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La percezione della devianza e la marginalità: lo spazio del Sé e i luoghi morali dell’esclusione

La questione dello stigma è onnipresente in ogni tipo di società, dovunque ci si possa trovare di fronte ad un codice morale da seguire: accompagna la natura umana, e prende forma nel confronto con l’Altro da Sé, un’esperienza costante ed al pari inquietante, in grado di mettere profondamente in discussione sia le pratiche sociali, che le norme e la morale comune su cui si reggono l’esperienza e le interazioni quotidiane. È il rimando all’Altro - specchio di se stessi – il vero e più profondo motivo di insicurezza: si chiede a colui con cui si interagisce di condividere il medesimo codice di

comportamento, in caso contrario lo si confina in ambienti altrettanto ‘altri’, quali possono essere i manicomi, le carceri, gli istituti e le cliniche di ricovero. La costruzione dell’indentità personale e collettiva passa sempre e necessariamente dall’incontro con l’altro. Ma se talvolta le riflessioni e gli studi possono raggiungere un ragguardevole livello di analisi, risulta essere l’atteggiamento sociale verso il fenomeno a mutare in maniera meno repentina.

Esempio primario nonché attuale di una circostanza esaustiva di devianza è la detenzione: chi ha dovuto scontare una pena, con estrema difficoltà appare in grado di togliersi il marchio di “carcerato”, e quindi quel senso di individualità non integerrima e appieno rispettabile.

In tale ottica, appare oggi più che mai necessaria un’analisi delle istituzioni di controllo, la cui prerogativa sta spesso proprio nell’amplificare la devianza stessa, manipolando e degradando gli individui sottoposti. L’etichettamento tipico dell’epoca odierna, infatti, non ha più a che veder con una mancanza fisica, ma sono soprattutto la perdita dell'io, la privazione della libertà del Self, l'annullamento dell'empatia e lo stigma ad essere la pena reale, il fardello che chiunque si discosta dalla normalità imposta finisce per arrecarsi dietro.

Come il carcere è un’istituzione silenziosa che vive accanto alla società, che ne fa parte, l’idea di marginalità36 è il concetto che rende meglio l’idea: il

nodo critico della questione è il ruolo agito dagli individui stigmatizzati nella struttura sociale, il posto che occupano in una situazione di interazione. Chi è emarginato è colui che è posto ai margini, collocato ai margini rispetto ai luoghi centrali della socialità, determinando un’estraneità del singolo rispetto al sistema. Ogni forma di reinserimento di tipo culturale s’inserisce come tentativo di superamento dei confini di essa, in virtù dell’ intento di togliere lo stigma di cui sono portatori i reclusi.

36 Tematica affrontata numerose volte in ambito sociologico, la marginalità è stata considerata

sia dal punto di vista oggettivo sia secondo un’accezione soggettiva. Le definizioni oggettive tendono alla considerazione dell’emarginazione secondo la struttura di classe ed il sistema produttivo, il sistema sociale e quello di ruoli, la struttura culturale e normativa, i processi di adattamento e gli interventi del Welfare State. Al contrario, l’interpretazione della marginalità in una dimensione soggettiva si è rivelata strettamente connessa ai processi di socializzazione.

Anche l’architettura e lo spazio fisico delle istituzioni totali richiama a livello concreto e tangibile i concetti di stigma ed esclusione sociale: gli spazi urbani preposti al contenimento della devianza confermano un’ideologia del rifiuto nei confronti di tutto quello che appare differente dalla normalità, imponendo delle barriere fisiche, morali e ideali. Il confinamento in ambiti di reclusione di tutto ciò che si trova al confine tra normale e patologico, infatti, rispecchia un modello di liminalità espressivo di uno stigma che, per il solo fatto di essere pensato e dunque percepito, richiede una separazione rispetto ai luoghi della vita quotidiana. Anche l’urbanizzazione delle pratiche di esclusione possiede una lunga storia, non limitandosi alla recinzione di spazi al di fuori del tessuto cittadino, e si protraggono nel presente come luoghi non solo di pura reclusione, ma come ambiti programmatici per il recupero, la correzione, nonché il reinserimento secondo quelle che sono considerate le norme sociali di riferimento. Definiti da Foucault “spazi altri”, destinati così agli individui “altri” rispetto alla normalità, testimoniano la frattura tra gruppi sociali e la creazione di spazi dai forti connotati simbolici, in quanto i confini che determinano sono soprattutto morali, e traducono la distanza tra il giusto e lo sbagliato, tra la città quale simbolo di rettitudine e l’anticittà, luogo del lebbrosario, del lazzaretto, degli istituti di reclusione, la non accettazione della differenza. Si viene così a creare una sorta di consacrazione della distanza, che tende a fissare nell’immobilismo di questi “non luoghi” - in cui si arrestano le categorie di spazio e tempo quotidiani - le dinamiche relazionali tra soggetti diversi, e che impedisce la possibilità di un reale confronto con l’altro ma si traduce nella logica del rifiuto.

È infatti con l’età industriale che l’esclusione assume le caratteristiche dell’istituzione totale, proponendo soluzioni di marginalizzazione del disagio sia all’interno delle strutture sia nel contesto urbano. Esprimendo al massimo grado una concezione segregazionista, il penitenziario realizza il progetto del potere dello sguardo - il controllo costante, la perfetta visibilità - così come era stato teorizzato da Bentham con il Panopticon: un vero e proprio “laboratorio

di potere” per modificare il comportamento, per addestrare, trasformare o recuperare gli individui, una sorta di “macchina” che è un puro dispositivo disciplinare [Dubbini, 1986; Foucault, 1975]. Il Panottico, in particolare, esprime il modello disciplinare che valuta l’esercizio della continua sorveglianza funzionale all’introiezione della norma sociale [Paone, 2005]: affiancato da particolari dispositivi di sicurezza basati sul principio di governabilità mira, come asserisce Foucault, a forme di controllo della popolazione.

“Il potere disciplinare è un potere che in luogo di sottrarre e prevalere ha come funzione quella di addestrare, per meglio prevalere e sottrarre di più, non incatena le forze per ridurre, esso cerca di legarle facendo in modo nell’insieme di moltiplicarle e utilizzarle.”37

Al pari, divenuta la reclusione la forma di sanzione privilegiata, da istituzione si trasforma così in vero e proprio apparato disciplinare, capace di farsi carico di ogni aspetto della vita del detenuto in modo da poterlo controllare nella maniera più appropriata. L’istituto di pena appare così direttamente proporzionale alla demoralizzazione del controllo, concretizzata dalla rinuncia ad una parte della propria libertà. L’architettura delle celle ne è un’espressione fisica: monadi singole, senza alcun influsso l’una sull’altra e totalmente prive di autonomia [Horkheimer, 1947], riflettono in negativo la possibilità di partecipazione a qualsiasi esperienza. Sono microcosmi seriali, in cui la vita del Sé si ripete indifferente, nell’irraggiungibilità della realtà esterna alla soglia. Il fine è dunque altamente “morale”: la rieducazione del Self secondo il codice di comportamento accettato, spesso ottenuta attraverso gli strumenti del lavoro e, in particolare, dell’isolamento, sia rispetto al mondo esterno sia verso gli altri detenuti.

37 M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976, edizione consultata 2005, pag.

CAPITOLO II