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Le strutture filogenetiche della comunicazione

2.1. Cosa ci accomuna ai primati non-umani

2.1.3. Le strutture filogenetiche della comunicazione

Come vedremo in 2.2.4. un ulteriore elemen-to di importante affinità fisiologica tra primati uma-ni e non umauma-ni è costituito dal sistema della perce-zione uditiva. Questo fondamento naturale così im-portante non deve tuttavia fuorviare la ricerca sulla natura del linguaggio umano, neppure dal punto di vista strettamente anatomico. Non c’è dubbio, infat-ti, che fra le tante somiglianze tra uomini e scimmie una differenza spicca indiscussa su tutte le altre: le scimmie non parlano come fanno gli uomini.

A scanso di equivoci intendiamo qui con il ter-mine “parlare” l’emissione di suoni articolati modu-lati attraverso l’apparato fonatorio e regomodu-lati da pre-cise regioni cerebrali. Come sappiamo dai tanti lavo-ri di Philip Lieberman, infatti, la particolare

strut-tura anatomica del congegno vocale umano (il trat-to vocale ricurvo a due canne, con la laringe perma-nentemente in posizione abbassata) è tra i mammi-feri l’unica capace di produrre una modulazione fine del suono. Come, infatti, vedremo meglio in segui-to, sebbene diverse altre specie di mammiferi riesca-no ad abbassare la laringe per produrre suoni con frequenze formantiche nessuna di queste specie può mantenere stabilmente quella posizione10. A livello cerebrale, inoltre, l’estensione, la collocazione e le funzionalità dell’area di Broca e di quella di Wer-nicke – e, più in generale, la specifica architettura del “doppio network del linguaggio” (Pennisi 2006) corticale e subcorticale – non sembrano riscontrarsi nei primati non umani o in altri mammiferi.

Dal punto di vista articolatorio le uniche spe-cie che si avvicinano alle performances umane sono quelle che appartengono agli uccelli, sia a livello dei correlati periferici del linguaggio, sia a quello del-la localizzazione cerebrale. Non si tratta, tuttavia, di una somiglianza dovuta a un rapporto di filiazio-ne evolutiva, bensì di un più semplice fenomeno di

“evoluzione convergente”: montaggi analoghi di kit di attrezzi diversi per scopi simili, diremmo con l’e-vo-devo. Tutto ciò non vuol certo significare che il sistema cognitivo degli uccelli, i loro comportamen-ti intelletcomportamen-tivi, le loro abitudini sociali e culturali sia-no più simili a quelli umani di quanto risultisia-no es-sere quelli dei primati non umani. Nell’uomo, come negli animali non umani, esiste una forte

compo-nente multimodale – visiva, uditivo-prosodica, ol-fattiva, tattile, cinestetica – attraverso cui, nel corso di tutta l’esistenza, si trasmettono ai conspecifici le informazioni di natura emotivo-affettiva o, comun-que, i valori “aggiunti” ai nuclei semantici formaliz-zati. È probabile tuttavia che, già a partire dalla vita intrauterina, sino ad arrivare al superamento della fase prelinguistica (conclamata), la strumentazione multimodale della comunicazione affettivo-emotiva – specifica di tutti i primati – giochi un ruolo essen-ziale nella formazione dei sistemi cognitivi umani.

In altre parole, sino ai due anni di vita i piccoli uma-ni costruiscono i loro uuma-niversi rappresentazionali in maniera analoga a quella delle scimmie adulte.

Gli ultimi studi compiuti dai primatologi con-temporanei ci hanno fornito un quadro ormai ab-bastanza chiaro del funzionamento della comunica-zione nei primati non umani e delle forti analogie di questo funzionamento con il sostrato prelinguistico della comunicazione umana. Di più: ci hanno anche permesso di intravedere il nesso semiotico e psicolo-gico che connette strettamente lo strato prelinguisti-co prelinguisti-con quello linguistiprelinguisti-co nell’uomo. I risultati mi-gliori sono arrivati quando gli studi sulla comunica-zione dei primati non umani hanno definitivamente abbandonato l’insensata idea della seconda metà del Novecento secondo cui per dimostrare il rapporto di continuità cognitiva tra animali e uomini si sareb-be dovuto insegnare alle scimmie a parlare. Al con-trario, le attuali ricerche sul campo hanno studiato

il complesso intrecciarsi delle risorse visuali, olfatti-ve, tattili, uditiolfatti-ve, cinestetiche, che gli scimpanzé, i bonobo e molte altre scimmie antropomorfe metto-no in atto nell’atmosfera comunicativa complessiva entro la quale si esplica integralmente la vita sociale delle tribù dei primati non umani.

Ma quali sono i meriti e le scoperte della prima-tologia sul campo?

Innanzitutto l’individuazione di una precisa contestualizzazione sociale dei fatti comunicativi en-tro cui prendono significato tutti i segni multimoda-li utimultimoda-lizzati. Gesti teneri o aggressivi, comportamen-ti iracomportamen-ti o tranquillizzancomportamen-ti, prepotencomportamen-ti o sottomessi, cambiano completamente di senso a seconda di chi partecipa alla scena: un cucciolo o un adolescente in presenza della madre, i “guerrieri” adulti in presenza del capo tribù, i vecchi in presenza di femmine o di femmine e giovani maschi e così via.

