Rispetto all’immagine che ogni individuo si dà della propria identità personale, è degno di considerazione il contributo fornito dalla Labelling Theory: la corrente di pensiero che, studiando i meccanismi di definizione sociale della devianza e del controllo sociale, ha inteso individuare il comportamento deviante in quella trasformazione del Self dell’attore dovuta ai processi di interazione, collocandosi in tal modo nella corrente dell’Interazionismo Simbolico. I labelling theorists hanno cercato, attraverso l’utilizzo di metodologie qualitative, di documentare il punto di vista degli attori e la loro storia sociale, in modo da poter riflettere su quelli che socialmente possono essere considerati gli stili di vita non conformi al paradigma normativo su cui si fonda l’interazione sociale.
I labelling theorists appartengono, infatti, al detto gruppo del Neo- Chicagoans, il cui rilievo sta nell’aver fornito, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, una riflessione particolarmente imperniata sugli aspetti processuali su cui viene a costruirsi il rapporto tra il soggetto e la società, e di conseguenza l’emergere del Self e le sue trasformazioni lungo tutto l’arco dell’esistenza dell’individuo, a seconda della posizione che occupa all’interno del frame sociale. La rilevanza della loro riflessione risiede nell’aver ritenuto il label - la definizione negativa altrui - quale risultante propria dell’interazione tra gli individui, operando una differenziazione tra il soggetto e la devianza, attributo che è applicato all’attore dagli altri. L'etichettamento è quindi prodotto dagli altri. Tuttavia, il soggetto deviante coopera attivamente al sistema di definizione del label, di cui è reso dalla collettività il solo responsabile: il
rifiuto diminuisce nel soggetto la possibilità di assumere comportamenti socialmente accettati. Riflettere sulla particolare identità sociale di un soggetto deviante è adesso sinonimo di orientamento del suo modo di essere: le reazioni sociali di condanna ed esclusione finiscono per stimolare proattivamente in lui l’agire comportamenti che trasgrediscono le aspettative istituzionalizzate [Perrotta, 1988].
L’attribuzione del label si lega a pratiche di classificazione, che si riferiscono non soltanto ad attributi di status e ruolo, né ad attributi astratti, ma che hanno a che vedere con un insieme di fattori atti a riconoscere un’intera classe di individui. In tal modo si vengono a creare determinate categorie di persone i cui atti rivestono un particolare significato, e i cui individui sono definiti proprio dalle azioni esperite: sono soltanto alcuni attributi, quindi, ad essere giudicati rilevanti alla distinzione e/o al raggruppamento di individui. Nel primo caso si ha a che fare con pratiche di individualizzazione, che rispondono ad esigenze di distinzione, mentre nel riferimento ai soggetti si tende alla classificazione, che in ultima analisi obbedisce a rigidi criteri di controllo sociale [Sparti, 1996].
Il label - conseguenza dell’applicazione di categorie da parte di agenzie sociali preposte a riconoscere una certa tipologia di condotta - esprime la caratteristica peculiare dell’individuo, una sorta di marchio centro della sua identità cui l’intera collettività fa riferimento, e che cancella il Sé effettivo. Di conseguenza, alla stregua di un circolo vizioso anche il comportamento del soggetto ne sarà inconsciamente influenzato, e l’attore metterà in atto azioni in grado di confermare l’etichetta ricevuta. Deviante, perciò, non è l’individuo in sé - non più soggetto ma oggetto di osservazione e tipizzazione -, ma un certo comportamento categorizzato (“etichettato”) in tal modo dagli altri e dalla società. È una sorta di sistema “di fabbrica”, per cui al termine del processo di etichettamento il deviante, al di là delle sue personali reazioni di rifiuto, adattamento ecc…, diventa il prodotto di un sistema che ha fabbricato la definizione della realtà: l’identità sociale deriva dalla classificazione subita.
