La de-strutturazione del Self
3.3 L’empatia nell’intersoggettività
La realtà sociale che si esplica all’interno di un contesto totalizzante è, dunque, un microcosmo che riproduce non soltanto le pratiche intersoggettive ma anche i meccanismi di potere che si svolgono al di là della soglia di liminalità, nel palcoscenico della vita quotidiana, in cui non possono essere applicati gli stessi criteri della messa in scena drammaturgica. Tra gli attributi fondamentali delle strutture totalizzanti, infatti, si ritrova la cesura dicotomica tra internati e coloro che entrano/escono da fuori, dilatata in uno spazio e in un tempo che si estraniano dalle dimensioni quotidiane, e che rende più complesso il gioco di scambio tra équipes di attori. Le istituzioni totali non riescono a configurarsi come spazio di comunità, ma si esprimono attraverso forme di divisione e segregazione: non vi è dedicato alcun luogo capace di farsi carico delle esigenze del Self dei soggetti, né tantomeno di favorire processi di interazione. Per questo motivo nelle realtà carceraria gli spazi dell’incontro difficilmente sono adeguati, ma spesso ripropongono le medesime dinamiche
di separazione, come un muro all’infinito che separa dall’esterno e che non facilita le pratiche comunicative (es. la ristrettezza dei luoghi fisici, le stanze chiuse, il muro di vetro dei colloqui ecc…). La costruzione degli spazi della pena è spesso un’operazione in cui gli individui devono adattarsi ai bisogni dell’istituzione, mentre viceversa non tiene in considerazione le esigenze del recluso in quanto soggetto: in sostanza, assume la forma di una discarica sociale in cui si riversa l’area della marginalità che viene neutralizzata con il semplice contenimento [Paone, 2007].
In tali frames, infatti, la socializzazione viene a rivestire un ruolo significativo. Gli altri rilevanti sono in generale, per Goffman, tutti coloro con cui un soggetto si trova a spartire una situazione, ovvero coloro che si trovano in con-presenza. Si rende così necessario distinguere tra la struttura sociale – che richiama il sistema di ruoli e lo status occupato nella dimensione comunitaria, e che è principalmente la fonte del Self – e gli uditori circostanziali – cui si riferisce l’interazione situata, partecipata attivamente dal soggetto - alla cui presenza si è continuamente esposti. Si verifica in tal modo un moltiplicarsi delle occasioni di riconoscimento del Sé, talvolta provvisorie e contingenti, mutevoli tra riconoscimenti e attribuzioni sociali, per cui il nodo critico primario non sta più nella definizione di quello che veramente un soggetto è, ma nelle modalità con cui questi sceglie di gestire il rapporto con gli altri attori sociali. Ognuno quindi appare responsabile non solo del riconoscimento del proprio Self, ma anche del riconoscimento degli altri e del loro Self [Sparti, 1996].
Considerando la socializzazione come il processo attraverso cui diviene possibile la codifica e decodifica dei comportamenti in termini simbolici, è il meccanismo che porta alla costruzione sociale nell’incontro con l’altro ad essere di primaria rilevanza. Processo strettamente collegato all’esperienza individuale come alla cultura cui si appartiene, contribuisce alla sua costruzione e trasmissione sociale: è la cultura a prescrivere quale tipo di entità dobbiamo credere di essere, per poter avere qualcosa da mostrare [Goffman, 1974].
Veicolando il significato dei ruoli che si trasmettono nell’interazione tra soggetti appartenenti a cornici di senso differenti, nelle situazioni di reclusione si evidenzia ancora di più l’importanza della socializzazione.
I reclusi si trovano infatti a dover interagire sia con il personale di riferimento - rappresentante dell’autorità - sia con gli attori sociali che “entrano” nell’istituzione portandovi la propria normalità: parenti, educatori, personale sanitario, avvocati ecc… Queste ultime due categorie rivestono nella definizione della situazione il significato particolare di “Altro da Sé”, e di “Altro generalizzato”. Portatori di istanze di quotidianità, rendono più evidente il label, lo stigma di chi si trova in una condizione di reclusione. Al pari, però, gli internati si trovano ad interagire non solo con gli esterni, ma anche con i propri simili, con cui non si spartiscono soltanto gli spazi ma si condividono anche i tempi dell’istituzione, e con cui la relazione è imperniata su particolari codici di comportamento. Nella “morsa dell’istituzione”, perciò, si ricrea un palcoscenico di presentazione del Sé basato sull’interazione sociale, e che è espressione delle pratiche di vita quotidiana e dei loro codici.
