I foreign fighters nella guerra civile siriana.
2.3 I foreign fighters
Come abbiamo accennato nei precedenti due paragrafi i “Foreign fighters” hanno, insieme agli eventi della guerra civile siriana e le gesta dello Stato islamico, catturato l’attenzione degli occidentali distratti. I “Foreign fighters” in Siria sono giovani tra i 16 e i 29 anni128 provenienti soprattutto da Tunisia, Arabia Saudita, Marocco, Giordania, Turchia, ma quelli che destano più attenzione sono quelli nati nei paesi estranei al mondo arabo come gli Stati Uniti, i Paesi dell’ Europa Occidentale e Orientale, e l’ Australia, spesso di seconda generazione, provenienti da famiglie emigrate dai paesi con religione islamica; ma esistono anche casi di europei privi di legami con l’islam.
In Europa il 5,8%129 (circa 42 milioni) della popolazione è musulmana, radicata nella metà del secolo scorso, la maggioranza di essi sono ben integrati e partecipano alla vita economica, sociale e politica delle società europee in cui risiedono. Il problema che si incontra in Europa è l’assenza di una voce comune musulmana ma si assiste alla presenza di un pluralismo che va oltre le tradizioni e compete al suo interno, anche in maniera conflittuale, impedendo di individuare un proprio modello di modernizzazione. Questo processo non sta avvenendo solo in Europa ma in qualsiasi area del mondo in cui sono presenti comunità musulmane.
Nel processo di emigrazione la famiglia rimane il luogo primario di socializzazione delle nuove generazioni, di perpetuazione di modelli di
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Albanese, A., Giangiulio, G., Molle, E., Baretsky, R., Balkan, G. Valdenassi, E. Lo Stato Islamico. p. 20 AGC comunication Cit. P.29
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Entenmann, E., L. Van Der Heide, D. Weggemansand J. Dorsey. Rehabilitation for Foreign Fighters?
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comportamento, di trasmissione intergenerazionale della cultura e della memoria, nonché di negoziazione e “resistenza” nei confronti delle pressioni dell’habitat circostante. Ma la famiglia è un sistema dinamico che muta e si adatta all’ambiente, in grado di rigenerarsi autonomamente, di mettere in atto processi di morfogenesi e di reinventare in modo creativo relazioni e ruoli; immessa in contesti diversi non può restare immutata, ma al contrario si trasforma, talvolta anche suo malgrado. La famiglia migrata subisce pressioni esterne e produce istanze interne di risposta/adattamento al cambiamento del contesto, trovandosi a sviluppare processi educativi spesso intrisi di ambivalenza tra attaccamento a codici culturali tradizionali e desiderio di integrazione e di ascesa sociale nel contesto della società ospitante, tra volontà di controllo delle scelte e dei comportamenti dei figli e confronto con una cultura che enfatizza i valori dell’autonomia personale, dell’emancipazione e, non ultimo, dell’uguaglianza tra uomini e donne. I migranti per lo più hanno storie intessute di importanti vissuti politici che le narrazioni familiari trasmettono. La psicologa Françoise Sironi (2010) suggerisce che gli avvenimenti traumatici che attraversano le collettività (guerre, genocidi, regimi dittatoriali e liberticidi, persecuzioni, violenze generalizzate …) non si limitano a modellarne la storia, ma influenzano i particolari universi psichici di intere popolazioni130.
Nel contesto familiare si vengono a creare delle memorie spesso in dissonanza (dissonanza cognitiva) con la realtà esterna che facilitano il passaggio da un disagio personale all’'identificazione con una sofferenza collettiva che conduce alla politicizzazione dell’azione, che a sua volta si trasforma in forme di impegno sia in Europa che nei paesi di origine. La famiglia si pone quindi come paletto fondamentale per il processo di radicalizzazione intrapreso dal giovane jihadista, che deve altresì sicuramente molto alle modalità di integrazione della cultura ereditata dal contesto familiare nel mondo occidentale. Riflettendo sul fallimento dell’integrazione di molti musulmani europei, molti osservatori hanno ritenuto di assegnare la colpa non tanto agli immigrati, quanto a noi stessi. Essi sostengono che, se i musulmani di prima generazione rimangono aggrappati alla propria fede e quelli delle seconde generazioni riscoprono e abbracciano con convinzione addirittura maggiore la religione dei padri, non lo si deve solo a una libertà di culto che i paesi europei doverosamente difendono e codificano nelle proprie carte fondamentali. Lo
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si deve anche all’incoraggiamento dell’ideologia multiculturalista e, soprattutto, della mentalità relativista, veri e propri articoli di fede che i più considerano segno di maturità e progresso da parte nostra131. In “Walking Away From Terrorism” [2009] il Professore John Horgan, Direttore del Centro internazionale per lo studio del terrorismo presso la Pennsylvania State University, ha elencato alcuni tratti psicosociali e sentimenti specifici che possono favorire la radicalizzazione, tra i quali: il sentimento di rabbia, alienazione o privazione dei propri diritti, la mancanza di sostegno sociale e politico, la dissociazione sociale e il bisogno di appartenenza a un gruppo/famiglia. La religione, di per sé, non è mai stata un fattore determinante132.
