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Geni selezionati per diventare umani

2.2. Cosa ci differenzia da tutte le altre specie

2.2.2. Geni selezionati per diventare umani

La ricerca dell’unicità genomica del sapiens è un obiettivo quasi inconfessato di molti biologici mole-colari e genetisti. Spesso, però, proprio a causa della natura “puntuazionista” (Gould e Eldredge, 1972)

delle speciazioni e della biodiversità i geni del DNA umano presentano qualche forma analoga almeno negli scimpanzé. Questo non ha però scoraggiato le ricerche genetiche volte a individuare comunque un elemento di discontinuità nei geni in specie diverse.

La specie-specificità genetica del sapiens è stata, infatti, rintracciata in alcuni geni regolatori, deter-minanti nei processi di embriogenesi. La formazione delle strutture del nostro organismo è affidata pro-prio a questi geni che avrebbero il carico di definire la morfologia di base di ogni membro che appartie-ne alla specie.

Il caso più celebre riguarda proprio il linguag-gio, una funzione ritenuta da sempre unicamente umana. Negli anni novanta del secolo scorso, alcuni ricercatori inglesi hanno individuato nelle sequen-ze geniche di una famiglia un’alterazione specifica in un loco sul cromosoma 7 (Hurst et al., 1990; Lai et al. 2001). Questa alterazione era responsabile, in maniera indiretta, della disprassia orofacciale di cui soffrivano i membri portatori del gene mutato. Que-sti soggetti non erano in grado di articolare in ma-niera compiuta i termini della lingua di appartenen-za: la capacità del tutto umana di coordinare in ma-niera fine i movimenti orofacciali in questi soggetti era compromessa. Il gene regolatore in questione era l’ormai famoso FOXP2, il cosiddetto gene dell’arti-colazione linguistica.

La scoperta era eclatante: si era finalmente se-quenziato un gene che era possibile ritenere il

re-sponsabile biologico dell’articolazione linguistica.

Subito dopo l’annuncio di questa scoperta, diverse ricerche comparative hanno messo in dubbio l’uni-cità del tratto genetico nell’uomo, individuandone di simili (ma non identici, e questo in genetica ha la sua importanza) nei bonobo e negli scimpanzé, ma anche negli orangutang e perfino nei topi, lontani nei tempi evolutivi rispetto all’uomo (Enard et al.

2002). Di recente altri studi molecolari hanno rin-tracciato forme di FoxP2 anche negli uccelli canteri-ni (Scharff, Haesler, 2005).

Sembrava uno smacco all’unicità dell’articola-zione linguistica. In realtà dietro la ricerca spasmo-dica del precedente evolutivo di strutture e funzio-ni che si ritengono ufunzio-nicamente umane c’è una no-zione del tutto ingenua del rapporto tra strutture e funzioni, e dei meccanismi selettivi che mantengo-no sequenze geniche o che promuovo variazioni, an-che brevi, ma an-che comportano nuove configurazio-ni morfologiche.

Non v’è alcun dubbio, infatti, che la ricerca della continuità nelle sterminate antichità dell’evo-luzione può avere un senso solo se guidata da un principio comparativo che non appiattisce le singo-le peculiarità delsingo-le specie a favore del comune Bau-plan, sempre rintracciabile all’interno di famiglie e ordini animali. L’ingenuità di questa convinzione si scontra con l’evidenza delle diversità morfologiche e delle possibilità funzionali loro connesse che ca-ratterizzano ogni specie animale, altrimenti non si

spiegherebbe né l’evoluzione delle forme, né la bio-diversità.

Ma allora è una ricerca del tutto vana quella che tenta di rintracciare geni specie-specifici dell’uomo?

La risposta immediata, veritiera ma non pro-blematizzata sarebbe: no, non è una ricerca vana, è possibile sequenziare geni specie-specifici per il sa-piens, ma non unici. È importante, infatti, sottoli-neare come la presenza di geni che caratterizzano in maniera unica il sapiens non significhi assegnare a un tratto genetico il potere di realizzare le funzio-ni cogfunzio-nitive complesse. Il caso appena illustrato del FOXP2 ne è un esempio: non si tratta del gene del linguaggio, ma del gene dell’articolazione linguisti-ca e anche questo ruolo non viene controllato diret-tamente dall’espressione proteica del gene, ma me-diato dal funzionamento di una struttura anatomi-ca, i gangli delle base, nuclei ancestrali del cervel-lo che coordinano movimenti e che, socervel-lo nell’essere umano, sono a capo del complesso sistema di movi-menti e regolazione della respirazione indispensabi-le per produrre voce articolata. Eppure senza quelindispensabi-le due mutazioni del FOXP2 presenti solo nella versio-ne umana, le possibilità funzionali dei gangli basali sarebbero state ridotte.

