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In Italia gli scapigliati furono i primi testimoni dell’idea romantica che il destino individuale assuma concreto significato solo se valutato in relazione al ruolo della morte all’interno della vita: nell’eros, nel dolore e nella malattia.

La scrittura di Ugo Igino Tarchetti venne profondamente influenzata dal romanticismo fantastico-irrazionale di Poe e di Baudelaire, ma da autodidatta della scienza, egli cercava conferme nell’investigazione scientifica e nutriva un personale interesse per il sonnambulismo, sperimentato sulla sorella Amalia. Tarchetti fu il primo in Italia a collocare un caso d’isteria al centro del romanzo Fosca (1869), l’ultima opera e la più importante, rimasta incompiuta a causa della sua morte per tisi alle soglie dei trent’anni. Il romanzo nacque dall’esperienza di un duplice amore realmente vissuto nel 1865 dal Tarchetti, il quale, a Parma, aveva incontrato in casa del suo capoufficio la cugina di costui, Angiolina, malata d’istero-epilessia e spaventosamente trasfigurata dalle sofferenze, che s’innamorò follemente di lui. Giorgio, il protagonista maschile di Fosca, è dunque l’alter ego dello scrittore ed anche l’io narrante, che s’accinge a stendere le memorie di una duplice storia d’amore a cinque anni dalla sua conclusione, quando il dolore s’è ormai affievolito, lasciandolo in uno stato di torpida confusione mentale:

Federica Adriano, Alienazione, nevrosi e follia: esiti della ricerca scientifica nella narrativa italiana tra Otto e Novecento, Tesi di Dottorato in Scienze dei Sistemi Culturali; Università degli Studi di Sassari

Più che l’analisi d’un affetto, più che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. – Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito. […]

Sento nondimeno che qualche cosa si è guastato nella mia testa: io non ho più cognizione di tempo, non ho più ordine nelle mie idee, non ho più lucidità nelle mie memorie […].

Non so più pensare, non so più fermarmi lungamente sopra un’idea, non vedo più linee che separano il vero dal paradossale. Tutto mi sembra ora logico, naturale, possibile. Tutti i miei pensieri si urtano, si confondono, si perdono in un vortice che turbina incessantemente nella mia testa. È là che tutto va a finire. Sento che la coscienza di me si è confusa.9

La malattia di cui parla Giorgio non è soltanto quella di chi gli ha imposto un amore smisurato e distruttivo, ma anche la sua propria complessione morbosa, quella cronica e congenita melanconia tanto simile a quella di Fosca, che lo spingeva irresistibilmente verso di lei.10 La sua indole, infatti, è nobile

ed eccentrica, ma anche sensibilissima e tormentata:

Non ho mai potuto indovinare se la mia natura fosse piuttosto incompleta che esuberante; ma in qualunque modo, egli era ben certo che io mi innalzava sul livello delle nature comuni. […] In tutta la mia vita ho operato come ho pensato – convulsivamente (F 245).

Scappato dall’aborrito paese natìo in seguito ad una prima e dolorosissima passione, Giorgio si reca a Milano senza progetti e quasi «inconsciamente», dove incontra la bella Clara, una giovane sposa che gli ricorda immediatamente sua madre e che, se dapprima incarna una dolce promessa di guarigione, col tempo finisce per aggravare le sensazioni angosciose e lugubri dell’amante e per deperire a sua volta, sorbendo gli influssi del male di lui. Il giovane capitano e la «donna-anima» trascorrono pochi mesi di passione travolgente in un «abisso di felicità», finchè un giorno l’idillio s’interrompe,

9 I.U. TARCHETTI, Fosca, in Tutte le opere, II, a cura di E. Ghidetti, Rocca San Casciano, Cappelli, 1967, 243 (= F ).

10 A.M.MANGINI,La voluttà crudele. Fantastico e malinconia nell’opera di Igino Ugo Tarchetti, Roma, Carocci, 2000, 148: «Non solo il racconto […] comincia con un’altra più antica malattia, ma pure quest’ultima rinvia essa stessa a qualcosa che la precede, una prima misteriosa «passione» svoltasi nella dimensione inenarrabile delle esperienze più sacre e misteriose. […] Mentre l’alfa e l’omega del romanzo si perdono nell’indicibilità, il ricorrere dello stato morboso come conseguenza e insieme punto di avvio dell’esperienza erotica indica chiaramente che fine ed inizio, in quanto categorie dell’immaginario tarchettiano, sono uno».