I foreign fighters, quindi, sono a tutti gli effetti figli delle nostre società, che hanno studiato nelle nostre scuole, hanno le nostre stesse abitudini ed hanno praticato gli sport tradizionalmente europei. Per reprimere e prosciugare il bacino di reclutamento dell’Isis è necessario comprendere la natura sociologica di questo fenomeno. Molti di questi hanno un buon livello di istruzione, discreto è il numero di laureati. Questi soggetti in crisi di identità in una società che li abbandona, oppure in taluni casi affetti da patologie mentali133, si avvicinano alla religione islamica attraverso gli amici, i parenti, l’imam, ma soprattutto aderiscono al processo di radicalizzazione tramite il web. Normalmente la figura dei jihadista europeo è rappresentata dai giovani che “non si sentono cittadini al cento per cento del Paese ospitante” o natio e “cercano un percorso personale per colmare un’inadeguatezza sociale”134
. I giovani italiani che hanno professato la religione dei padri, in età adolescenziale se ne distaccano, iniziano a fare uso di alcolici, droghe leggere e pesanti, quindi arrivano a recepire il messaggio dell’Isis, professante una “caricatura violenta dell’Islam”135
. Il fenomeno dei “Foreign Fighters” dimostra come in Occidente ci si trovi di fronte al collasso dei modelli sociali misti e di integrazione che, in Europa, avevano prodotto risultati positivi con gli immigrati della prima generazione, ma che hanno fallito con i loro figli.
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Orioles, M. E dei figli che ne facciamo? (2015)
132 La psicologia della jihad (2014) Beirut Center for Middle East Studies 133 Ivi.
134 Il Tenente Giuseppe Rabita,docente di metodologie e tecniche investigative alla Sapienza 135
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Per quanto riguarda la presenza jihadista, in Europa, è stata registrata solo negli ultimi trenta anni, periodo nel quale il fenomeno si può descrivere in tre distinte fasi evolutive:
1. La prima fase va fatta risalire alla fine degli anni Ottanta quando giunsero in Europa alcune centinaia di militanti in cerca di asilo politico. Coloro che lo ottennero stabilirono sul suolo europeo le loro “basi”. Questa militanza definibile “tradizionale” era organizzata in forma gerarchica e i vari gruppi non raggiunsero mai una vera e propria collaborazione operativa, pur esprimendo reciproca solidarietà alle rispettive “cause”. Il loro operato era indirizzato verso azioni da compiere nei paesi di origine e non nei paesi ospitanti136.
