• Non ci sono risultati.

La pratica teatrale come tecnologia di ricostruzione del Sé

4.3 Il frame teatrale

Il setting teatrale è una cornice di senso, un frame di realtà, una provincia finita di realtà all’interno di una possibilità di realtà multiple: in conseguenza della pluralità di cornici, anche l’identità è capace di rivelarsi socialmente molteplice e i Selves si susseguono nelle trasformazioni e manipolazioni delle cornici primarie.

Gregory Bateson ha parlato di cornice a partire dalle sue esperienze etnografiche, ecologiche, psichiatriche, cibernetiche e linguistiche, per definire un concetto di frame psicologico che non è né fisico né logico, ma che permette agli individui di destreggiarsi meglio nella realtà del mondo. Principio di partenza, l’asserzione per cui gli elementi basilari per il funzionamento della mente, normale o patologica che sia, sono forniti da ciò che serve a strutturare il campo sociale, ovvero gli elementi relazionali costitutivi del quadro identificato dalla cornice [Straniero, 2004]. La teoria di cornice di Bateson si trova dunque a metà strada tra la situazione concreta intesa da Thomas e il concetto psicologico di forma, in senso gestaltiano. Il frame di Bateson è una forma di metacomunicazione, imperniata non tanto sui suoi confini esterni, ma in particolare sulla comunicazione di comunicazione, nel senso che il suo essere è una sorta di contesto che informa chi vi è inserito di ciò che deve stare dentro o fuori dalla cornice, anticipando e rendendo prevedibile quello che accadrà nella situazione stessa. Il frame viene negoziato a questa dimensione tra i partecipanti all’interazione, che comunicano sulla relazione che intercorre tra loro attraverso qualsiasi atto, soprattutto comunicativo. Di conseguenza, è la cornice comunicativa stessa a definire il tipo di relazione, e le regole dell’interazione fanno da sfondo alla comunicazione che determina sia il rapporto sia il frame stesso, in un processo circolare e ridondante che ha per oggetto la comunicazione che si sviluppa all’interno della cornice [Bateson, 1972]. È la cornice a determinare il modo in cui si comunica nel setting della vita quotidiana, la cui espressione principale di socialità è di fatto la comunicazione face to face, e per questo motivo comprendere chiaramente i

frames che fanno da sfondo alle differenti situazioni comunicative è fondamentale affinché le relazioni intrattenute non siano problematiche.

Esistono dunque tante cornici quanti sono i tipi di comunicazione che intercorrono nelle relazioni tra i soggetti.

Goffman sviluppa il pensiero di Bateson, teorizzando in Encounters. Two Studies in the Sociology of Interaction l’esistenza di cornici simboliche sia quale ambito che trasforma le interazioni dal loro interno, sia come fattore che filtra la realtà esterna al pari di una membrana: la relazione tra soggetti è un processo in continuo movimento che si adatta in maniera duplice sia alle risorse esterne presenti nell’ambiente, sia agli attori interni alla situazione e alle loro interpretazioni personali. La membrana filtra secondo dei principi di rilevanza che indicano proprio quello che ogni soggetto dovrà escludere dalla propria prospettiva di interazione, confinando alcuni elementi all’esterno in modo da non alterare la situazione: la cornice setaccia le “differenze sociali” che sono le condizioni oggettive della situazione, dando vita a ruoli e risorse che no sarebbero possibili al di fuori di quell’ambiente. In tal senso, la cornice non può essere fissa, ma è mutevole, fragile, in costante sviluppo e mutamento perché la definizione della situazione – che è interna alla relazione – richiede una conferma continua affinché confermi il suo status di realtà (l’accento di realtà di Schütz).

