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La scienza della natura e la natura del linguaggio umano

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Academic year: 2022

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Antonino Pennisi Alessandra Falzone

La scienza della natura e la natura del linguaggio umano

Mucchi Editore

CapitoloUnico

2 CapitoloUnico

Collezione di saggi brevi diretta da Giovanni Lombardo e Antonino Pennisi Una tradizione millenaria ha sempre considerato il linguaggio come il contrassegno dell’intelligenza umana, amplifi cando la creatività, l’onni- formatività semantica, la libertà espressiva che esso ha concesso all’Homo sapiens distaccandolo da tutte le altre specie animali. Questa tendenza si è particolarmente aff ermata nel Novecento con la “svolta linguistica” e l’egemonia epistemologica delle scienze del linguaggio. L’emergere delle neuroscienze e la rivalutazione del naturalismo fi losofi co, dell’etologia e della biologia evoluzionista, nel contesto complessivo delle attuali Scien- ze cognitive, stanno mettendo in discussione quel progetto implicita- mente antropocentrico. Si comincia a intravedere la possibilità di una nuova fi losofi a del linguaggio che consideri le proprietà cognitive con- nesse a tutti gli usi linguistici come specie-specifi cità di natura biologica e fi nalizzate alla selezione naturale di cui l’uomo non potrà mai liberarsi perché inscritte geneticamente nella natura del linguaggio umano.

Antonino Pennisi insegna Filosofi a del linguaggio presso il Dipartimento di Scienze Cognitive, della Formazione e degli Studi culturali dell’Uni- versità di Messina. È autore di diversi libri sulle scienze cognitive e sul naturalismo fi losofi co, tra cui: Le lingue mutole. Le patologie del linguag- gio tra teoria e storia (Carocci-La Nuova Italia Scientifi ca, Roma-Firenze 1992), Psicopatologia del linguaggio. Storia, analisi, fi losofi e della mente (Carocci, Roma 1998), Le scienze cognitive del linguaggio (Il Mulino, Bo- logna 2006, insieme a P. Perconti).

Alessandra Falzone insegna Psicobiologia del linguaggio presso il Dipar- timento di Scienze Cognitive, della Formazione e degli Studi culturali dell’Università di Messina. Ha pubblicato due volumi sull’etologia co- gnitiva e la fi losofi a della mente (Filosofi a del linguaggio e psicopatologia evoluzionista, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004 e Strutture, funzioni, complessità. Si può naturalizzare la fi losofi a della mente? Rubbettino, Sove- ria Mannelli 2008) e diversi saggi sulle prospettive evoluzionistiche delle scienze del linguaggio.

I due Autori hanno di recente pubblicato insieme il volume: Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive (Il Mulino, Bologna 2010).

€ 10,00 i.c.

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CapitoloUnico

collezione di saggi brevi

diretta da Giovanni Lombardo e Antonino Pennisi

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Antonino Pennisi Alessandra Falzone

Le scienze della natura

e la natura del linguaggio umano

Mucchi Editore 2011

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ISBN 978-88-7000-550-9

Tutti i diritti riservati. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere ef- fettuate nel limite del 15% di ciascun volume o fascicolo di periodico dietro paga- mento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 apri- le 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra siae, aie, sns e cna, confartigia- nato, casa, claai, confcommercio, confesercenti il 18 dicembre 2000. Le ri- produzioni per uso differente da quello personale potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dall’editore. È vietata la pubblicazione in rete.

grafica Mucchi Editore (MO), stampa Editografica (BO)

© Enrico Mucchi Editore s.r.l.

Via Emilia Est, 1527 - 41100 Modena www.mucchieditore.it

info@mucchieditore.it

associata: confindustria, aie, uspi

Ia edizione, pubblicata in Modena nel settembre del 2011

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Sommario

6 Avvertenza

7 § 1. Destruens. Un secolo antropocentrico 12 1.1. Cecità cognitive

17 1.2. L’ontologia linguistica dell’animale umano

22 1.3. I limiti cognitivi del linguaggio 26 1.4. Il pensiero tecnomorfo

31 § 2. Construens. Appunti neo-naturalistici sul linguaggio

32 2.1. Cosa ci accomuna ai primati non umani

37 2.1.1. Mirror-neuron-system

41 2.1.2. Dall’imitazione all’aggressività 47 2.1.3. Le strutture filogenetiche della comunicazione

54 2.2. Cosa ci differenzia da tutte le altre specie

55 2.2.1. Una genetica da sapiens

57 2.2.2. Geni selezionati per diventare umani 66 2.2.3. Geni persi per diventare umani 68 2.2.4. Una morfologia da sapiens 80 § 3. Conclusioni. La selezione naturale e la

natura del linguaggio umano 90 Note

92 Bibliografia

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Avvertenza

Convergono in questo opuscolo le riflessioni – rielaborate e sintetizzate – dai seguenti scritti:

A. Pennisi - A. Falzone, What Has Homo sapiens Really Bou- ght at the Cost of Schizophrenia? Evolutionism Seen through a Philosophy of Language, in Evolution of Language, Fifth Inter- national Conference, Max Planck Institute for Evolutiona- ry Anthropology, Leipzig, 31 marzo-3 aprile 2004 (con A.

Plebe).

A. Pennisi - A. Falzone, Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, Il Mulino, Bologna 2010.

A. Pennisi - A. Falzone, L’anomalia ecologica del linguaggio umano, «Atti della terza edizione del Festival dell’Antropolo- gia», Ivrea, 26-28 novembre 2010, in corso di stampa.

Sebbene il lavoro sia stato concepito e organizzato in mani- era unitaria, si specifica che i paragrafi 1.1-3, 2, 2.2 sono di Alessandra Falzone, mentre i paragrafi 1, 1.4, 2.1, 3 sono di Antonino Pennisi.