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rivelando un’essenza irrimediabilmente effimera: lui riceve un’improvvisa convocazione militare, deve abbandonare Milano e separarsi dall’amata, per trasferirsi in un’anonima ed inospitale cittadina. Qui Giorgio prende a frequentare la casa del colonnello, dove la malattia inchioda al letto la protagonista femminile della vicenda, la cui comparsa è annunciata prima dalle parole dell’anfitrione, che la presentano all’ospite, e poi dalle sue stesse agghiaccianti grida:

«Mia cugina è la malattia personificata, l’isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso, […] essa tiene il letto sette giorni della settimana, e anche oggi non sta meglio del solito. Mi dispiace che non l’abbiate veduta, è della voracità di una mosca». […]

Un giorno, durante il pranzo, fui colpito da urla acute e strazianti che provenivano dalle stanze della signora. […] Non solo quelle grida erano orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate, ma io non aveva immaginato mai che vi potesse essere qualche cosa di simile nella voce umana; o essendovi, non mi pareva possibile che l’uomo da cui era uscito una volta tal grido potesse vivere ancora (F 271, 273-74).11

L’assenza di Clara produce nella fantasia del protagonista un’immagine tutta ideale ed astratta di lei, la cui concretezza si trasfigura nell’alone nostalgico del ricordo. In sostituzione dell’oggetto amato, l’eros si fissa feticisticamente su una parte di esso, deputata a significarne la totalità: un capello di Clara, il guanciale ancora intriso del suo profumo, che l’amante copre di baci insaziabili.12

Il ritratto di Fosca è l’antitesi esatta dello splendore di Clara: il suo volto lascia trasparire un teschio, la sua fisionomia è quella d’una strega, d’un essere al confine tra la vita e la morte; ma la sua bruttezza non è dovuta tanto a disarmonia dei lineamenti, quanto alla «rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona». La gran parte delle manifestazioni del

11 MANGINI,La voluttà…, 154: «Ecco l’ultima e più riuscita delle personificazioni tarchettiane

della femminilità distruttrice che fa il suo ingresso nel romanzo – e nella vita del protagonista – come donna-assenza e impone la propria perturbante presenza nel vuoto creato dal suo non-esserci, un vuoto che immediatamente si riempie d’inquietudini e indecifrabili minacce».

12 «Il feticismo erotico ha per oggetto, o una certa parte del corpo del sesso opposto, o una certa parte della toeletta della donna, o anche una stoffa che serve all’abbigliamento. […]Nel feticismo fisiologico, sono principalmente l’occhio, la mano, il piede e i capelli della donna che divengono spesso il feticcio; nel feticismo patologico sono queste stesse parti del corpo quelle che divengono l’oggetto unico dell’interesse sessuale» (R.VON KRAFFT-EBING, Psicopatia…, 206-07).

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suo male è quella che ritroviamo nei coevi trattati scientifici che descrivono la fenomenologia isterica, pure se qui i sintomi non sono predisposti in modo da delineare un quadro clinico preciso: iperemotività spasmodica che sfocia in urla e convulsioni, magrezza scheletrica, sonni convulsivi notturni, costante temperatura febbricitante, comportamento mutevole ed estremamente incoerente. Un giorno, il semplice passaggio d’un convoglio funerario le provoca una violenta emozione, che fa esplodere tutti i sintomi del suo morbo: «Ella lo vide, impallidì, retrocesse, si cacciò le mani nei capelli, emise un urlo terribile, e cadde rovesciata sul pavimento. Le sue cameriere accorsero e la trasportarono nelle sue stanze in preda alle convulsioni più violente» (F 282-83). Il medico di reggimento, l’unica persona per cui il neo arrivato nutre simpatia ed amicizia, recita una parte determinante nello svolgimento della intera vicenda, in particolare come mediatore negli incontri tra i due protagonisti.13 E a Giorgio, incredulo e meravigliato per la subitanea ed

inguaribile passione di Fosca, il dottore spiega che nelle donne l’isteria è «la malattia dell’amore»:

È una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali possibili. La nostra scienza vien meno nel definirli. Possiamo afferrare un sintomo, un effetto, un risultato particolare, non l’assieme dei suoi mali, non il loro carattere complessivo, né la loro base. Possiamo curarla come empirici, ma non come medici. E’una malattia che è fuori della scienza; l’azione dei nostri rimedi è paralizzata da una serie di fenomeni e di complicazioni, che l’arte non può prevedere. […] il fondamento dei suoi mali è l’isterismo, un male di moda nella donna, un’infermità viziosa che ha il doppio vantaggio di provocare e di giustificare. Quella creatura è d’una irritabilità portentosa, ha i nervi scoperti (F 274-75).

