La pratica teatrale come tecnologia di ricostruzione del Sé
4.2 Il setting del laboratorio teatrale come tecnologia
Altro luogo ideale per riflettere sui processi di trasformazione della coscienza – e quindi perfetta tecnologia del Sé – appare essere il setting del laboratorio teatrale. All’interno vi si avviano processi corporei, linguistici, mentali e sensoriali che si fanno medium per le possibilità del sentire se stessi e dell’auto-realizzarsi attraverso un miglioramento della percezione del proprio Self. Il setting laboratoriale si caratterizza in quanto in esso si persegue un cambiamento, da intendersi sia come cura, una modificazione di uno stato patologico o di disequilibrio; sia come trasformazione della coscienza nonché delle pratiche sociali più comuni. Al suo interno è possibile il disintegrarsi delle forme prestabilite, la creazione di un nuovo ordine delle cose grazie all’utilizzo di codici non scontati, non precostituiti. All’interno dell’esperienza teatrale è possibile, quindi, la realizzazione di una nuova percezione del Sé, la costituzione di una nuova individualità indivisa e neutra, vergine rispetto le norme sociali esterne e i meccanismi di potere imposti. Il setting teatrale si pone, dunque, come luogo di trasformazione della propria consapevolezza del mondo e di sé, e come ambito di liberazione dagli autonomismi del corpo.
Esso si mostra come un frame, una cornice in cui quello cui viene dato risalto è il processo e non l’oggetto stesso del teatro. Più che il luogo in cui prende forma una rappresentazione, il setting rappresenta una vera e propria definizione della situazione, nel senso in cui era intesa da Goffman. Il suo essere costituito da una pratica metodica e da un codice tecnico [Cavallo, 1996] e simbolico fa sì che possa essere considerato una cornice sociale in cui prendono forma interazioni, emozioni, reazioni, ruoli e personaggi che seguono determinati schemi e strutture di pensiero e di azione.
Il setting teatrale può diventare quindi un’efficace via di trasformazione, esprimere la potenzialità dell’espandersi dell’interiorità fino a giungere al mondo esterno, ed essere così - utilizzando la terminologia di Foucault - proprio una tecnologia del Sé. Ed il pensiero stesso che si attua attraverso la pratica teatrale è foucaultianamente dialogico, comunicativo: è un pensiero narrativo, basato proprio su processi empatici. Il cambiamento che vi avviene può essere inteso sia come cura (una modificazione di uno stato patologico o di disequilibrio verso un assetto maggiormente adattivo); sia come trasformazione della coscienza. Entrambi i processi di cambiamento possono essere associati alle due metodologie di apprendimento batesoniane: il deutero-apprendimento e l’Apprendimento 3 [Cavallo, 1996].
Il deutero-apprendimento (o Apprendimento 2) si riferisce a quel processo per cui si “impara ad imparare”, e che, postulando l’apprendimento di schemi cognitivi sulla base dell’esperienza ed il trasferimento dell’apprendimento, si definisce apprendimento di secondo livello. Emerge nelle faccende umane in molteplici modalità, ma Bateson fa principalmente riferimento a tre casistiche particolari [Bateson, 1972]:
1. nella descrizione degli individui, nel fare ricorso ad aggettivi relativi agli aspetti del carattere in relazione al tipo logico appropriato;
2. nella segmentazione dell’interazione umana, nell’esaminare ciò che avviene negli scambi tra attori, in base alla percezione dei contesti;
3. in psicoterapia, nel caso dei fenomeni di transfert.
Ma il livello di apprendimento che maggiormente appare inerente a tale ordine di considerazioni è l’Apprendimento 3: è una modalità che dà conto, in certo qual modo, a tutte le operazioni che gli individui pongono per modificare il loro essere nel mondo, il loro proprio Self.
“Le premesse di ciò che è comunemente chiamato ‘carattere’ – cioè le definizioni dell’‘io’ – risparmiano all’individuo la necessità di esaminare gli aspetti astratti, filosofici, estetici ed etici di molte sequenze della vita.
[…] Ma l’Apprendimento 3 renderà queste premesse non esaminate suscettibili di indagine e di cambiamento.”93
Ciò ha a che fare con una profonda ridefinizione della soggettività. Per chi, secondo Bateson, è fortunato, la dissoluzione di quello che era stato appreso al precedente grado di apprendimento è in grado di riportare alla luce una sorta di semplicità, di purezza del comportamento. Per i più creativi, invece, la risoluzione dei “contrari” generati al secondo livello rivela un mondo in cui l’identità personale si fonde con i processi di relazione: sono coloro che, come scrisse William Blake, “vedono il Mondo in un granello di sabbia”. L’apprendere cose sull’identità può quindi condurre ad una forma di trasformazione del Sé, in particolare dei potenziali confini o del centro – se esiste – di esso [Bateson, 1972]. Nella misura in cui l’uomo consegue l’Apprendimento 3 impara ad agire e a percepire in termini non più di singolarità, ma di totalità (il contesto di contesti), l’io singolo perde di rilevanza nella segmentazione dell’esperienza: tutto questo può essere considerato come un sinonimo di “risveglio della coscienza”, di “rivelazione” e “illuminazione”.
