Il Self in un frame totalizzante
2.1 Sul perché le istituzioni total
L’istituzione di reclusione, l’ospedale psichiatrico, gli spazi di accoglienza sono definiti da Foucault eterotopie, nel senso di luoghi opposti (anche terminologicamente) al concetto di Utopia, quello spazio idilliaco in cui il Self si percepisce capace di esprimersi appieno e liberamente, e che è destinato a tutti gli uomini, invece che a categorie particolari di popolazione. I penitenziari riflettono appieno la logica delle eterotopie e delle istituzioni totali così come le ha interpretate Erving Goffman. La separazione che esse impongono è funzionale alla rimozione degli effetti psicologici del contatto con la diversità e la devianza da parte della parte della società “sana”, creando artificialmente contenitori di individui impossibilitati non solo ad esprimersi, ma anche ad essere Sé totali e completi. L’isolamento imposto dagli “spazi altri” richiede una rieducazione, un percorso terapeutico che passa dalla segmentazione e dalla rimozione del Self in Sé parziali, parziali, incompleti, mortificati. La reclusione diventa in tal modo un processo di annientamento dell’esperienza, in cui la pena, più profondamente, viene ad essere la privazione di un tempo sociale, del rapporto spaziale e comunicativo con gli altri individui. Nella moderna concezione della reclusione, si intende la condanna quale sinonimo di un inesorabile processo di annullamento del Self, che si protrae lungo tutto il tempo della reclusione: l’azione disciplinare di traduce così in un processo cosciente di distruzione dell’esperienza individuale e del suo essere relazionale [Dubbini, 1986].
L’isolamento viene però percepito dalla comunità come unica forma in grado di preservare il vincolo di socialità a livello comunitario, per arginare ciò
che, in definitiva, è fonte di timore ed incertezza: lo spazio diviso assume una forma istituzionalizzata, in quanto la scelta della segregazione diventa la forma paradigmatica del controllo sociale. In questo senso anche lo spazio urbano è significante di una forma di amministrazione dell’altro da sé, che esclude dalla partecipazione alla vita comunitaria così come dalle pratiche e dalle dinamiche di espressione della libertà [Paone, 2005].
"Un'istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e lavoro di gruppi di persone che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo - si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato."38
Le istituzioni totali perciò altro non sono che quegli spazi fortemente e rigidamente limitati - in parte comunità residenziale in parte organizzazione formale [Goffman, 1961] - in cui sono segregati gli incapaci non ritenuti fonte di pericolo (ciechi, vecchi, orfani o indigenti), i pericolosi per la comunità (sanatori, ospedali psichiatrici, lebbrosari), coloro che sono altamente pericolosi o ritenuti tali (prigioni, penitenziari, campi di prigionia, lager), ma anche le istituzioni create per svolgere in un luogo concentrato alcune attività (caserme, navi, collegi, campi di lavoro, piantagioni coloniali) o in cui ci si isola volontariamente dal mondo (abbazie, monasteri, conventi, chiostri).
La centralità delle istituzioni totali in una riflessione di tal genere trova risposta proprio nella loro definizione quali spazi chiusi di isolamento di tutti coloro che, per volontà o condizione, si trovano al di fuori dell’ordine prestabilito, ed il cui Sé non si adegua ma contrasta il modello sociale e normativo posto: i devianti, gli etichettati, i diversi. L’assunto di partenza è nuovamente la considerazione della formazione delle identità sociali, ed in particolare la modalità mediante cui ogni società è usa ad usare un certo grado
38 E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza,
di classificazione per definire i comportamenti e le azioni dei propri individui. Si tratta di un insieme, un’unità di simboli, linguaggi, atteggiamenti, labels ecc… che identificano le condotte in maniera sistemica, astraendole dai soggetti che le agiscono e rendendole omogenee all’intera classe di individui.