Ma anche il rapporto primario tra gli internati ed il personale è falsato dal fatto che lo staff fa parte del mondo esterno, con cui comunica liberamente e senza vincoli. La frattura che si origina dalla negazione della libertà comunicativa verso i reclusi, e dall’appartenenza delle due parti a due mondi distinti, si articola in base a due fattori. Da un lato il livello di chiusura verso l’esterno che subiscono gli internati, dall’altro il modo in cui lo staff esercita l’autorità, e in cui questa modalità è interpretata dai reclusi. Di fatto, inoltre, è una questione di potere anche su di se stessi, non soltanto nei confronti degli altri. Come analizzato nei precedenti capitoli, una continua violazione dell'identità, un'intrusione nella sfera - anche materiale - più privata, ha la conseguenza di defraudare i soggetti del dominio che hanno sul mondo e da ciò che lo costituisce, e quindi una perdita di potere nella definizione della situazione.
“La vita quotidiana è costituita da una miriade parcellizzata di incontri in cui le persone si comportano come attori, si presentano, senza presupporre quasi nulla di normativamente stabilito che vada al di là della cornice dell’incontro; successivamente arrivano per tentativi, mediante lo scambio tacito di proposte di definizione del loro ristretto contesto, a mettersi d’accordo su un copione da recitare insieme e il senso di realtà, di appartenenza, di collocazione nel mondo che esperiscono i soggetti non è dato da eventuali loro qualità ontologiche o dalla configurazione strutturale o normativa della situazione, ma da questi labili accordi: la definizione della situazione, una volta raggiunto un accordo, produce anche i selves dei partecipanti.”82
In un frame di intersoggettività tra gli attori sociali entrano così in gioco due concetti fondamentali nel pensiero goffmaniano: l’ordine dell’interazione (parallelo, indipendente o collegato in maniera strutturale alle regolamentazioni dell’istituzione), e gli adattamenti secondari (che permettono ai reclusi la salvaguardia dell’indipendenza del proprio Self), collegati alle modalità di adattamento alla situazione che si definisce.
Nel mondo quotidiano si è in grado di porre una distanza tra il ruolo recitato ed il pubblico di fronte, dando importanza alle rappresentazioni fornite agli altri: talvolta però si verifica il caso in cui un attore può rimanere talmente suggestionato dalla propria rappresentazione, da convincersi che l’impressione della realtà che sta suscitando sia l’unica possibile, e quindi diventando contemporaneamente sia attore che pubblico di se stesso. Ciò può accadere nel caso il soggetto introietti in sé l’ordine sociale e gli standard di condotta trasmessi collettivamente, in maniera tale che la sua coscienza gli imponga di agire solo in tal modo. In tale caso, l’attore avrà dovuto nascondere a quella parte di sé che costituisce il suo pubblico tutti gli aspetti negativi della rappresentazione che si è trovato costretto ad imparare: si forma, nell’individuo, un certo grado di “distanziamento da sé” per mezzo di cui
82 R. Trifiletti, L’identità controversa. L’itinerario di Erving Goffman nella sociologia
l’attore si percepisce estraniato dal proprio Self. La role distance, tuttavia, non implica in alcun modo l’auto-creazione di un mondo psicologico, incontaminato dall’influenza sociale: anche la distanza dal ruolo implica un’ulteriore identità socialmente costruita, e i mezzi stessi che rendono possibile un margine di separazione tra il Self imposto ed un Sé ulteriore sono comunque estratti da quel bagaglio sociale che la situazione contingente rende disponibile. Anche la presunta leggerezza con cui apparentemente è possibile la gestione dei ruoli non esula dunque dalla constatazione delle varie appartenenze sociali [Sparti, 1996]: il Self è sempre il prodotto di una scena che viene rappresentata, non la sua causa [Goffman, 1959].