Il setting teatrale si presenta così come una “tecnologia teatrale del Sé” in quanto aiuta a disvelare, attraverso le tecniche e le pratiche, una serie di motivazioni, finalità, pensieri e convinzioni. Nella pratica, si realizza mediante una metodologia di azione in grado di ricostruire l’unità dell’esperienza, integrando la componente soggettiva con l’oggettività, quello che è reale con l’immaginario. Vi si perseguono alcuni skills, che si riflettono da un lato sulla produzione artistica/estetica, dall’altro proprio nell’interiorità degli individui - adesso non più soltanto attori sociali ma soggetti performativi - provocandone una modificazione profonda. Tra i principali obiettivi espliciti del setting teatrale possono essere annoverati [Cavallo, 1996]:
- un rinnovamento del sentire che coinvolge sia l’attore che lo spettatore;
93 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1977, edizione consultata
- la rappresentazione di una realtà fluida, mutevole e cangiante;
- una trasformazione del comune sentire e rappresentarsi il mondo quotidiano;
- il superamento della frammentarietà del reale quotidiano, raccolto nell’unitarietà della performance;
- un riferimento alle pratiche rituali, che si ricollega ad un sentire condiviso tipico di un’esperienza di comunità;
- una nuova scoperta – o la riscoperta – delle strutture del mondo circostante; - la conseguente critica di quello che è accettato come condiviso e normale; - la messa tra parentesi del condizionamento esterno e degli obblighi richiesti
dal ruolo sociale che si riveste abitudinariamente, in modo da poter liberare la propria personalità;
- la resa di qualcosa di autentico nella rappresentazione stessa94.
Ciò che emerge è primariamente una concezione della performance teatrale come luogo tipico dell’io, in cui il Self si mostra in grado di decostruirsi prendendo le distanze dalle costrizioni della realtà in cui è inserito e di attingere alle proprie risorse più profonde, in modo da presentarsi nella sua autenticità. Il setting teatrale assume così, in una certa maniera, le sembianze di un meccanismo terapeutico in cui il tentativo di fondo appare il ricostruire una storia a partire da se stessi: per questo il punto di partenza è il rimodellamento delle parti di cui il Self è composto, delle rappresentazioni sociali della propria identità e del contesto di appartenenza. L’assunzione di una nuova narrativa del Self – una tecnologia del Sé – permette l’acquisizione della consapevolezza di nuove e diverse possibilità, di modificare attraverso la rappresentazione il copione del proprio atteggiamento verso il mondo e di riconciliare, in ultima istanza, le parti frammentate della propria individualità. In altre parole, mediante strumenti come il setting e la performance teatrale si rende possibile una riorganizzazione del proprio mondo, un’estensione del proprio essere interiore verso ciò che è esterno. Nei fatti, un riorientamento del Self attraverso
le regole della rappresentazione teatrale, di cui l’individuo si fa non solo fautore ma anche oggetto. Si trasmette un’immagine della realtà che chiede di andare oltre gli stereotipi, che ricerca una nuova qualità della vita.
“Artaud sosteneva che soltanto in teatro avremmo potuto liberarci degli stereotipi che dominano il nostro quotidiano. Il teatro, dunque, diventava il luogo sacro in cui sarebbe stato possibile trovare una realtà più vasta.”95
Per questo motivo si rende concreta l’idea di teatro come “spazio vuoto” del regista britannico Peter Brook. Il vuoto non è sinonimo dell’assenza di vita, ma al contrario è l’insieme delle possibilità, la loro somma olistica da cui nascono le forme della vita. Il teatro possiede la capacità di condensare la vita, e riesce a farlo in molti modi differenti.
