mosso potrebbe dirci l’equivalente trasformazione in calore di questi diversi movimenti. […] Interpretare, integrare, compire i dati più immediati della realtà con altri più complessi accumulati nel suo organismo [dell’artista] dalle sensazioni inavvertite e (oggi bisogna aggiungerlo) con quelli, più remoti e non meno efficaci, condensati in esso dall’eredità; ecco le operazioni concorrenti alla produzione dell’opera d’arte, […].

L’allucinazione spiritica, nel produrre le comunicazioni, passa gradatamente, come l’artistica, dalla quasi coscienza alla incoscienza.20

Federica Adriano, Alienazione, nevrosi e follia: esiti della ricerca scientifica nella narrativa italiana tra Otto e Novecento, Tesi di Dottorato in Scienze dei Sistemi Culturali; Università degli Studi di Sassari

L’interpretazione capuaniana dei fenomeni spiritisti, ancora parzialmente scettica e fiduciosa nel potere esplicativo della scienza, ben presto lascerà posto a quel crollo delle certezze positive che accomunava letterati e scienziati sullo scorcio del secolo. Tale crisi spinse Capuana ad aderire in qualche modo allo spiritismo, come si evince nell’opuscolo del 1896 Mondo occulto, ed a concepire il misticismo come una manifestazione non esclusiva della psiche malata.

Nel 1898 lo scrittore siculo tirava le somme sullo statuto del romanzo italiano di fine secolo: esso stentava a trovare la propria dimensione artistica; la tipologia “romantica” si era involgarita in seguito alla somministrazione di dosi troppo massicce di naturalismo e sperimentalismo; lo studio degli aspetti più crudi della realtà e l’applicazione del metodo sperimentale del Bernard non avevano dato i risultati auspicati. Era necessario recuperare la dimensione psicologica dei personaggi, trascurata in precedenza. Nel romanzo Il marchese di

Roccaverdina (1901), opera-chiave della sua nuova stagione creativa, Capuana

ambienta in un milieu veristico una vicenda di squilibrio psichico che, a prima vista, sembra del tutto simile ad uno dei tanti «casi» studiati in precedenza. Ma, a ben guardare, qui il decorso della malattia mentale del protagonista viene indagato, prevalentemente, come un conflitto di coscienza dai tortuosi risvolti psicologici e mai ricondotto ad una matrice organica o ereditaria – se si considera l’aspra battuta della baronessa di Lagomorto («Ma già noi Roccaverdina siamo, chi più chi meno, col cervello bacato!») per ciò che è, cioè un modo di dire dettato da un punto di vista miope ed egoistico – come accadeva nel consueto Capuana naturalista. Scorrendo le pagine iniziali apprendiamo che il marchese Antonio – discendente da una stirpe di arroganti

maluomini, i nobili feudatari di Ràbbato – ha sfidato per dieci anni le regole

non scritte della sua casta, scegliendo di convivere con Agrippina Solmo, una contadina giovane, seducente e sottomessa, con la quale intrattiene un’appassionata relazione amorosa. La sua serenità dura fino al giorno in cui cede alle pressioni interessate della zia, l’invadente baronessa, la quale temendo che il nipote impalmi la serva gli rinfaccia continuamente l’irregolarità della sua condotta. Per ripristinare l’onore dei Roccaverdina e tacitare i pettegolezzi l’uomo si lascia convincere ad allontanare l’amante dalla propria casa, ma non a rinunciarvi del tutto: decide che la loro relazione continuerà in maniera clandestina ed impone a Rocco Criscione, il suo fedelissimo fattore, di sposare Agrippina, facendosi giurare solennemente da

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entrambi di non consumare il matrimonio. Col passare dei mesi, tuttavia, la convivenza fa germogliare tra i due coniugi un’attrazione che sta per tradursi nel tradimento materiale del patto stretto con il padrone; il quale, dopo aver intuito le loro intenzioni fedifraghe, si lascia invadere da una gelosia furibonda che lo spinge a tendere un agguato al rivale, che una sera viene sparato da dietro una siepe con una fucilata mortale. Data la sua posizione sociale, il protagonista è al di sopra di ogni sospetto, mentre l’omicidio viene attribuito ad un altro, Neli Casaccio, un umile contadino che viene arrestato e rinchiuso in galera al posto suo. Il senso di colpa, tuttavia, scava un tormento inesorabile nel suo animo, avvelenando qualsiasi gioia gli potesse derivare dal possesso, ritornato esclusivo, della Solmo, la quale viene nuovamente allontanata, per venire, di lì a poco, sostituita da una moglie di nobile stirpe, la mite Zòsima Mugnos. È il rimorso immedicabile a trascinarlo nel baratro della pazzia furiosa e improvvisa con tutti i suoi sintomi fisici, che vanno dalla febbre al delirio alla perdita di conoscenza, fino al compimento di tutti quegli atti che indurranno gli altri a legarlo per sedarne l’eccitazione.