2. La seconda fase fu sancita nel 1998 da al‐Qaeda con la formazione da parte di Osama Bin Laden e Ayman al Zawahiri del “Fronte islamico mondiale contro gli ebrei e i crociati” il cui obiettivo primario era far cessare il sostegno economico e militare, in primis degli Stati Uniti, ai regimi corrotti dei paesi arabi. L’idea era quella di formare l’unione di tutti i gruppi combattenti per scalzare la presenza americana dai paesi arabo‐islamici e abbattere i relativi regimi. Il progetto di al-Qaeda si era lentamente sviluppato negli anni novanta nei campi d’addestramento afghani, sui campi di battaglia della Bosnia, della Cecenia, del Kashmir e in alcune delle moschee più radicali d’Europa. Grazie a queste interazioni i vari gruppi jihadisti presenti in Europa cominciarono a cooperare tra di loro con crescente intensità, passando dallo scambiarsi semplice aiuto morale a rapporti concreti137;
3. L’attentato dell’11 settembre 2001 messo in atto dal nucleo radicalizzato ad Amburgo ha mostrato come l’Europa fosse una ottima base per piccoli gruppi terroristici disposti ad unirsi alla jihad globale. Successivamente questo fenomeno è andato incrementando ed in molti paesi si è registrata la presenza di cellule di musulmani, nati e/o cresciuti in Europa, intenzionati ad abbracciare la jihad. In questa fase si sono formati i piccoli gruppi che non hanno avuto rapporti con al-Qaeda138;
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Maniscalco, L. & Mejiri, O. L’islam in Europa: centralità di una minoranza. (2015) 137
ivi 138
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Intorno ai primi anni Duemila fu riscontrata dalle autorità dei singoli Paesi europei la presenza di nuclei autoctoni. La repressione posta in essere a livello globale dopo gli attentati dell’11 settembre, con il conseguente arresto ed espulsione della prima generazione di militanti, ridusse drasticamente la capacità della leadership di al-Qaeda di comunicare con i propri network in Europa. Né l’una né gli altri tuttavia furono completamente annientati, ma il caos che seguì la perdita della roccaforte jihadista afghana forzò gli integralisti in Europa ad agire in modo differente. Sebbene un certo livello di coordinazione rimase, i network europei cominciarono a operare in maniera più autonoma, restando fedeli all’ideologia e agli obiettivi qaedisti, ma diventando in sostanza indipendenti nelle loro attività139. Da qui le intelligence dei paesi del vecchio continente registrarono un esponenziale aumento dei soggetti che, affiliati ai vari gruppi autoctoni sparsi per l’Europa, avevano intrapreso il processo di radicalizzazione140. Con questo termine, molte volte mal interpretato in chiave religiosa, si vuole semplicemente indicare il processo sociale a seguito del quale le persone sono portate a tollerare, legittimare, supportare la violenza per portare a termine l’obiettivo politico e religioso, ovvero la jihad141
. Prima che il terrorismo fosse associato all'Islam, i governi concentravano i propri sforzi sulla definizione del termine come fenomeno psico-sociale sintomatico di un profondo disagio sociale e forti sentimenti di privazione dei diritti civili, invece di associarne la diffusione a un'espressione di fede. Come ha osservato Lorenzo Vidino142 gli accademici occidentali si concentravano su forme di terrorismo indotte da cause nazionaliste o prettamente politiche e ponevano il terrorismo basato su motivazioni religiose in una posizione secondaria ed irrilevante. L'11/9 ha provocato un cambiamento nello studio dell'estremismo religioso ed in particolare “del livello individuale di analisi delle cause del terrorismo”: la radicalizzazione. Se gli psicologi hanno rifiutato all'unanimità il terrorismo inteso come patologia, almeno nel senso tradizionale e clinico del termine, i ricercatori hanno da poco stabilito che i militanti terroristi, in genere, condividono dei tratti psicologici comuni, che non hanno un legame particolare con l'Islam. In “Walking Away From Terrorism” [2009] il
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Vidino, L. Il jihadismo autoctono in italia. (2014) Cit. p. 23 140 ivi
141 Skidmore, J. (2014). Foreign fighters involvement in Syria. Cit. p. 13
142 Dottore di ricerca presso la Fletcher School of Law and Diplomacy specializzato in Islamismo e violenza politica in Europa e negli Stati Uniti
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Professore John Horgan143 ha elencato alcuni tratti psico-sociali e sentimenti specifici che possono favorire la radicalizzazione, tra i quali: il sentimento di rabbia, l’alienazione o la privazione dei propri diritti, la mancanza di sostegno sociale e politico, la dissociazione sociale e il bisogno di appartenenza a un gruppo/famiglia. La religione, di per sé, non è mai stata un fattore determinante144. La radicalizzazione differisce da un individuo all’altro, è graduale ed è facilitata da alcune caratteristiche come l’esistenza di collegamenti con le organizzazioni radicali e un’educazione religiosa e culturale di base.