È in questo senso, allora che si realizza la speci-ficità genetica del sapiens. Nel corso degli anni, dalla seconda metà del novecento a oggi, sono stati indivi-duati geni specifici dell’uomo, la stragrande maggio-ranza connessi alla forma e funzionalità del cervello e

delle strutture ossee del cranio e del volto, ma anche alla nutrizione e alle possibilità alimentari in genera-le. Si stima che su un numero complessivo di circa 23.000 geni, nel DNA umano siano presenti proba-bilmente da 50 a 100 geni “esclusivi”.

Un esempio interessante è costituito dai geni regolatori che stabiliscono la forma e la disposizio-ne delle strutture corticali. Si tratta di un gruppo di geni omeotici la cui gradazione di attivazione produ-ce l’organizzazione generale del produ-cervello dalla parte occipitale a quella frontale, ma anche da quella più profonda (e evolutivamente ancestrale) a quella più superficiale: questa combinazione di geni omeotici sarebbe specifica del sapiens. Si tratterebbe di due geni del gruppo OTX (OTX1 e OTX2) e due del gruppo EMX (EMX1 e EMX2). Il primo gruppo, una sorta di “geni architetto”, dà la forma tipica al cervello umano (Boncinelli, 2006), il secondo grup-po (EMX1 e 2), si attiverebbe organizzando la cor-teccia. Basta una sola modificazione in questi geni o nei loro meccanismi di lettura o nella “tempistica”

di attivazione per determinare profonde alterazioni nella struttura del cervello o nella proliferazione cel-lulare (Simeone et al., 2006).

Diversi studi recenti concordano nel sostenere che questi geni architetti non agiscano da soli ma in concomitanza con (o con l’ausilio di) altri geni (che probabilmente ricoprono una sfera d’azione più li-mitata). Oliver e colleghi (Lagutin et al. 2003) del St. Jude Children’s Research Hospital di Memphis,

ad esempio, hanno individuato un gene (Six3) che sarebbe responsabile della tipica organizzazione in aree cerebrali predisponendole alla gestione di fun-zioni specifiche come la percezione degli odori e la visione, ma anche di funzioni più basilari come la re-golazione della temperatura corporea, la respirazione e il sonno. Questo gene, quindi, sarebbe responsabi-le della “regionalizzazione del cervello”.

Fin qui si potrebbe obiettare che le acquisizio-ni genetiche descritte siano così generali da poter ri-guardare almeno l’intera classe di appartenenza del sapiens se non addirittura di altri ordini. In effetti questi geni (EMX1 escluso) sembra siano presenti anche in altre specie animali, ma con strutture e loci differenti: questo, come illustrato, ne cambia il si-gnificato e soprattutto le possibilità di realizzazione morfologico-funzionale. Un gene regolatore, muta-to e selezionamuta-to durante processi di speciazione, può fornire possibilità funzionali e adattative che prima non erano presenti o che erano “silenziate” dalla pre-senza di altri geni (vedi § 2.2.3.).

Ciò che invece sembra non soltanto specifica, ma esclusiva del sapiens è una serie di mutazioni re-lative alla struttura bipede e alle possibilità di ali-mentazione. Per comprendere i termini del dibatti-to, è necessario prendere in considerazione gli studi di paeloantropologia molecolare che tentano di spie-gare i passaggi da una specie di ominide con pressio-ni ambientali selettive su nuove strutture genetiche (Biondi e Rickards, 2006). Come risaputo, spesso i

processi di speciazione si verificano per selezione di tratti minoritari presenti nella popolazione che però risultano o neutrali o addirittura dannosi. È una no-zione orami consolidata che va sotto il nome di “se-lezione dell’handicap” (Zahavi, 1975).