“Tale repertorio rappresenta un sapere organizzato e una sorta di estensione dell’attività di dare nomi, del definire i tipi di identità che si possono anticipare, istituendo determinate somiglianze e differenze. In virtù di questo repertorio, gli individui che agiscono dispongono di un insieme di risorse da utilizzare per classificarsi e riconoscersi vicendevolmente. Occasionalmente, tuttavia, riscontrano fenomeni che, dal punto di vista delle classificazioni in atto, risultano emergenti, più spesso perturbanti, devianti, patologici.”39
Ciò significa che il contesto in cui si collocano le interpretazioni dei meccanismi totalizzanti è quello della devianza, della distinzione e della categorizzazione. Le strutture rigide e formali rispondono quindi ad un dovere sociale di ri-classificazione, ovvero sono chiamate a “convertire” gli individui i cui tratti caratterizzanti l’identità non appaiono conformi, ed a riformare la loro personalità secondo altri criteri di giudizio. Ai reclusi viene così chiesto un sacrificio della loro personalità in cambio dell’accettazione sociale, di una normalità pubblica socialmente condivisa ed accolta. Ecco perché le istituzioni totali sono istituzioni che riparano, cioè ricollocano i soggetti devianti all’interno del solido confine del comportamento collettivo passibile di un riconoscimento comunitario. E la loro azione riparatrice funziona anche da consolidamento proprio di quel confine, per ribadire il senso dell’unità collettiva e la sua sicurezza. L’incidenza è duplice: nella dimensione sociale ed in quella individuale. A tal proposito, non è possibile trascurare l’intima connessione che viene a svolgersi tra il controllo sociale da un lato ed il processo di formazione del Self degli individui, attraverso l’attribuzione di
individualità standard, convenzionali, tipiche nel senso di pre-ordinate. Ne deriva la considerazione per cui i reclusi perdono la loro soggettività anche perché sono relegati al rango di oggetti: non solo elementi da osservare e rieducare, ma sono “prospettive”, in quanto la connotazione attribuita ad ogni individuo non può prendere forma a partire dalla sua propria natura, ma dalla frequenza con cui quella medesima connotazione gli è conferita dagli altri, in relazione alla categoria di appartenenza [Sparti, 1996].
Il frame in cui ci si muove è strettamente sociale e intersoggettivo, ma l’azione coinvolge differenti soggetti, ed a dimensioni molteplici.
Particolarmente significative, in tale ottica, vengono ad essere non solo le relazioni con la struttura sociale di riferimento, ma soprattutto anche le relazioni che intercorrono tra gli internati o i detenuti: essi si trovano forzatamente a dividere una situazione comune, all’interno di un regime rigorosamente chiuso e formalmente amministrato. Nel momento in cui l’internato si affaccia alla realtà dell’istituzione, porta con sé la propria cultura, il proprio sistema di valori e diritti, e tutta una serie di elementi che fino a quel momento ha percepito come garantiti [Goffman, 1961 a]. Ma l’organizzazione totale stessa è inglobata in un sistema più ampio, che concerne un insieme di esperienze collegato ad una determinata e particolare concezione del Sé.
“Le istituzioni totali non sostituiscono la loro cultura univoca a qualche cosa di già formato; qui si ha a che fare con qualcosa di più limitato del processo di acculturazione o di assimilazione. Se avviene un cambiamento culturale, esso è legato – probabilmente – alla rimozione di certe possibilità di comportamento e al mancato tenersi al passo con gli ultimi mutamenti sociali che avvengono nel mondo esterno. Così, qualora la permanenza dell’internato si protragga, si potrebbe assistere a ciò che viene definito come un processo di «disculturazione», vale a dire una mancanza di «allenamento» che lo rende incapace – temporaneamente –
di maneggiare alcune situazioni tipiche della vita quotidiana del mondo esterno, se e quando egli vi faccia ritorno.”40
Al pari del proprio sistema esperienziale, mutano anche le coordinate di spazio e tempo, che al pari di tutto quello che pare essere rilevante per l’uomo sono frutto di una definizione condivisa. Il tempo attribuisce valore al rapporto con i territori: ricordando ciò che è avvenuto nel passato o anticipando quello che potrà o meno accadervi si attribuisce senso ai luoghi umani. Ciò che si verifica, dunque, non è una sopraffazione, ma la creazione di un alto grado di tensione e disarmonia tra il contesto personale e il frame istituzionale che pone significative conseguenze a livello di concezione del proprio Self e dei ruoli agiti da parte degli internati. È una dimensione definibile soltanto nell’astratto, e per questo motivo l’organizzazione sociale ha dovuto inventare modi per misurarlo, per scandirlo e soprattutto per gestirlo. La gestione attiva del proprio tempo è fortemente limitata agli internati, se non preclusa, in quanto né orari né routines né i ritmi e la durata delle attività possono essere da loro decisi autonomamente. Lo spazio, rigido strutturato amministrato e chiuso, con le sue barriere è l’espressione fisica dell’attitudine totalizzante dell’istituzione. Sono restrizioni che costituiscono una minaccia per l’identità: quello che definisce ciò che un individuo è, necessariamente si lega a quello che uno è libero di fare o meno. Chi si trova internato, ha di fatto perso il contatto con il tempo, la sua percezione ed il controllo, e di conseguenza - perso il controllo su di sé - si trova spogliato del ruolo che comunemente agisce nel contesto sociale in una sorta di “morte civile” [Perrotta, 2005; Goffman, 1961 a]. Ma il ruolo agito dagli internati va di pari passo, nel bene o nel male, con quello giocato dallo staff, dal personale della struttura, il cui compito fondamentale non è di interagire ma di agire sugli uomini stessi, quali fossero oggetti o prodotti di lavoro.