La ricerca di Marc Sageman, in Understanding Terror Networks (2004) e Leaderless Jihad (2008), ha condotto una analisi demografica dettagliata su più di cinquecento terroristi, l’esito della quale ha messo in discussione i precedenti studi sociologici espletati in materia di terrorismo. I fondamentalisti coinvolti nella jihad globale salafista, secondo lo studio, appartengono infatti principalmente alla media borghesia locale, hanno ricevuto una istruzione adeguata e sviluppato una coscienza religiosa attraverso la self-istruction, piuttosto che all’interno delle madrase. In molti casi, sono coniugati (75%) e non hanno precedenti penali. Diversamente dai modelli analizzati in precedenza, Sageman sostiene che sia errato sovrastimare la funzione della religione o dell’ideologia all’interno del fenomeno di radicalizzazione dove le interazioni sociali giocano un ruolo più importante dell’ideologia nel fare emergere la jihad globale. Le interazioni sociali che siano esse reali oppure online svolgono un ruolo essenziale al fine di mobilitare gli individui in favore di una causa radicale145. La radicalizzazione individuale dei giovani, priva di interazione con altri soggetti, si integra sul web con la visualizzazione di video come “Call to Jihad” di Anwar al- Awlaki, “Avete due scelte, o l’hijra (la migrazione) o la jihad (la guerra santa)”, “io vi invito a combattere in Occidente oppure a unirvi ai fratelli sui fronti della jihad”146 In seguito, posto che la decisione di intraprendere questa strada spetta al singolo individuo, la radicalizzazione continua attraverso l’interazione con altri soggetti con le stesse idee, come predicatori estremisti, veterani di vari conflitti e web master di siti jihadisti che riescono ad esporre ulteriormente all’ideologia jihadista soggetti che già ne sono simpatizzanti. I veri luoghi della radicalizzazione sono le Moschee, i
143 Direttore del Centro internazionale per lo studio del terrorismo presso la Pennsylvania State University
144 Horgan, J. (2015). Psicologia del terrorismo. Edra 145
Morisco, V. Network jihadisti tra virtuale e reale.
146 Serafini, M. (2015). L’eredità di Anwar al-Awlaki, il predicatore che ispira Isis dalla tomba. Disponibile su:http://www.corriere.it
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café, le associazioni studentesche e un ruolo importante in questo processo è esercitato dalle carceri che fungono da “incubatore per la radicalizzazione” dove messaggi politici anti-occidentali sono combinati con la chiamata alla jihad globale e sono il luogo perfetto in cui i jihadisti hanno la possibilità di avviare alla radicalizzazione altri soggetti147 Mettendo da parte il circuito carcerario in cui il pericolo di avviare un percorso di radicalizzazione resta alto, dobbiamo fare attenzione anche alle dimensioni dove risulta rilevante la valenza individuale, quali il quartiere, la strada, la rete, che permettono al potenziale combattente di assumere la stessa “identità anonima” di migliaia di altri giovani. La possibilità di dialogare anonimamente sfruttando la rete permette non solo di condividere il proprio pensiero, trovando conforto in coloro che la pensano allo stesso modo, ma anche di alimentare, attraverso il contributo altrui, il proprio percorso di radicalizzazione Anche il modo di apparire va cambiando. Non più djellaba, kamis o barbe lunghe ma, pur di restare anonimi, un modo di vestire assolutamente in linea con quello della stragrande maggioranza della popolazione giovanile. Lo stesso avviene sul piano espressivo della propria religiosità: non più ostentazione della fede in occasione delle preghiere congregazionali e della khutba degli imam del venerdì che possono attirare sui partecipanti la non voluta attenzione degli apparati di sicurezza o comunque dell’ambiente in cui si vive, ma l’adozione di tecniche di inabissamento che permettano di apparire come “persone normali”148
.