La prima personificazione della follia e del suo potere in qualche modo visionario è nella figura della zia Mariangela, una povera mentecatta dai capelli tagliati malamente alla mascolina, la quale, quando il marito non la incatena al muro «come una bestia», girovaga per le vie del paese squarciando la quiete serale con le sue lugubri grida d’imprecazione contro il male nascosto all’interno delle famiglie aristocratiche: «Cento mila diavoli al palazzo dei Roccaverdina! Oh! Oh! – Cento mila diavoli alla casa dei Pignataro! Oh! Oh! – Cento mila diavoli alla casa dei Crisanti! Oh! Oh!».21

Un’urgenza angosciosa di rimuovere tutto quanto possa rimandare al delitto caratterizza il comportamento del protagonista, alla cui progressiva destabilizzazione contribuiscono i ragionamenti anticonformistici del cugino ateo e mangiapreti, il cavalier Pergola, e le ciance bizzarre di uno studioso di occultismo, don Aquilante. Come l’Episcopo dannunziano, pure l’avvocato – sedicente testimone di frequenti apparizioni soprannaturali, tra cui quella del fantasma di Rocco – mette in discussione il nesso pazzia-spiritismo, ponendo in relazione il misticismo con le facoltà medianiche durante una discussione che suona oscuramente profetica e fa rabbrividire il marchese, nonostante tutti

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i suoi sforzi per mantenersi scettico:

«Un giorno vi persuaderete, finalmente, che io non sono un allucinato, né un pazzo. Vi sono persone, » soggiunse con severo accento, «che posseggono facoltà speciali per vedere quel che gli altri non vedono, per udire quel che gli altri non odono. Per esse, il mondo degli uomini e quello degli Spiriti non sono due mondi distinti e diversi. Tutti i santi hanno avuto questa gran facoltà. Non occorre, però, di essere un santo per ottenerla. Particolari circostanze possono accordarla a un meschino avvocato come me... » (MR 55).

L’impiego esasperato del monologo interiore da parte del protagonista è il mezzo attraverso il quale si dà voce e sfogo alla sua lacerazione ed al terrore conseguente di venire smascherato. A questo proposito, le magherie, cioè le «stramberie dell’avvocato», come lui le definisce nell’inane tentativo di ridimensionarne il valore – facendo leva su un’educazione cattolica che, pur nella superstiziosità ingenua, stigmatizzava senz’altro il peccato dell’omicidio ed esaltava nella figura divina del Cristo quella di ogni vittima innocente – realizzano un effetto suggestivo dirompente, facendo riaffiorare con forza esplosiva certe remote paure infantili rimaste sepolte per anni nei recessi della sua memoria, come quella, tremenda, che a suo tempo gli aveva ispirato l’immagine agonizzante di un imponente Crocifisso, significando per il marchesino il primo, oscuro contatto con il dolore e la morte:

Ma allora il lenzuolo che avvolgeva il corpo del Cristo in croce, di grandezza naturale, appeso alla parete di sinistra, non era ridotto a brandelli dalle tignuole; e non si affacciavano dagli strappi quasi intera la testa coronata di spine e inchinata su una spalla, né le mani rattrappite, né i ginocchi piegati e sanguinolenti, né i piedi sovrapposti e squarciati dal grosso chiodo che li configgeva nel legno.

La vista di quel corpo umano, che il lenzuolo modellava avvolgendolo, lo aveva talmente impaurito da bambino, ch’egli si era aggrappato al nonno, al

marchese grande, da cui era stato condotto là, ora non si rammentava più perché; e i

suoi strilli avevano fatto accorrere mamma Grazia […].

Questi ricordi gli eran passati, come un baleno, davanti agli occhi della mente; e intanto la paura di bambino si riproduceva in lui ugualmente intensa, anzi raddoppiata dalla circostanza che il vecchio lenzuolo, ridotto in brandelli, rendeva più terrificante quella figura di grandezza naturale, che sembrava lo guardasse con gli occhi semispenti e volesse muovere le livide labbra contratte dalla suprema convulsione dell’agonia (MR 57-8).

Potente è la valenza simbolica del brano ed intensificata dall’insorgere nella mente del protagonista dell’incubo allucinatorio: l’incuria in cui egli per

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tanti anni ha trascurato la sagoma lignea di Gesù è spia della sua concomitante caduta nell’abiezione e nella colpa mortale; ma ora, quell’icona un tempo autorevole e minacciosa, poi a lungo negletta e calpestata, recupera il proprio carisma antico, riconoscendo ed ammonendo il peccatore con le armi della sua stessa cattiva coscienza. Personaggio centrale della nuova ispirazione capuaniana è don Silvio, il prete che qui sostituisce il ruolo del dottore e riceve la confessione del delitto da parte del colpevole; il quale, dimostrando tutta la propria puerilità ed il formalismo di uno senso religioso ipocrita, protesta la sincerità del proprio pentimento, ma rifiuta il consiglio di consegnarsi alla giustizia e scagionare l’innocente, pretendendo di ottenere ugualmente l’assoluzione.

In Capuana, in modo prossimo alle idee di Lombroso, la gelosia morbosa trascina il personaggio al delitto e questo fino alla follia, quasi a riscattarlo per essersi abbandonato agli impulsi deteriori e liberarlo.22

E proprio la follia tradirà la responsabilità criminale del marchese.