In secondo luogo la ricognizione dell’enorme gamma di variabilità che questi comportamenti pos-sono assumere e, quindi, della complessità “tecni-ca” necessaria per studiarli. Ciò dipende dal fatto che la multimodalità somma i parametri visivi, udi-tivi, vocali, tattili, cinestetici, olfatudi-tivi, in una serie di configurazioni altamente variabili senza la possibili-tà di essere formalmente codificati se non attraver-so la contestualizzazione attraver-sociale. Da un lato questo fenomeno, come ha acutamente osservato Rita Levi Montalcini (1999), va a scapito della chiarezza e del-la specificità del messaggio. Ma dall’altro garantisce

un rigoroso controllo sociale delle norme comuni-cative. È questo controllo sociale, d’altronde, lo spo etologico entro cui si inscrivono tutti gli atti co-municativi dei primati non umani: non si possono cercare nella comunicazione dei primati (e in gene-rale di tutte le specie animali) caratteristiche o per-formances diverse da quelle richieste da questa natu-ra sociale degli atti. D’altro canto, il limite etologico non è, in assoluto, un limite cognitivo invalicabile (cfr. Tomasello e Call, 1997). Di fatto i primati non umani, sottratti ai contesti naturali e inseriti inte-gralmente in altri contesti sociali, sono capaci di for-nire prestazioni anche “umanamente” rilevanti. Così il celebre bonobo maschio-alfa Kanzi – allievo pre-diletto di Sue Savage-Rumbaugh – è diventato capa-ce di comprendere una capa-certa quantità di comporta-menti linguistici umani non per un’istruzione con-dizionata esplicita – che aveva ottenuto scarsi risul-tati con sua madre Matata – ma “spontaneamente”

solo quando ha cominciato a inserirsi gradualmente in una comunità di umani, divenendone un elemen-to stabile. Shanker ha notaelemen-to che solo quando Kan-zi e sua sorella Panbanisha si erano completamente integrati nel centro studi “Great Apes Trust” di Des Moines, nello Iowa, riuscirono a raggiungere i risul-tati migliori: “la spiegazione del loro sviluppo risie-deva nell’ambiente ricco di linguaggio in cui furono allevati” (Greenspan-Shanker 2004, 149).

Un dato che certo non può sorprenderci con-siderato che anche animali filogeneticamente molto

più lontani dall’uomo, come i cani, i merli o i pap-pagalli, per la continua comunanza con l’uomo e la frequenza della loro vita domestica, riescono spesso a comprendere il significato pragmatico di molte pa-role a cui sono esposti senza un’istruzione intenzio-nale. D’altro canto, le performances linguistiche zo-osemiotiche più spettacolari – come quelle di Kanzi, di Alex il pappagallo parlante di Irene Peppenbergh, della foca Hoover ecc. – sono anche le meno rilevan-ti da un punto di vista cognirilevan-tivo poiché, per l’ap-punto, non derivano in alcun modo dall’universo comunicativo sociale che è etologicamente proprio alle specie cui appartengono: nel migliore dei casi rivelano una flessibilità cognitivo-comportamentale notevole e “aggiunta” ma completamente estranea alle capacità rappresentative reali di quegli specifici individui animali.

Il terzo e più importante merito degli studi pri-matologici sul campo è quello di aver rilevato la spe-cie-specificità comunicativa dei primati non umani nel ruolo decisivo svolto dalle cure genitoriali (o di altri caregivers) per lo sviluppo funzionale-emoziona-le dei piccoli conspecifici. Le ricerche in questo am-bito (Gibson 2001; Falk 2000) hanno infatti dimo-strato che quanto più sono prolungati i periodi di interazione stabile co-regolata tra genitori (o figure assimilate) e figli, tanto maggiori sono i risultati ot-tenuti nel funzionamento sociale dei gruppi e nel-lo sviluppo funzionale-emotivo dei soggetti. Dean Falk (2009) ha addirittura formulato un nesso tra il

motherese language – cioè l’alterazione del contorno prosodico che le madri umane adottano nell’intera-zione con i neonati per un lungo periodo di tempo (cfr. Pennisi 1994) – e l’origine del linguaggio. L’in-tersoggettività cablata sulle fibre del mirror-neuron-system si traduce, nell’ontogenesi dei primati, in una complessa attività comunicativa in cui la reciproci-tà degli sguardi, la variazione prosodica delle voca-lizzazioni, le infinite sfumature del contatto fisico tra i corpi, l’attività motoria, gestuale e, soprattutto, la mimica facciale, sollecitano sino alle sue massime potenzialità i motori empatici del rapporto sociale tra i conspecifici radicando potentemente i fonda-menti di tutti i processi cognitivi superiori (Green-span e Shanker 2004).

È in questo ambito che di recente è stata sco-perta un’altra forte analogia tra primati umani e non umani: quella relativa all’amigdala l’organo del pa-thos emotivo. In particolare più di recente Freese e Amaral (2009) hanno osservato somiglianze anato-miche del tutto evidenti tra i macachi e gli umani.

L’organizzazione citoarchitettonica, infatti, presenta una pressoché completa omologia11.

Gli studi neuroscientifici comparati di questo ultimo decennio hanno, infine, evidenziato che an-che altre strutture cerebrali presentano marcate so-miglianze tra primati umani e non umani: una de-cisa asimmetria sinistra delle aree corticali perisil-viane, l’intero assetto asimmetrico del planum tem-porale, del lobo e dell’opercolo frontale12, una

ridu-zione delle dimensioni del corpo calloso e, quindi, un riavvicinamento delle commissure interemisferi-che (Rilling e Insel 1999). Alcuni comportamenti funzionali potrebbero essere interamente spiegati da queste analogie: per esempio l’asimmetria manuale che è stata testata sia in generale13 sia in diversi com-piti specifici: nel grooming – lo spulciamento reci-proco principalmente compiuto con la mano destra soprattutto dalle femmine14; nel tool use che è stato indagato da Hopkins, Russell e Cantalupo (2007) i quali hanno registrato una forte preferenza per la manualità destrorsa; e, infine, nell’espressività delle emozioni facciali15.

2.2. Cosa ci differenzia da tutte le altre

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