Se l’accento è posto su quel che è “rigettato” fuori dalla società, le istituzioni totali appaiono come luoghi di annullamento della persona, che privata di ogni dignità del Sé finisce per perdere le proprie istanze in un costante annullamento, e contemporaneamente si trova ad essere plasmata e codificata in oggetto dalla nuova realtà in cui è forzatamente inserita. Come afferma Foucault, non si tratta più di considerare non più cosa sia affermato e valorizzato all’interno di una società, ma di studiare cosa quello che è stigmatizzato, giudicato deviante: la follia ne è l’esempio più calzante, assieme alla detenzione. Ogni realtà tale è infatti frutto di una propria storia, che come ha illustrato il francese risale al Medioevo o all'inizio dell'età moderna. Nell’evoluzione storica della società, sono stati considerati reietti tutti coloro che si trovavano al di fuori dell’ordine sociale, coloro il cui Sé non si adeguava al modello imposto dal mondo esterno. È per tale motivo che sono nate istituzioni come il carcere oppure gli ospedali psichiatrici, veri e propri istituti di trattamento simili a luoghi di reclusione.
Tra le chiavi interpretative più consone al tentativo di comprensione dei meccanismi del Sé nei frames totalizzanti, emerge con chiarezza la riflessione fornita dalla corrente dell’Interazionismo Simbolico. Secondo tale impostazione, la condotta umana è prettamente simbolica, ovvero attraverso un processo di interazione con i propri simili il soggetto crea un mondo simbolico che contrappone al suo mondo naturale, e che è fatto di simboli, situazione, cooperazione. È il frame simbolico l’ambiente reale in cui vengono gestite le interazioni sociali, le routines e tutte quelle forme di comunicazione interpersonale che trasformano i gesti in simboli e gli elementi in oggetti sociali. Alla base del processo - eminentemente intersoggettivo – risiedono sia l’insieme dei significati condivisi, sia la definizione della situazione. Gli individui agiscono dunque in base al sistema di simboli e significati che codificano il mondo, secondo un meccanismo che in qualche modo è normato e universale e che primariamente tiene conto della coscienza dell’altro come
presenza costante nell’esistenza individuale [Romania, 2008], e che si collega alla concettualizzazione operata da Blumer a proposito dell’azione collettiva.
“Any human event can be understood as the result of the people involved (keeping in mind that that might be a very large number) continually adjusting what they do in the light of what others do, so that each individual’s line of action “fits” into what the others do. That can only happen if human beings typically act is not a non-automatic fashion, and instead construct a line of action by continually taking account of what others do in response to their earlier actions. […] To complete the system, human beings can only act in the way the theory requires if they can incorporate the responses of others into their own act and thus anticipate what will probably happen. If everyone can and does do that, complex joint acts can occur.” 41
Gli individui devono quindi agire creando, all’interno di tale processo, un Self nel senso inteso da Mead. Ed è proprio l’enfasi sul modo in cui le persone costruiscono il significato degli atti altrui a rendere “simbolica” l’interazione [Romania, 2008].
Nella cornice totalizzante, dunque, i reclusi presentano una particolare definizione della situazione e un’altrettanta singolare presentazione del Self. Portatori di stigma per il solo attributo dell’internamento, si trovano a difendere la completezza del proprio Self da una serie di aggressioni – sociali e materiali
41 H.S. Becker, Herbert Blumer’s Conceptual Impact, in “Symbolic Interaction”, 11, Spring
1988, pag. 18.
Ogni evento umano può essere compreso come il risultato delle persone coinvolte (tenendo conto che possono esserci anche un numero molto grande di individui), le quali aggiustano continuamente ciò che fanno alla luce di quello che fanno gli altri, così che le linee di azione individuale “combacino” con quelle degli altri. Ciò può accadere soltanto se gli esseri umani agiscono tipicamente in maniera non automatica, e invece costituiscono linee di azione tenendo conto del significato di ciò che gli altri faranno in risposta alle loro azioni precedenti. […] Per completare il sistema, gli esseri umani possono agire nel modo richiesto dalla teoria solamente se possono incorporare le risposte degli altri nei loro propri atti e quindi anticipare ciò che probabilmente avverrà. Se ognuno può farlo, possono verificarsi complesse azioni collettive . [traduzione a cura dell’autore]