La fragilità della situazione si evidenzia particolarmente nelle istituzioni totali, in cui si sovrappongono vari frames e in cui avvengono quelli che Goffman definisce “straripamenti” della situazione: se gli attori non sono più in grado di riproporre i rituali e le routines che definiscono le situazioni stesse, di fatto negano con i loro comportamento la cornice, tendendo così ad alterare se non a distruggere la situazione stessa. Tuttavia, come afferma Goffman in Presentation of Self, negare la definizione iniziale della situazione significa respingere la moralità dell’interazione stessa e la fiducia tra i soggetti, che richiede che gli attori – esseri sociali – abbiano il diritto morale a che gli altri interlocutori li valutino e vi si rivolgano in maniera appropriata. Ma

l’interazione avviene comunque tra soggetti diversi, per cui i frames dell’interazione sono interpretati da altrettanti individui: esiste la possibilità che coesistano contemporaneamente diverse cornici – o mondi di realtà – o più variazioni della stessa cornice.

La coesistenza di differenti ambiti di realtà era già stata precedentemente teorizzata da Alfred Schütz nel suo saggio sulle realtà multiple. La realtà è infatti data da un insieme di province finite di significato, ognuna dotata di un particolare stile cognitivo che la definisce di per sé e la rende coerente con le altre, e su cui i soggetti pongono il proprio accento di realtà. La finitezza delle province ha a che fare con il senso, che si struttura in base a campi omogenei: il senso comune è uno specifico stile cognitivo composto da soggetti che esperiscono nel mondo della vita quotidiana. Il sociologo considera questa provincia la realtà ultima e preminente da cui derivano tutte le altre, in quanto rappresenta il livello di realtà in cui i soggetti esperiscono immersi nelle concezioni di senso comune. Schütz parla infatti di province finite di significato richiamandosi ai sottouniversi di realtà teorizzati da William James, gli infiniti ordini di realtà ognuno dei quali dotato di un preciso stile di esistenza.

“Parliamo di province finite di significato e non di sub-universi in quanto è il significato delle nostre esperienze e non la struttura ontologica degli oggetti a costituire la realtà. Quindi chiamiamo un certo insieme delle nostre esperienza una provincia finita di significato se ognuna di esse manifesta uno specifico stile cognitivo ed è - rispetto a questo stile - non solo coerente di per sé ma anche compatibile con le altre.”97

Infatti, affinché una provincia non possegga più l’accento di realtà è necessario che siano incoerenti ed incompatibili tutte le esperienze che ne fanno parte, mentre se sono solo alcune di esse a non possederne i requisiti si dichiarerà la loro non validità all’interno della provincia. Schütz teorizza quindi l’esistenza

di diverse province finite98, tutte derivate dal mondo della vita quotidiana ed ognuna dotata di un proprio specifico stile cognitivo. Dato che la realtà della vita quotidiana è considerata come l’unica naturale - il campo di senso cui confrontare e riferire ogni altro vissuto - non è possibile abbandonarla se non a causa di uno shock, un trauma che obbliga a oltrepassare i suoi limiti ed a porre l’accento di realtà su di un’altra. Lo shock è causato proprio dal trasferimento della tensione attenzionale su di un’altra realtà. Riprendendo il caso della rappresentazione teatrale, anche l’alzarsi del sipario è motivo di shock: attraverso la simbolicità di tale gesto si contrappongono due mondi, due universi di realtà. Tuttavia, il passaggio da una provincia ad un’altra non avviene attraverso una semplice trasformazione: spesso tra province differenti si formano come dei vuoti, delle terre di mezzo che Schütz definisce enclaves, particolari esperienze che non appartengono in maniera definitiva e completa ad un dato ordine di realtà, ma che fanno parte di una provincia momentaneamente rinchiusa all’interno di un’altra.

Un esempio calzante della pluralità dei mondi sono le avventure di Don Chisciotte. Schütz, infatti, fa uso dell’opera di Cervantes per analizzare il senso della realtà, la costruzione dei significati in un comune ambiente condiviso e soprattutto il problema della costituzione intersoggettiva della realtà99. Al fine

98 Se il mondo della vita quotidiana è per Schütz la provincia finita per antonomasia, ne

esistono innumerevoli, ognuno dotato di un proprio stile cognitivo. Tra i principali sottouniversi di realtà studiati dal sociologo, ci sono il mondo del sogno, il mondo della scienza, il mondo del fantasticare e dell’immaginare.