Nel romanzo la figura del medico, che pure ammette tutta l’insufficienza della propria arte di fronte ad un caso arduo come quello di Fosca, assume molti dei connotati che saranno poi costanti in questo tipo di narrativa: è il personaggio calmo e razionale deputato all’analisi scientifica di certi fatti, prescrive il riposo e la valeriana alla sua paziente, sostiene moralmente la fragile sensibilità del protagonista, svolge un compito decisivo per la svolta finale che imbocca l’azione. Egli esprime una visione schiettamente materialistica della psiche, circostanziata da giudizi (e pregiudizi) assimilabili a

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quelli diffusi in quel periodo da Lombroso, in particolare quelli sull’isteria femminile:

Voi altri spiritualisti vivete costantemente in un mondo pieno di ubbie, non capite nulla della natura umana; avete fatto dell’onestà della donna una questione di virtù e di carattere, mentre non è quasi mai che una questione di nervi e di temperamento (F 312).

In una lettera all’amato Fosca traccia la storia del proprio male con termini che descrivono un’affettività morbosamente intensa, la quale parrebbe strutturarsi a partire da una predisposizione congenita:

Io nacqui malata, uno dei sintomi più gravi e più profondi della mia infermità era il bisogno che sentiva di affezionarmi a tutto ciò che mi circondava, ma in modo violento, subito, estremo. […] La mia potenza di affettività non aveva né modi, né limiti; era una febbre, una espansione, un’irradiazione continua; avrei potuto amare tutto l’universo senza esaurirmi (F 329).

Disperatamente innamorata di Giorgio, la donna utilizza i sintomi isterici per legarlo a sé; giorno dopo giorno lo circuisce con attenzioni ossessive ed asfissianti richieste d’affetto, facendo ripiombare il protagonista in quello stato d’inerte prostrazione dal quale lo aveva temporaneamente guarito l’idillio primaverile con Clara. Di fronte alle atroci sofferenze di Fosca, infatti, si sente pervadere da un fitto groviglio di sensazioni intense e contrastanti, che trascorrono dalla pietà, all’orrore alla frustrazione impotente:

Tutto era eccezionale nella sua condotta, tutto era contraddittorio; la sua sensibilità era sì eccessiva, che le sue azioni, i suoi affetti, i suoi piaceri, i suoi timori, tutto era subordinato alle circostanze le più inconcludenti della sua vita d’ogni giorno. In una sola cosa era costante, nell’amare e nel contraddirsi, […] Ella aveva degli eccessi di tristezza e di disperazione veramente spaventevoli. La pietà che ne sentiva mi lacerava il cuore. Spesso era assalita da emicranie sì violente che ne diventava come pazza. Si lacerava i capelli, e tentava di percuotere la testa alla parete. […] Passava da un eccesso all’altro, ad un tratto, senza cause apparenti; e non aveva alcuna moderazione né ne’suoi dolori, né nelle sue gioie (F 355-58).

Se fin da giovane Giorgio aveva più volte nutrito il desiderio del suicidio, ora cova l’incubo terrifico che quella creatura mostruosa voglia trascinarlo con sé nella tomba o possa contagiargli la sua malattia mortale: « – Come sei bello

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così malato – mi disse – se tu non soffrissi vorrei vederti sempre così. Farei patto di passare tutta la mia vita in questo modo, vicino al tuo letto a guardarti» (F 373); e la compassione di Giorgio, pur sincera, diventa un alibi vittimistico per giustificare la propria melanconica inerzia:

oltre alla fissazione terribile che s’era impadronita di me […] – che essa volesse trascinarmi con sé nella tomba – (e io la vedeva avvicinarvisi, deperire miseramente ogni giorno) m’era pur fisso in capo che lo spavento incussomi da que’ suoi accessi nervosi, la vicinanza continua, il contatto, quel non so che di morboso che vi era in lei, avrebbero dovuto, o tardi o tosto, sviluppare in me la stessa malattia. V’erano momenti in cui sentiva salirmi tutto il sangue alla testa, provava un tremito violento in tutta la persona, sentiva un’oppressione terribile al petto, e non poteva sollevarmene liberamente che piangendo dirottamente e gridando. Che era ciò? Avrei io ereditato da lei questo male? Sarebbe stato questo il premio che avrei ricevuto della mia pietà? (F 376).