Il processo di radicalizzazione viene considerevolmente alterato dal ruolo esterno esercitato dal reclutatore e dai media. Come testimoniato da agenti di sicurezza danesi, solo l’1% dei foreign fighters sembra aver ricevuto una conoscenza elementare dei dogmi della religione islamica direttamente da un teologo, mentre la maggioranza dei combattenti ha iniziato la fase di radicalizzazione attraverso manuali online come Islam for Dummies o The Koran for Dummies. Dal punto di vista del reclutatore i “Foreign fighters” sono fondamentali poiché costituiscono la forma più potente di propaganda149 tendendo a pubblicizzare l’immagine della dimensione globale della causa del conflitto e del gruppo. Malet (Professore all’Università del Colorado) enfatizza il ruolo del reclutatore nel manipolare un
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Horgan, J. (2015). Psicologia del terrorismo. Edra 148
Menichelli, S. La vocazione jihadista dei foreign fighters e la risposta dell’UE. 149
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conflitto civile distante in una minaccia della più grande identità transnazionale150. Il target del reclutatore è rappresentato dagli individui vulnerabili che si riconoscono in questa identità con lo scopo di ispirarli a partire, raggiungere la zona di guerra e combattere in difesa della loro identità. Secondo Malet ai fini del reclutamento la natura dell’etnia, della religione o del pensiero politico sono irrilevanti e per il reclutatore, tutte le vittorie sono necessarie per preservare l’identità condivisa151
, inoltre ciò che veramente importa ed è fondamentale è l’essere militanti islamici, senza distinzioni di razza, etnia o provenienza geografica. La radicalizzazione tende ad essere localizzata da una parte all’altra del globo e quindi non ha limiti geografici, motivo per cui la propaganda dello Stato Islamico è molto forte e ha avuto sempre l’obiettivo di diffondere la propria ideologia e recapitare l’invito a tutti i musulmani del mondo di aderire alla jihad contro il nemico che si configura in tutti coloro che non professano la corrente Sunnita, tra i quali spiccano inevitabilmente gli sciiti. In Siria questo è stato possibile grazie all’utilizzo dei migliori mezzi di comunicazione come Facebook, FM ask, You tube Twitter, Instagram, ProtoMail (che permette di inoltrare posta elettronica cifrata). I jihadisti riescono ad ovviare anche alle sospensioni di account Twitter, aprendo nuovi account con una piccolissima variazione del nome rimandando sempre a user che sono stati identificati in Stati Uniti, Canada, Svizzera, Olanda, Per ovviare a questi problemi l’ Is, a inizio 2015 ha annunciato il lancio, di una piattaforma propria di messaggistica per garantire una “privacy” maggiore ai propri utenti e agevolare la riservatezza delle comunicazioni mirate al reclutamento di nuovi jihadisti (App Alrawi152). Questi strumenti usati anche come link tra il campo di battaglia e gli spettatori seduti comodamente nelle loro case, ai quali vengono mostrate le vittorie ottenute dai combattenti, stimolano l’adrenalina e il testosterone nei soggetti che assistono al video con il risultato di infondere il loro il desiderio di provare dal vivo le emozioni scaturite dalla violenza del combattimento. L’inevitabile conseguenza diventa quindi la partenza di centinaia di volontari verso la Siria con la speranza di raggiungere lo status di eroe di guerra. I Social network, quindi, sono i non luoghi dove diffondere il verbo, dove arruolare, ma soprattutto informare. La propaganda dello Stato islamico è diversa dalle “tradizionali” propagande politiche per il suo esporre le proprie caratteristiche a 360
150 Skidmore, J. (2014). Foreign fighters involvement in Syria.Cit. p. 16 151 ivi. Cit. p. 4
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gradi. per esempio nel libro “Islamic State” si indicano tutti i consigli per raggiungere la Siria, dai successi in battaglia, come costruire le armi, come difendersi. Vengono divulgati, via internet, dei format veri e propri che i seguaci replicano, fino alla pubblicazione di un nuovo format, inoltre l’imam fa proselitismo attraverso video sulle pagine Facebook gestite dai fedeli.
“If you cannot make it to the battlefield, then bring the battlefield to yourself” è ciò che Aqsa Mahmood (studentessa Britannica) twitta esprimendo la sua voglia di unirsi alla Guerra dell’Isis. Questa, insieme ad altri numerosi fatti ed espressioni registrati sul web rappresentano il preludio ad un’escalation incontrollabile. Si tratta del terrorismo 2.0, più difficile da individuare rispetto a quello tradizionale in quanto le azioni non sono pianificate dalle cellule, delle quali i servizi segreti, già con certa difficoltà, possono riuscire a intercettare i piani, ma si pianificano spontaneamente da coloro che, trovandosi in ogni angolo del mondo, decidano di unirsi alla jihad153. Si tratta del terrorismo dei lupi solitari154, ossia individui che, ispirati dalla narrativa radicale ed integralista, commettono o preparano atti terroristici a sostegno di un gruppo, un’ideologia o di una causa specifica ma agiscono in modo isolato, al di fuori di una struttura e senza alcuna assistenza esterna155 in grado di eludere i sistemi di sicurezza di un paese occidentale, provocare un alto numero di vittime, e diffondere tra la popolazione un clima di terrore e di insicurezza in misura uguale (se non maggiore) agli attentati realizzati tramite l’utilizzo di ordigni esplosivi, minacciando la quotidianità dell’Occidente.
Anche l’Italia, caratterizzata dal self-recruitment attraverso la rete e piccoli gruppi auto-organizzati e non dall’attivismo in moschea, ormai contribuisce per la sua parte