“È come una lente che può ingrandire o ridurre. È un piccolo mondo e, in quanto tale, può essere gradevole. È diverso dalla vita di tutti i giorni e quindi può facilmente esserne separato.”96
Uno spazio vuoto qualsiasi, intendendo per ‘vuoto’ l’accezione del termine nel modi in cui è comunemente inteso, può essere un palcoscenico spoglio riempito dalla presenza di un uomo mentre un altro qualsiasi lo osserva. Ma sono i dilemmi del teatro in particolare, e generalmente di tutte le forme d’arte, la sua vaghezza definitoria e la mancanza di una collocazione precisa nella società. Focus dell’attenzione, è la considerazione che il teatro rispecchia la vita, e può farlo soltanto a condizione che vengano rispettati certi valori e obiettivi precisi. Per questo la successione delle prove, nella fase laboratoriale, può essere considerata al pari di un processo di maturazione. E l’espressione del Sé si trasmette mediante un processo comunicativo che esplora il quotidiano in tanti modi diversi, trasformandoli in suoni e movimenti, al punto tale che una singola battuta di un dialogo è capace di
95 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma, 1998, pag. 64. 96 P. Brook, ivi, pag. 107.
contenere numerosi altri tasselli attorno a cui ruotano altrettanti pensieri nascosti, esprimibili soltanto grazie all’uso di codici di altro livello [Brook, 1968]. In ultima analisi, l’atto teatrale, di per sé, altro non è che un lasciarsi andare nelle dinamiche dell’incontro e dell’interazione con gli altri: come asseriva Artaud, senza tale dimensione non si può parlare di teatro.
Quindi, l’esperienza teatrale deve essere interpretata non come semplice rappresentazione scenica, ma quale pratica eminentemente sociale capace di ricostruire il Sè totale degli individui. Il setting del laboratorio teatrale per sua natura si propone come spazio/tempo separato dalla quotidianità. In tale situazione si verifica una sospensione del quotidiano a favore di una esplorazione e costruzione di modalità diverse non solo di pensare, percepire, muoversi ma anche di interagire; le normali regole che orientano le interazioni sociali e comunicative vengono messe in discussione, o comunque sono per lo più ridefinite. Il modellamento della sfera esperienziale investe, oltre al corpo, alla mente, al linguaggio, anche le relazioni, ovvero i tipici schemi di relazione interpersonale.
La metodologia teatrale appare perciò la più consona in quanto possiede insita in se stessa una diversità di fondo rispetto al mondo esterno, una sensibilità diversa, e soprattutto pone in contatto chi la applica con individui differenti, implicando una necessità di relazione. Una pratica socio-culturale che serva anche a creare una rete di supporto e nuove relazioni tra individui di per sé vulnerabili di fronte alla società, attraverso i meccanismi di empatia che si sviluppano nelle interazioni. La possibilità di empatia si definisce come altra caratteristica fondamentale, in grado di accomunare l’esistenza dell’attore teatrale con il flusso dei vissuti del pubblico. Chi assiste alla messa in scena possiede la possibilità di percepire il mondo dal punto di vista altrui, immergendosi all’interno del suo frame, entrando potenzialmente in contatto con il lato emotivo con chi si trova sulla scena. Ma l’esperienza è vicendevole, e coinvolge anche l’attore teatrale che riceve da chi è in sala un riconoscimento, nonché un sentimento di comune sentire.
Se gli strumenti teatrali dal dialogo tra soggetti differenti, utilizzzare la pratica teatrale all’interno delle istituzioni totali permette agli internati di leggere il proprio Sé in una chiave diversa, all’interno della totalità del rapporto con gli altri. Attraverso il setting e la rappresentazione si varca la cornice della finzione, penetrando in un frame intermedio tra la vita quotidiana, reale, ed il quadro della simulazione che rispecchia in pieno la pluralità delle realtà su cui porre l’accento. Il teatro che riesce a travalicare la dimensione del quotidiano può trascendere la condizione effettiva, in modo da mantenere viva l’idea della pienezza del Sé. Ecco perchè le tecniche teatrali insegnate ai devianti devono essere lette come pratiche di comunicazione non fine a se stesse (come nel caso della pura rappresentazione scenica, di matrice e natura esclusivamente artistica), ma come tentativo di superamento di un disagio. Già lo stesso Antonin Artaud concepiva il teatro come un luogo in cui dare senso ad un disagio o ad una sofferenza esistenziale, dal momento in cui è la scena stessa ad offrire la possibilità di “riconoscere altro”, “rinascere altro”, partendo dai dualismi che confliggono nella vita quotidiana e ricomponendoli nell’ambito della rappresentazione. Il teatro è quello della crudeltà, nel senso che se nel mondo dimorano molteplici fantasmi, immagini ed illusioni, lo spettatore diventa per forza di cose un visionario, in quanto assiste all’immagine “crudele” dell’attore che espone la sua anima.
L’auspicio è quindi che il teatro smetta di essere lo svago effimero di una serata, ma diventi un atto dotato di una sua utilità. In tal modo, chi assiste può riversare sulla visione un qualcosa che gli è vicino. In pratica, se l’attore sacrifica una parte di sé, mettendosi a nudo sulla scena, salva qualcosa del mondo. Artaud chiede quindi al teatro di assolvere la funzione di una vera e propria terapia, la stessa che nell’antichità dispensava il gusto per la vita e la forza di resistere agli “assalti della fatalità” [Artaud, 1938].