A tal proposito si fa nuovamente riferimento al concetto di “carriera morale”: termine mutuato dalla sociologia delle professioni (in particolare da Everett Hughes in merito all’analisi dei percorsi individuali in contesti organizzativi professionali), intende esprimere la sequenza di interazioni attraverso cui un attore sociale finisce per essere costruito quale un “problema relazionale”, prima malato e poi internato. La “carriera deviante” esplicita dunque l’evoluzione di un comportamento, ed è percepita come una totalità all’interno di cui interpretare e attribuire significato ad ogni esperienza. E in tal senso, anche le istituzioni di controllo sociale sono da interpretare come meccanismi che non solo producono, ma che anche amplificano l’eco del comportamento deviante. Il concetto di “carriera” riesce a cogliere, così, i vari passaggi tra differenti ruoli sociali attraverso cui si muove la socializzazione secondaria, evidenziando i correlativi mutamenti del Self. Spesso, infatti, se un soggetto è considerato deviante in relazione ad un certo comportamento (la “devianza primaria”), è orientato verso una “carriera” di devianza (la “devianza secondaria”) che di fatto gli preclude l’accesso a ruoli sociali accettabili e rispettabili, e di conseguenza gli impedisce la perdita del label negativo. La punizione stessa simbolizza tale processo tacito: invece di riabilitare chi commette un’infrazione al codice morale di condotta, comporta un rischio di cristallizzazione della devianza e una progressione significativa della carriera deviante [Lemert, 1951; Perrotta, 2005]. Come riflette Becker, la difficoltà ad intraprendere una “carriera normale” pone come conseguenza l’impossibilità di interagire con gli altri in maniera ordinaria, e quindi la necessità di agire consuetudini spesso illegittime [Becker, 1963], con esiti rilevanti nell’immagine di sé negli altri, e nei loro giudizi.
L’evento deviante acquisisce perciò un particolare significato simbolico, ed esprime nella realtà sociale quella che può essere definita una “drammatizzazione del male” che opera sia a livello micro - i gruppi - sia in una dimensione macro - la politica e i sistemi di informazione [Dal Lago, 2000].
Tra gli esponenti di maggior spicco della corrente di pensiero relativa alla sociologia della devianza, lungo un percorso teorico in evoluzione continua ed assieme al contributo di Edwin M. Lemert32 si evidenziano le riflessioni di Howard S. Becker. È a quest’ultimo, infatti cui si deve una definizione di devianza non come una qualità umana che si ritrova nel comportamento, ma piuttosto quale frutto dell’interazione che si verifica tra colui che agisce e gli altri che reagiscono all’atto: assimilare un soggetto all’idea di devianza sta a significare un’identificazione che precede le altre, nel senso che “comanda”, condizionandole, le altre. In tale ottica, non è rilevante il fatto che un soggetto abbia compiuto effettivamente un atto trasgressivo, o l’entità dell’atto stesso: è invece il processo a definire il grado di devianza di un individuo, che esperisce le proprie azioni in relazione allo stigma e al label che riceve. Quello che è discriminante nell’attribuzione dell’identità sociale di devianza è la credenza altrui che l’azione sia stata compiuta. Un atteggiamento deviante è, perciò, un comportamento che la gente etichetta come tale [Becker, 1963]. L’azione in sé, infine, può essere intesa non soltanto in maniera individualistica, ma è un’evoluzione collettiva, una joint action di matrice blumeriana. La devianza appare un’espressione dell’interazione di un certo numero di persone che agiscono ed esperiscono il sociale insieme, orientando vicendevolmente i propri adattamenti alla situazione e aggiustando le proprie linee di azione, nella continua considerazione delle reazioni altrui. Un atto è deviante in relazione a quali sono le risposte del gruppo sociale di riferimento, ed al conseguente processo di etichettamento: gli unici elementi che richiedono un’attribuzione problematica di senso.
“Come tutte le attività umane, la devianza può essere considerata come un’azione collettiva. Cosa ne risulta? Un risultato è la visione generale
32 Lemert valuta la sociologia della devianza quale un ambito proprio dell’Interazionismo
Simbolico, in quanto espressione delle conseguenze del controllo sociale e dell’imposizione di un certo ordine morale. La mortificazione del sé, lo stigma, la deriva dell’identità sono ravvisabili in maniera concreta sia a livello individuale che di gruppo. Tuttavia, per tale motivo, Lemert considera erronea l’identificazione della sociologia della devianza con la
Labelling Theory, a suo avviso influenzata dall’assunto di Becker per cui la devianza prende
che voglio chiamare “interazionista”. Nella sua forma più semplice, questa teoria insiste sul fatto che si osservino tutte le persone coinvolte in un qualsiasi episodio di presunta devianza. Scopriamo allora che queste attività richiedono, per poter avvenire, la cooperazione manifesta o tacita di molte persone e gruppi.”33
Da un lato, dunque, è possibile ritrovare coloro che agiscono l’atto deviante, mentre dall’altro si evidenziano quelli che costruiscono quel “dramma morale” che scopre, valuta e sanziona l’atto deviante. Questo è quindi sempre una creazione della società, del processo di creazione di norme sociali imposte e costituite da precisi gruppi sociali, la cui infrazione, riflette Becker, costituisce la devianza stessa. Il controllo sociale - primaria conseguenza dell’imposizione normativa - si esprime mediante l’emanazione di sanzioni implicite ed esplicite, e attraverso l’influenza esercitata sulle opinioni (i principi morali convenzionali, gli stereotipi trasmessi socialmente, i valori quali premesse da cui far derivare le norme specifiche) delle persone in merito ai meccanismi e alle dinamiche di ordine, e che vendono alla luce in particolari circostanze. In definitiva, anche il controllo fa parte della “cultura” di un gruppo sociale i cui membri, in maniera comune e condivisa attraverso l’interazione, si sono trovati a dover affrontare criticità e problematiche34. Ma
talvolta è l’esperienza stessa ad operare un mutamento nelle opinioni degli individui, in modo tale per cui il comportamento deviante, per chi lo agisce, può essere considerata anche una possibilità plausibile.