99 Don Chisciotte, pur se inserito nella realtà comune, agisce convito di trovarsi all’interno del

mondo della cavalleria - un frame differente con un codice di morale e condotta altrettanto diverso -, e adotta comportamenti che se per il senso comune sono frutto della pazzia nella sua ottica di cavaliere hanno invece una perfetta coerenza logica. Le avventure del cavaliere errante sono uno strumento di cui il sociologo si serve per poter affrontare il problema di cosa si possa concepire come reale: Chisciotte appare come la metafora del dubbio, della messa in crisi dei significati ritenuti socialmente validi, mentre il fedele Sancho Panza raffigura il senso comune, con i suoi saperi comunemente approvati e di conseguenza dati per scontati. Don Chisciotte vive apparentemente all’interno della provincia finita di significato dell’immaginare, in cui non esistono i comuni vincoli di tempo e spazio ma in cui non sono concesse incongruenze logiche, ed in cui l’io che agisce è un Me, un sé parziale che riveste un ruolo particolare. Tuttavia, nei momenti in cui agisce come un cavaliere, in realtà non oltrepassa mai i confini del mondo della vita quotidiana. Come asserito da William James, esistono diversi ordini di realtà, probabilmente un numero infinito, ognuno con il suo specifico e distinto modo di esistenza: l’origine e la fonte di ogni realtà è sempre soggettiva [Schütz,1971].

della riflessione sul setting teatrale, di particolare rilevanza è la riflessione del sociologo sull’episodio della messa in scena dei burattini: Don Chisciotte si trova ad assistere ad una rappresentazione di teatro, e la situazione di fatto consta di tre realtà differenti. Da un lato il mondo della vita quotidiana, veicolato dal pubblico che esperisce la rappresentazione e che osserva l’intera scena attraverso la codifica del senso comune100; sul palcoscenico il mondo del teatro, della finzione scenica; poi il cavaliere errante portatore di un suo proprio universo di realtà e rappresentante della provincia finita di significato della follia e dell’immaginario. La scena viene modificata dall’intervento del cavaliere, che fraintende la pluralità di province di senso ed “entra” nel settino teatrale. Il nodo critico che emerge in questa precisa circostanza è quello della realtà dell’opera d’arte. Il pubblico che assiste al frame teatrale sposta il proprio accento di realtà dal quotidiano al mondo della scena, dall’istante esatto in cui il sipario si alza. Per questo motivo sulla scena esiste Amleto, mai il personaggio di Amleto o l’attore che lo interpreta. Ma la realtà che avviene sulla scena possiede un ordine del tutto differente rispetto al palcoscenico della vita quotidiana: è solo quest’ultimo che è passibile di cambiamenti e azioni, e che può essere il regno della comunicazione tra soggetti sociali. Il pubblico appare “impotente” rispetto alla realtà del teatro, così come dell’opera d’arte. Non può agirvi, né modificarlo. Attraverso un procedimento empatico, può essere coinvolto emotivamente e sensorialmente nella rappresentazione, ma non può interferirvi in quanto, di fatto, non può esserci intrusione di una realtà nell’altra, né reale comunicazione.

La problematica nasce dalla questione della moralità intesa come fiducia. Nel mondo del quotidiano si è soliti agire dando per scontato di comprendere le cose per quello che sono, fino al momento in cui sopraggiunge qualche

100 Il senso comune è per Schütz, in ultima istanza, quello che ciascuno crede che gli altri

credano: è il risultato di un tacito accordo intersoggettivo che si basa sull’ereditarietà delle esperienze dei propri predecessori e che è costantemente riprodotto e riconfermato dall’attiva prestazione di fede di ogni attore sociale. Nel mondo della vita quotidiana, dunque, è reale

problema che obbliga a rivedere quello che era stato dato per assodato101. La comprensione quotidiana del mondo si basa sì sui presupposti di senso comune, che riguardano fatti fisici o materiali, ma soprattutto sullo stock di conoscenza derivata che si ha a disposizione, e che percepita come scontata: in questo senso il senso comune è il risultato di un accordo intersoggettivo per cui è quello che ciascuno crede che tutti gli altri credono [Jedlowski, 1995]. La differenza di interpretazione deriva dalla diversità tra punti di vista, non da una differenza sulla realtà, e la struttura interpretativa della realtà quotidiana non è applicabile a situazioni che, trascendendo questa realtà, vanificano i presupposti di ogni possibile spiegazione valida nel sottouniverso che è stato lasciato. Inoltre, se viene meno la fiducia nella sostanziale identità dell’esperienza intersoggettiva del mondo, cade la possibilità di comunicazione nell’interazione tra simili [Schütz, 1971].