Disseminate lungo l’intero percorso narrativo, le fosche premonizioni della fine della relazione adulterina tra Giorgio e Clara ad un certo punto si compiono, e la donna è costretta ad abbandonare il suo amante in un penoso abisso di disperazione. A questo punto è Clara a rivelargli un volto mostruoso e crudele, mentre Fosca gli appare l’unica donna che lo ha veramente amato.

Il romanzo viene terminato, ma la stesura dell’ultima «notte fatale» – in cui il protagonista avrebbe infine appagato lo smisurato desiderio della donna ormai moribonda – ritenuta dallo scrittore d’importanza cruciale ma da lui continuamente rinviata, sarà per sempre impedita dalla sua morte. Il giorno dopo la notte del sacrificio di Giorgio Fosca muore felice, sentendosi finalmente amata; e quel contagio che lui aveva tanto temuto gli si è irrimediabilmente comunicato:

Il mio respiro si arrestò, le mie vene parvero scoppiare, il mio cuore schiantarsi; una tenebra mi passò davanti agli occhi, i miei muscoli si contrassero con uno spasimo atroce, brancicai un momento come per afferrarmi a qualche cosa, proruppi in un urlo acuto, disperato, straziante, quale non aveva mai inteso uscire da petto umano, se non forse da quello di Fosca, e caddi fra le braccia del dottore che era corso in mio aiuto. Quella infermità terribile per cui aveva provato tanto orrore mi aveva colto in quell’istante; la malattia di Fosca si era trasfusa in me: io aveva conseguito in quel momento la triste eredità del mio fallo e del mio amore (F 425-26).

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Seguendo il Roda, che definisce la donna-tipo tarchettiana un’entità sineddochica e sconcretizzata, possiamo identificare nella protagonista più che una malata la figurazione stessa della donna-malattia.14 L’infelicità amorosa

gioca un ruolo fondamentale nell’esasperare l’ipersensibilità congenita e patologica di Fosca, la quale, infatti, detestava se stessa a causa della propria deformità fisica, che le avrebbe precluso per sempre la possibilità di essere amata. Nel complesso, il suo isterismo non è descritto in termini scientificamente canonici, ma sembra ancora la sintesi di più disturbi psicofisici, secondo una concezione multipolare della malattia destinata a tramontare di fronte al quadro fisio-patologico tracciatone da Charcot alcuni anni dopo. Qui, infatti, la malattia si presenta ancora come la traduzione narrativa di un’esuberanza eccessiva e pericolosa, di una sensualità polimorfa e distruttiva. Se Fosca è predestinata già dal nome ad incarnare la femminilità mortifera, come una sorta di correlativo oggettivo della morte, allora rappresenta – come ha rilevato la gran parte dei critici – l’esatto doppio di Clara, la quale, di contro, svolge il ruolo della solarità sentimentale; e l’una e l’altra donna – aggiungo – sembrano esprimere le due parti scisse ed inconciliabili dell’anima di Giorgio. In Fosca la protagonista diventa sia l’emblema delle immani e minacciose potenze naturali che ostacolano l’aspirazione dell’uomo ad aderire alla norma, che la comoda giustificazione della sua inettitudine esistenziale. Giorgio, infatti, si configura come uno dei primi inetti della letteratura italiana moderna, trovando ragione della propria incapacità di scelta nel potere di «quella creatura selvaggia, resa terribile dalla deformità e dalla malattia».15

14 V.RODA,Homo duplex: scomposizioni dell’io nella letteratura italiana moderna, Bologna, Il Mulino,

1991, 52-61: «per l’esplicito od implicito confondersi dell’affezione morbosa col personaggio che ne è affetto. La fusione e confusione è esplicita in Fosca, nella quale il congenito predicato della malattia – ‘Io nacqui malata’ – finisce per assimilarsi al soggetto, esaurendo nel proprio circuito la

quidditas d’una creatura che non è una donna malata, ma la malattia fatta donna». È la stessa

protagonista, del resto, ad autodefinirsi così fin dall’inizio: «L’infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute» (F 279).

15 E. GHIDETTI, Tarchetti e la Scapigliatura lombarda, Napoli, Libreria Scientifica, 1968, 264-65: «L’evasione da un ordine ipocrita e oppressivo si realizza così nella dimensione della malattia che si configura come il nucleo ispiratore del romanzo Fosca, […]. Il nevrotico Giorgio che si sente morire accanto a Fosca, è il capostipite di malati e convalescenti più o meno illustri alla cui fantasia accesa e ai cui sensi raffinati dal dolore si presentava l’illusione di un’art d’exception».

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