La devianza emerge nell’azione di coloro che la condannano, essendo proprio questi a stabilire l’insieme delle regole sociali - il comportamento “conforme” - atte a definire e condannare i comportamenti devianti, definendo
33 H. S. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Edizioni Gruppo Abele, Torino,
1987, edizione consultata 2007, pag. 181.
34 A parere di Becker, anche quella deviante può essere intesa come forma di cultura, in quanto
i soggetti che esperiscono comportamenti devianti interagiscono tra di loro, a partire dal fatto che condividono la problematica comune di non essere accettati positivamente e “condivisi” dalla collettività. Il nodo critico, infatti, emerge dalla sostanziale differenza nella definizione della situazione da parte loro rispetto alle posizioni assunte comunemente dai membri della
invece le reazioni consone in determinate contingenze. Un atteggiamento “pienamente” deviante è quindi quello che contemporaneamente infrange le norme e che è così percepito dagli altri. Sono così definiti outsiders i soggetti che non si adeguano, che violano anche inconsapevolmente il rispetto delle regole sociali concordate, che esperiscono una “carriera” non conforme, ovvero gli individui estranei al mondo dei “normali” che agiscono routines legittime [Becker, 1963].
Se gli “imprenditori morali” appaiono coloro che predicano la repressione degli atteggiamenti di diversità (essi compiono un’impresa che è morale, in quanto comporta la creazione di un nuovo frammento di quel codice etico regolatore dei rapporti sociali), è possibile definire come “crociata” ogni processo mediante cui si formula un nuovo corpus di leggi morali predisposte a perorare l’ideologia dominante, secondo un’ottica tipica dell’etica assoluta. La correlazione tra i “crociati morali” e la loro diffusa appartenenza alle sfere superiori della società crea, per Becker, una circolarità di legittimazione e potere. L’implementazione di nuove leggi comporta l’istituzionalizzazione dell’applicazione, con la creazione di agenzie e funzionari che rientrano in un’organizzazione più ampia: le dinamiche tipiche delle istituzioni totali, la cui ragion d’essere è l’applicazione dell’ordine definito “normale”, ne sono un esempio.
L’attribuzione del label è dovuta quindi in maniera principale al ruolo degli agenti - i tutori dell’ordine morale - che impongono o meno il rispetto delle norme, e quindi ad un insieme di circostanze estranee alla contingenza del comportamento non accettabile socialmente. La devianza è sempre, perciò, sinonimo di “una trasgressione pubblicamente etichettata”, il “risultato dell’iniziativa di qualcuno” che ha previsto che un certo atteggiamento debba essere percepito come deviante, e che la differenza con ciò che è accettato dal senso comune - l’infrazione - debba essere resa evidente [Becker, 1963]. È quindi un processo eminentemente interazionista, perché ogni attribuzione è la risultante della relazione tra individui che agiscono.
Il conferimento dell’etichetta determina il passaggio ad un nuovo status - lo status di deviante asserito adesso come quello principale - che inferisce simbolicamente e in maniera effettiva sia nella soggettività dell’individuo, sia nella percezione altrui.
Sono gli altri, con cui si condivide una situazione, a definire chi è un outsider rispetto ad un soggetto situato in una cornice di “normalità”, ma spesso capita che il deviante stesso, per effetto di un procedimento di role taking, si percepisca come tale in assenza di un labelling. L’identificazione nel ruolo di deviante mette in moto meccanismi del sé per cui la persona finisce per conformarsi all’immagine negativa esperitagli dal gruppo sociale, in una circolarità dovuta ad una “profezia che si autodetermina”. Il trattamento non fa che contribuire così all’incremento della percezione della devianza, in quanto
“il trattamento dei devianti nega loro i mezzi ordinari per proseguire con le consuetudini della vita quotidiana come le altre persone. Causa questo diniego, il deviante deve necessariamente sviluppare delle consuetudini illegittime.”35
1.5 La percezione della devianza e la marginalità: lo spazio del Sé e i