Ma un soggetto, nel proprio retroscena privato, può continuare a rispettare certe regole sociali pur non credendovi, in quanto immagina la presenza di un pubblico invisibile capace di sanzionare le devianze [Goffman, 1959]. L’importanza della distanza dal ruolo sta nella problematizzazione del processo di interazione, vissuto nello stage del quotidiano a livello prevalentemente normativo, quasi integrazionista.
Talvolta, riuscire a staccarsi dalle cose che creano sofferenza significa, in un certo senso, staccarsi dalla situazione data, pur continuando a restare nel medesimo luogo: come suggerisce Mead, è auspicabile raggiungere uno stato di “dissociazione anestetica”, osservando quello che accade ponendosi all’esterno, con distacco [Mead, 1934]. È lo stesso significato dell’ekstasis di Berger, la realizzazione del distacco rispetto al proprio mondo: nel momento in cui il ruolo è recitato dall’attore sociale senza un’adesione sentita nell’intimo del Self, il soggetto si pone in una condizione estatica rispetto alla sua realtà data per scontata. Colui che non si lascia coinvolgere è chi mette in pratica la “distanza dal ruolo” intesa da Goffman: ciò che è mantenuto è l’identità sociale, ma la dissociazione dalla parte e dal personaggio interpretato avviene nell’interiorità. Ma anche nell’assenza del tormento dato dalle costrizioni alla recita di identità percepite come estranee, può apparire un grande vuoto, una mancanza della pienezza del Self, di cui si ricercano brandelli da unire per ritrovare quell’immagine unitaria del sé capace di fornire senso alla propria
esistenza [Perrotta, 1988]. Questo è ciò che avviene nei soggetti reclusi nelle istituzioni totalizzanti: la sottomissione passiva alle imposizioni altrui non può mai essere una risposta, ma è necessario scegliere da soli “chi” essere, nella consapevolezza di un movimento continuo.
A partire da riflessioni del genere si comprende il senso per cui lo studio dei meccanismi di controllo e repressione va di pari passo con il riconoscimento della lotta per il mantenimento dell'identità, per il ripristino di quel sostegno che le interazioni sociali su cui era fondato il mondo del deviante potevano offrirgli.
Proprio nelle istituzioni che riducono all'essenziale la struttura dell'esistenza umana è possibile notare con più chiarezza ciò che le persone fanno per sopravvivere, le tecniche ed i rituali che utilizzano per preservare le risorse del Sé da quella che il sociologo definisce la "morsa dell'istituzione". In questa cornice è possibile evidenziare collegamenti tra termini e concetti tipici del pensiero del sociologo canadese. Ad esempio, i “luoghi liberi” dell’istituzione totale, ovvero gli spazi in cui gli internati riescono ad esprimere in maniera più libera parti del proprio Self, si contrappongono agli spazi di sorveglianza: tali situazioni corrispondono in maniera esplicita al “retroscena” e alla “ribalta” del modello drammaturgico. Al di là del fatto che la strutturazione del contesto richiede necessariamente adattamenti e dinamiche differenti, le attribuzioni dell’interazione nei due ambiti si svolgono in maniera similare [Trifiletti, 1991]. È in essi che è possibile, per i reclusi, mettere in atto delle vere e proprie rappresentazioni teatrali, in cui non solo giocare, ma soprattutto riflettere e mettere in discussione, i ruoli sociali e i loro significati: un differente frame di realtà in cui l’ordine dell’interazione si modifica e assume valori nuovi.