Tali riflessioni inducono a riflettere sulla tematica dell’esistenza dell’Altro. Il concetto non appare il perno del pensiero di Schütz, in quanto è utilizzato in maniera strategica in alcuni momenti della soggettività. Pur riferendosi al Self di Mead, il sociologo austriaco non mostra quello che passa tra il Sé e gli altri: l’esistenza altrui è garantita, ma le sue implicazioni in una matrice intersoggettiva che assuma una natura di senso e comunicativa non è pienamente esplicata. Tuttavia, l’Altro non è semplicemente esistente: è articolato, esprime intenzioni, valori, giudizi. Non è soltanto la percezione di un’entità: la sua esistenza è assunta in quanto la vita quotidiana è profondamente intersoggettiva, costruita sulla reciprocità delle prospettive, e in questo costitutiva della persona stessa. Schütz non ne esamina completamente le implicazioni dell’interazione e della creazione condivisa di senso e realtà: l’Altro è solo una possibilità per il Self, è meramente una parte del mondo così come è costituito dal soggetto, il “chiodo” a cui si appende tutto il resto [Perinbanayagam, 1975]. Saranno Mead e Cooley a sviluppare in maniera più

101 P. Jedlowski, Introduzione a Jedlowski P. (a cura di), A. Schütz..Don Chisciotte e il

profonda il ruolo dell’Altro nella percezione del Sé: nella concezione che Schütz ha del mondo sociale, ognuno è straniero per gli altri, in quanto la definizione della situazione non avviene nell’interazione tra individui, non c’è un Altro Generalizzato ma esistono soltanto “gli altri”.

Tutti i mondi sono, dunque, parimenti reali a partire dal soggetto, e coesistono al punto tale che possono verificarsi passaggi tra diverse province di significato, ma non interferenze. Ervin Goffmann in Frame Analysis - l’opera più matura, nella sua proficua analisi sull’interazione umana - pone il problema della pluralità dell’esperienza, dedicando la sua attenzione alla metafora del teatro inteso nel modo in cui si distanzia ed invade la dimensione reale della vita. Il fulcro del pensiero non è l’attributo di realtà delle varie esperienze, ma il tentativo di delimitare i vari contesti di comprensione, i frames, che attribuiscono senso alle situazioni sociali che incorniciano rendendo possibile la loro interpretazione. Le strutture primarie – i frameworks – sono indispensabili per esperire le situazioni negli spazi del quotidiano, in quanto traducono tutto ciò che altrimenti rappresenterebbe un aspetto insignificante della situazione in qualcosa pieno di senso, “organizzando” la dimensione della vita quotidiana [Goffman, 1974]. Le strutture primarie, dunque, rendono intelligibile la realtà di fronte a cui è possibile trovarsi, fornendo la chiave di lettura coerente rispetto la condivisa definizione della situazione. All’interno del telaio del frame, ogni soggetto si accorda con gli altri e si assume la responsabilità della definizione - puramente relazionale - di essa. Il procedimento è quello di accounting, tipico degli etnometodologi, per cui si organizza in modo logico e consequenziale l’esperienza del mondo, offrendo così all’esperienza la stessa compiutezza di una rappresentazione teatrale.

Al pari, Goffman affronta anche la questione del rapporto tra la dimensione del reale ed il mondo del teatro inteso come frame: ripropone dunque la medesima metafora di Presentation of Self, ma intendendo utilizzarla solo con una determinata cautela: l’analogia con il teatro presenta delle inadeguatezze sia nella spiegazione della costruzione della realtà, sia del

mondo del teatro. La chiave della riflessione e dell’analogia teatrale, in questo saggio, è il delimitare la definizione alla performance in un’accezione di senso che richiede la conoscenza del frame in cui l’azione stessa è inserita, a partire dalla consapevolezza della vulnerabilità delle cornici [Manning, 1991].

