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Gärdenfors, Spohn, Lewis e la verità

9. Osservazioni conclusive

9.5 Gärdenfors, Spohn, Lewis e la verità

Non intendo qui descrivere ancora una volta il rapporto tra AGM e TRF, che è già stato spiegato dettagliatamente. Intendo invece avanzare alcune considerazioni storiche generali che emergono dal raffronto tra le due e, soprattutto, un’osservazione riguardante un punto poco chiaro della TRF che da un lato sembra essere ereditato dalla AGM e che, dall’altro, si oppone alla teoria controfattuale della causalità sviluppata da Lewis.

Il punto specifico della AGM che ha ispirato maggiormente Spohn è la dottrina dei gradi di radicamento. Abbiamo già visto in che misura la TRF abbia sviluppato le intuizioni riguardanti i cambiamenti di credenza. Ora, se osserviamo l’origine della AGM stessa, possiamo capire che la TRF, nata come dottrina delle credenze e poi estesasi fino alla filosofia della scienza, non ha fatto altro, sviluppandosi, che tornare a casa. Gärdenfors infatti giunse alle teorie esposte in KIF restringendo il suo obiettivo: inizialmente si era interessato al problema della spiegazione, che egli indagò riconoscendo un ruolo centrale, ancorché non del tutto chiarito, ai condizionali (cfr. KIF p. x). Ovviamente, le questioni riguardanti la natura della spiegazione erano ereditati, anche se non esclusivamente, da Hempel e Salmon, con cui Gärdenfors cercò di confrontarsi. Curiosamente, la logica della revisione delle credenze non è stata pienamente recepita nel campo a cui più propriamente appartiene, forse a causa dell’alto numero di tecnicismi, ed ha avuto invece successo soprattutto nell’IA. Indubbiamente, nel momento in cui Spohn rivendica a buon diritto l’utilità della TRF per la filosofia della scienza, sta di fatto chiudendo un cerchio. La ragione di questo contatto si può anche vedere nel fatto, già menzionato, che i temi intrecciati della causalità e della spiegazione sono materia epistemica per eccellenza.

Torniamo alla teoria controfattuale della causalità. Nonostante alcune somiglianze terminologiche (come ad esempio l’accenno di Spohn ai “mondi possibili”), abbiamo assistito a uno scontro tra due concezioni radicalmente diverse di filosofia, a cui corrispondono anche stili d’analisi radicalmente differenti. Perché Spohn finisce con l’avere la meglio? La ragione è stata compresa

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facilmente al termine del raffronto che occupa il quinto capitolo – si tratta dell’impiego dei rank numerici.

Lewis rimane attaccato all’idea di verità, che, quanto ai condizionali controfattuali, deve essere valutata con un procedimento che si basa sulla somiglianza comparativa (cfr. § 4.4.). Tuttavia la somiglianza è un concetto che si presta poco all’irreggimentazione; un mondo possibile inteso in senso logico (una linea della tavola di verità) è reso vero da più di un mondo possibile inteso “concretamente” (come abbiamo visto durante l’esposizione della teoria di Lewis - cfr. § 4.4.). Quando si confrontano due mondi possibili logicamente intesi non ci sono possibilità intermedie: sono lo stesso mondo, o sono mondi diversi. Quando si confrontano due mondi possibili intesi concretamente, o uno di questi ultimi con uno inteso in senso logico, si perde il conto dei tratti di somiglianza, perché quest’ultima è aperta, o stratificata. Per esempio, un singolo tratto di un mondo possibile “concreto” può implicare una legge che in tale mondo vale: se si parla di un mondo in cui i cani parlano, dovrebbe esserci allora una legge che descrive tale fenomeno. Confrontare due linee di due tavole di verità richiede solamente i principi di non-contraddizione e di identità, confrontare dei mondi possibili “a tutto tondo” richiede criteri di somiglianza raffinati (di qui per esempio la classificazione dei miracoli che fa Lewis), e, in fin dei conti, arbitrari. Occorre

decidere quale tra due mondi è più simile ad un terzo, e la decisione è soggettiva.

Lewis ha tentato di tenere insieme l’idea di verità e quella di “più simile” e “meno simile”, che però sono irriducibilmente separate. L’idea di gradi di somiglianza, per di più, non fu da lui mai sviluppata fino al punto di caratterizzarla con un sistema di rank. Non fu pertanto in grado di assicurarsi le “spoglie al vincitore”, proprio perché tali casi non richiedono (né si riducono a) un’analisi in termini di verità o falsità, o di somiglianza e dissomiglianza, bensì il riconoscimento di un ruolo causale distribuito tra fatti o eventi concorrenti secondo una distribuzione che si può esprimere o catturare solo con valori numerici. In un sistema concettuale in cui la verità ha il ruolo più importante, nulla può essere più vero della verità, cosicché dei casi più sofisticati non si riesce a rendere conto.90 Spohn, invece, può vincere facilmente grazie ai rank numerici: e ancora una volta comprendiamo l’importanza cruciale di questi ultimi.