La questione drammaturgica del rapporto tra staff e internati riprende nuovamente la metafora della maschera indossata dagli attori. In Asylums, la maschera è la finzione nell’immagine di sé che i componenti dello staff proiettano sui reclusi dell’istituzione. E nell’interazione, si costituisce ogni volta una maschera che contribuisce alla formazione progressiva della
fisionomia del Self. Ognuno, nell’esperire la vita quotidiana, ne indossa sempre una, coscientemente o meno, impersonando un personaggio che rispecchia il concetto che ogni individuo si è fatto di se stesso, ed interpretando continuamente un ruolo. In tal senso la maschera esprime di volta in volta la veridicità del Sé, in quanto alla fine la concezione del ruolo sociale che si agisce diventa parte integrante della personalità degli individui [Park, 1926; 1950]. Shakespeare, nella cui epoca il topos del theatrum mundi era senso comune, ha incentrato la sua intera opera sull’analogia tra mondo e palcoscenico della vita umana. Ha creato i suoi drammi partendo dalla minuziosa osservazione dello svolgimento della realtà, e ne ha dato piena interpretazione attraverso i suoi personaggi. Ed Amleto, difatti, considera il mondo un teatro, tutto è teatro nella sua visione delle cose e nelle sue azioni. La maschera esprime autenticità, per la precisione esprime la sacralità del Self privato da parte degli internati sottoposti alle pratiche di privazione e profanazione da parte dello staff; presenta una concezione dei vertici toccati dalla condizione umana, in particolare nella forza di carattere dimostrata dai devianti nella lotta contro il personale di riferimento per la salvezza della propria personalità [Straniero, 2004]. La maschera di scena, nella cultura romana antica, veniva infatti indicata con il termine “persona”, derivante da per-sonas, lo strumento veicolo del suono. Goffman, con le sue riflessioni, dà vita all’assonanza concettuale: la persona dell’individuo è il mezzo che lo mette in relazione con gli altri, è la struttura fondamentale del suo essere una figura in continua interazione. In tal accezione di significato, ogni individuo che interagisce con gli altri indossa molteplici maschere, agisce personaggi e ruoli attraverso cui esiste in un ordine che è sociale per sua natura.
Se nel palcoscenico della vita quotidiana il Self possiede maggiori possibilità di muoversi spontaneamente e di scegliere quale ruolo agire, nelle istituzioni totalizzanti il Sé – compresso e obbligato a limitarsi – ricerca attivamente delle linee di resistenza, che si traducono nella non- accettazione/accettazione imposta della definizione della situazione. Le
pratiche di vita sono influenzate non solo dall’imposizione di codici di condotta, ma anche dalla presenza costante del label, che rende estremamente difficoltoso per l’attore sociale prendere le distanze dal proprio ruolo. La società tende ad imporre una “normalizzazione” attraverso pratiche di privazione, isolamento, coercizione che finiscono per de-strutturare il Sé riempiendolo di un contenuto filtrato dalle regole sociali. Ma il Self non è in grado di formarsi nuovamente, in quanto il soggetto è portato a perdere completamente la propria identità ed il proprio rapporto con il mondo esterno, trasformandosi da soggetto in oggetto da curare o rieducare. Privazione principale, è il venir meno del ruolo sociale rivestito dall’individuo. Come analizza Goffman, nello svolgersi della vita quotidiana gli individui si trovano a svolgere funzioni e ruoli, mettendo spesso in pratica azioni secondo schemi razionali di comportamento in cui è sempre presente una autorità. Fondamentale è il rituale della protezione del Sé rispetto all'esterno (rispetto della persona, dei suoi rapporti, del suo mondo). L’interazione diventa ritualizzata nel suo profondo, al di là della metafora drammaturgica: nelle dinamiche intersoggettive si passa dall’analogia teatrale a quella cerimoniale, ai rituali dell’interazione attraverso cui è possibile controllare e rendere visibili le implicazioni simboliche dei comportamenti di fronte agli altri individui [Goffman,1967; 1971]. Due tratti essenziali emergono così nell’interazione: la tematica della corporeità e la questione del coinvolgimento situazionale degli individui in condizioni di con-presenza. La performance recitata nel palcoscenico della vita quotidiana assume le vesti dell’incontro, un impegno nella situazione a rendersi accessibili agli altri, anche attraverso il controllo dell’emotività e della spontaneità dei sentimenti.
È in questo senso che nelle istituzioni totali si enfatizza l’enfasi del modello drammaturgico, in quanto l’internato si trova ad esperire molteplici trasformazioni della propria immagine sul palcoscenico di un frame rigidamente strutturato e formalizzato. A maggior ragione, tanto più grande è il rifiuto da parte dell’internato dell’immagine di sé che l’istituzione gli attribuisce e/o gli impone, tanto più significativa è la sua lotta per la
rivendicazione della propria profonda identità, che si traduce nella possibilità di mettere in pratica accorgimenti narrativi che abbiano il fine di preservarla.