Sembra che nel processo di gracilizzazione del volto (diminuzione delle dimensioni della mandibo-la e dell’arcata sopraciliare) nel sapiens e di liberazio-ne delle strutture ossee dai compiti masticatori, con conseguente allargamento del cranio, abbia agito pro-prio questo principio (Rotilio, 2006). In particolare lo studio di Stedman et al. (2004) mostra come la dif-ferenza nei muscoli masticatori tra gorilla e sapiens sia dovuta all’inattivazione di un gene che codifica per la miosina, una proteina che produce la forza contratti-le dei muscoli. Meno miosina uguacontratti-le meno forza mu-scolare, ma anche difformità nelle strutture ossee cui i muscoli si legano. A differenza dei primati non uma-ni, allora, l’uomo ha acquisito una mutazione in que-sto gene ereditato filogeneticamente dai primati che impedisce l’accumulo di miosina nei tessuti mascella-ri, inducendone una riduzione dimensionale.

L’aspetto interessante dello studio di queste mu-tazioni in geni unicamente umani è che rende possi-bile mettere in relazione piccole modificazioni poco visibili nel DNA con macro cambiamenti strutturali e funzionali considerati specifici del sapiens. Varia-zioni genetiche che producono morfologie differen-ti hanno effetto, ad esempio, anche sulla differen-tipologia di alimentazione tipica del sapiens.

Il micrognatismo (diminuzione della mandibo-la e delle arcate dentarie) con le conseguenti riorga-nizzazioni del volto a favore della parte frontale del cranio e l’allargamento della struttura craniale in ge-nerale, infatti, si sono potuti affermare solo perché contemporaneamente si sono verificate certe condi-zioni sia morfologiche che ecologiche. Senza scende-re nei particolari, è evidente che uno degli handicap derivante dall’ampliamento del cranio e della mas-sa cerebrale è connesso all’aumento delle necessità energetiche: più grande è la massa cerebrale maggio-ri sono le maggio-riserve di energie che consuma.

Diversi studi hanno cercato di spiegare la sele-zione di questo aspetto, evolutivamente controadat-tativo, chiamando in causa motivazioni di tipo fun-zionale come l’incremento delle attività di coopera-zione e di comunicacoopera-zione che avrebbero favorito un miglioramento delle tecniche per il procacciamento del cibo. Queste spiegazioni però sembrano non ri-spondere alla questione della adattatività: un tratto

“handicap” come un cervello che brucia tantissima energia e che richiede molto cibo non può attendere, per venire selezionato, l’attecchimento di comporta-menti collaborativi. Questi semmai sono una conse-guenza dell’aumento del volume cerebrale, non una causa. Sembrano, invece, plausibili quegli studi che rintracciano nei cambiamenti genetici associati alla struttura del tubo digerente e degli enzimi contenu-ti al suo interno le cause dell’attecchimento di una struttura cerebrale così grande (Rotilio, 2006).

Svante Pääbo e collaboratori (Green et al. 2009) hanno individuato nel DNA del Neanderthal una differenza decisiva rispetto al sapiens: in quest’ulti-mo, infatti, sarebbe presente una variazione genica responsabile della scissione del lattosio in zucchero, carburante per i processi metabolici del cervello, che sarebbe del tutto assente nel Neanderthal. Mentre quest’ultimo doveva recuperare le sostanze metabo-liche e gli acidi polinsaturi necessari per il funziona-mento del cervello tramite processi complessi di tra-sformazione intestinale ed epatica, il sapiens poteva ottenerle in maniera quasi immediata grazie ad una tipologia di alimentazione più variata (il sapiens è

“più onnivoro” del Neanderthal) e più ricca di costi-tuenti essenziali immediati da assimilare.

In sintesi si può dire che sebbene il FOXP2 pos-sa effettivamente essere considerato un gene specifi-co per l’artispecifi-colazione linguistica esso deve essere in-quadrato nella configurazione complessiva dell’e-voluzione genetica in cui le relazioni intrecciate tra geni e funzioni sono molteplici e pluridirezionate.

Una serie di mutazioni ultraspecifiche associate a omologie ereditate e rifunzionalizzazioni hanno reso il DNA umano un mosaico (Gould, 2002), una se-rie di tasselli il cui significato viene definito sia dal-la tipologia di materiale di cui sono costituiti (dal-la pie-tra da cui sono espie-tratti) sia dalla relazione con i tas-selli limitrofi.

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