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La centralità dei rank, però, ha un prezzo. Si tratta del fatto che alla verità è assegnato un ruolo secondario. Il riferimento a tale concetto è piuttosto sporadico (e descriverò presto fino a che punto). Non è strano: anche la teoria AGM accantona la coppia verità / falsità a favore di quella accettazione / non-accettazione; Gärdenfors asserisce senza reticenze già in uno dei primi saggi che

“Il nostro scopo è di costruire una semantica epistemica da cui i concetti correlati alla verità e alla falsità sono banditi” (Gärdenfors 1978 p. 385).

“(…) quando si comprende il significato di un’espressione, i criteri di accettazione sono primari rispetto alle condizioni di verità. (…) Le condizioni di verità giocano un ruolo periferico. (…) I concetti di verità e falsità sono irrilevanti per l’analisi dei sistemi di credenza” (KIF pp. 19-20).

Aggiunge persino

“Il mio trascurare la verità potrà pur colpire gli epistemologi tradizionali come un’eresia. Tuttavia, uno dei miei scopi è di mostrare che si possono attaccare molti problemi epistemologici senza usare le nozioni di verità e di falsità” (KIF p. 20).

Lo stesso principio di non-contraddizione, che è ovviamente una regola assoluta e primaria, è poi giustificata dal punto di vista pragmatico: non si può credere in A e in non-A non perché è sempre

falso, ma perché l’accettazione di una contraddizione implica delle inferenze non univocamente

derivabili, il che ostacola le azioni basate sulle credenze – per di più, non ci si può liberare di una contraddizione per mezzo di un’espansione (cfr. p. 11).

Penso che Spohn erediti, in parte, tale atteggiamento. Nei principi di base della TRF non vi è alcun trattamento della verità che giochi un ruolo centrale. Dopo tutto è una teoria di gradi di credenza, e i gradi sono ben difficilmente riconciliabili con la verità. È vero che si può dire, delle credenze, che sono vere o false. Ma, per prima cosa, non è chiaro come si debba concepire la relazione tra gradi e verità, posto anche che la verità sia associata a 1 e la falsità a 0. In secondo luogo, il giudizio secondo cui una specifica credenza è vera o falsa sarebbe pur sempre assegnato a (ed espresso da) un’altra credenza, a sua volta governata da una funzione di rank – ossia, ancora una volta, una regola soggettiva.

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Da una parte il ruolo assegnato alla verità nella TRF è quindi, inizialmente, tanto periferico quanto lo è nella AGM. Questo deve essere visto come un vantaggio perché, come osa dichiarare Gärdenfors, permette un attacco più efficace a molti problemi epistemologici. Prendo la dimostrazione della superiorità della TRF sulla teoria di Lewis come una prova di questo. D’altra parte, la verità è invocata non appena Spohn si preoccupa del problema dell’oggettivazione, che a sua volta è richiamato dalla definizione delle leggi causali e fisiche. A quel punto dichiara (a mio vedere in modo piuttosto sibillino) che “le proposizioni sono oggettivamente vere o false, e così le credenze. Quindi una funzione di rank può essere chiamata vera o falsa, a seconda delle credenze che incorpora” (SRT p. 28). Segue poi la complessa fusione con il teorema di de Finetti e, occorre ammettere, hic sunt leones. Ma ancor prima di avventurarsi in una spiegazione tanto complessa, penso che dovrebbe esserci spiegato come può la nozione di verità ottenere un ruolo importante

nella TRF e come la si può conciliare con quella di credenza.

Secondo la mia lettura, il punto di vista soggettivista, epistemico, ben poco può conciliarsi con una concezione oggettivistica della verità. Se si è optato per la soggettività si possono vincere molte battaglie, ma dalla soggettività stessa non si può uscire – è il prezzo da pagare. Uscirne è appunto quel che è richiesto al fine di trovare un nesso con la verità, e con essa la chiave di volta dell’oggettivazione.

L’oggettivazione delle leggi e l’esplorazione del rapporto con la probabilità sono, a quanto pare, i due ambiti in cui ci si aspettano i maggiori sviluppi della TRF. Penso che la rilevanza della verità sia

invece il punto più urgente, e che almeno quello dell’oggettivazione non ne sia che un riflesso. Se

riuscisse a catturare la verità, la TRF ne uscirebbe trionfante in modo definitivo. Altrimenti si può seguire la strada di Gärdenfors, che ha orgogliosamente asserito di rifiutare, come un eretico, la rilevanza concettuale della verità, e accontentarsi della filosofia della credenza più avanzata, articolata, ricca e dotta di tutti i tempi. Ma una teoria soggettivista, che esclude un concetto oggettivo di verità.