“Tutto il mondo non è un palcoscenico – certamente il teatro non lo è del tutto.”102

Nodo della riflessione di Goffman è il tentativo di non considerare il reale quale attributo intrinseco degli oggetti di attenzione, ma di isolare alcuni contesti di comprensione – i frames – che funzionano da cornice cognitiva alle varie situazioni sociali e forniscono loro un senso, rendendo intelligibile il flusso delle cose. L’opera di Goffman è, quindi, sempre caratterizzata dalla ricerca di quelle strutture profonde identificanti le azioni sociali degli individui: è necessario andare oltre al contesto ed estrapolare la struttura che sta alla base, composta da alcune invarianti contestuali capaci di essere applicate sia nello studio di relazioni, sia nell’analisi generale dell’interazione umana. In questo senso pare necessario lo studio del contesto di senso all’interno di cui si realizzano, e quindi dell’idea stessa di “cultura” che consente la comprensione reciproca nella cornice del processo stesso di interazione. Per Goffman, la realtà appare sempre incorniciata, situata e precompressa in modo dinamico e complesso attraverso il sistema di frameworks, gli schemi organizzativi che guidano gli individui nella definizione delle situazioni e permettono la selezione necessaria all’organizzazione ed alla percezione dell’esperienza. Il frame, infatti, orienta la comprensione dei messaggi ed indica quale tipo di ragionamento impiegare al fine dell’interpretazione della realtà sociale. Goffman lo definisce quale la cornice cognitiva che rende intelligibile un flusso di eventi ponendovi intorno una cornice, inserendoli in un contesto interpretativo [Goffman, 1974]. I frames sono dati dalla “corrispondenza tra il modo individuale di conferire il senso e le premesse organizzative implicate”

102 E. Goffman, Frame analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando editore, Roma,

[Trifiletti, 1991, pag. 351], ovvero ogni immagine della realtà è filtrata da quelli che sono i processi attraverso cui si giunge ad intendere la realtà stessa. Infatti, la realtà appare precaria nel suo essere molteplice: ciò che interessa a Goffman sono le continue possibilità di rileggere in maniera trasformativa le varie cornici, attraverso il procedimento di keying (elemento del framework primario) che ridescrive una sequenza di atti che è già stata posizionata all’interno di un frame.

“Mi riferisco all’insieme di convenzioni sulla base delle quali una data attività, già significativa in termini di una qualche struttura primaria, viene trasformata in qualcosa modellato su questa atività ma visto dai partecipanti come qualcos’altro.”103

Il concetto di cornice che il sociologo canadese utilizza è mutuato dal pensiero di Bateson, in quanto meccanismo che organizza l’esperienza e che si fonda sulla consapevolezza del suo accadere da parte dei partecipanti all’interazione. La cognizione assumerà gradi differenti tra i soggetti, e quindi alcuni deterranno un’esclusività del controllo delle informazioni che altri non avranno. Tale attributo risponde all’esigenza puramente umana di ricercare una struttura di riferimento – il frame – che possa spiegare l’accadere delle cose nel modo in cui si svolgono. La pluralità di cornici, tuttavia, fa sì che possano sussistere anche elementi di cornici virtuali di cui l’individuo non è a conoscenza, o di cui non si accorge: l’attore sociale è per Goffman sempre capace di manipolare la situazione, deviando le impressioni altrui a proprio vantaggio. Infatti, a suo parere, gli individui interpretano la loro esperienza proprio in base a queste strutture primarie che traducono ciò che non appare significativo in qualcosa pregno di senso: il frame individua e orienta gli scopi e le modalità delle azioni dei soggetti, e le loro valutazioni, sia sociali che programmatiche, nell’ordine dell’interazione.

Il processo di keying permette di entrare dentro le situazioni mutando l’attività esperita in un’altra forma, e comportando dunque implicazioni differenti. Infatti, attraverso la messa in chiave è possibile porre l’accento su di un alto ordine di realtà diverso da quello della vita quotidiana, esperendo un frame creato provvisoriamente: è questo il caso della rappresentazione teatrale.