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§ 1. Destruens. Un secolo antropocentrico

Parliamo tutto il giorno con il nostro cervello.

Nel momento in cui ci stacchiamo dal film dei nostri sogni e apriamo gli occhi al mondo, una fiu- mana di proposizioni invade la nostra mente: “allo- ra, cosa devo fare? Non mi sento bene stamattina.

Farò tardi a lezione. Vado a lavarmi. Non ho ancora passato le slides nel portatile. Lo farò in aula. Fa cal- do, è meglio una polo a maniche corte. La cena era ottima ma le fesserie di Mario erano insopportabili.

Basta, basta, devo fare presto…”.

Parole, frasi, immagini linguistiche di ciò che pensiamo, desideriamo o temiamo: commenti, sug- gerimenti, domande, comandi, per rappresentarci attimo dopo attimo il senso della nostra esistenza, conferirle ordine, permetterci di posizionarci reali- sticamente nei confronti del mondo e dei nostri in- terlocutori. Certo nello stesso momento, e forse an- che prima (Libet 2004), una gran quantità di con- gegni biochimici e neurofisiologici sta monitorando automaticamente ogni nostra attività vitale. L’adat- tamento biologico ci garantisce di regolare la respira- zione, la temperatura corporea, i movimenti e le po- sture corporee inintenzionali, le espressioni facciali, l’attenzione verso eventi e nemici esterni ecc. Senza questo sostrato indipendente da ogni volontà né noi, né qualsiasi altra specie animale, potrebbe permet- tersi il lusso di svolgere una qualunque attività intel-

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ligente. Allo stesso modo e simultaneamente osser- viamo la realtà attraverso i sensori visivi e avvertiamo stimoli di diverso genere: percepiamo odori gradevo- li o sgradevoli, ci sentiamo pressare sul braccio o sul collo, tocchiamo con le dita degli oggetti, avvertia- mo sensazioni di calore o rabbrividiamo per il fred- do, ci turbiamo, entriamo in agitazione, gioiamo o piangiamo o siamo semplicemente sereni senza sape- re da quale parte del corpo possa provenire tutto ciò:

ma siamo in grado di capire l’immagine che vedia- mo, l’odore che sentiamo, il dolore che avvertiamo, l’emozione che ci ha assaliti solo quando il nome ci soccorre facendoci rientrare – consapevoli – nel cir- colo inesorabile del dialogo con il nostro cervello.

Si potrebbe definire la coscienza nell’animale umano come la consapevolezza specie-specifica di una rappresentazione mentale. Il riconoscimento, cioè, di una molteplicità di informazioni della più etero- genea natura fisica ed elettrofisiologica concentrata in un’unità concettuale dotata di formato cogniti- vo proposizionale appannaggio esclusivo degli esse- ri umani1.

Ritorneremo più volte sulla nozione di specie- specificità, che è il termine-chiave per tentare di af- ferrare il controverso rapporto tra le scienze della na- tura e la natura stessa del linguaggio umano. Per il momento sarà bene precisare che l’accezione in cui esso viene usato da filosofi, linguisti, antropologi o altri studiosi di cultura umanistica, tende a sottoli- neare che certi comportamenti o funzioni o capacità

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sono tipici o, addirittura, esclusivi di una data spe- cie.

Il caso del linguaggio è, certamente, il più rap- presentativo. Secondo molti ricercatori, infatti, l’uo- mo si distinguerebbe da tutti gli altri primati per- ché è capace di categorizzare e astrarre, individua- re la causalità fenomenica, praticare l’intenzionalità e riconoscere i propri conspecifici in quanto “agen- ti intenzionali/mentali (al pari del Sé)” (Tomasello 1999, 32), comprendere le strutture semantiche e sintattiche delle lingue e praticarne gli aspetti creati- vi (Chomsky), costruire artefatti e tecnologie (Leroi- Gourhan). Tutte capacità che – pur con qualche di- stinguo – vengono fatte rimontare alla rappresenta- zione linguistica.

Sino all’affermarsi delle scienze cognitive e, co- munque, certamente sino alla seconda metà del No- vecento – epistemologicamente egemonizzata dal paradigma della “svolta linguistica” – questa convin- zione era incapsulata in una visione fortemente an- tinaturalistica e antropocentrica che ha accomuna- to filosofie linguistiche per altri aspetti contrapposte come l’analitica logico-formale, lo strutturalismo e il generativismo: tutte immagini completamente de- fisicizzate dei processi di codificazione, elaborazio- ne, produzione e comprensione del linguaggio. La specificità di quest’ultimo, in un tale contesto, è in- teramente attribuita alle potenzialità autonome di una forma di intelligenza formale “illimitatamente creativa” e “indipendente dal contesto” (Chomsky),

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“onniformativa” (Hjielmslev), capace di “autorefe- renzialità” (Tarski), “semioticamente onnipotente”

(Prieto, De Mauro).

L’illimitata libertà di cui godrebbe il linguaggio e la sua capacità di generare infiniti universi di rap- presentazioni non solo viene considerata una faccen- da che riguarda solo gli esseri umani ma pian piano assurge al ruolo di pervasiva metafora della stessa at- tività cognitiva. Una convinzione talmente radicata da generare una cascata di cecità cognitive, involon- tari corollari del peccato antropocentrico originale.

La prima, e più invasiva, è l’idea secondo la qua- le un’attività è “cognitiva” solo quando è “rappre- sentazionale”. L’identificazione filosofica tra “pensa- re” e “rappresentarsi il mondo” è dilagata nei secoli verso tutti i campi del sapere. Quanti, tra i più sen- sibili a un’etica naturalista, cercano almeno di taci- tare i sensi di colpa nei confronti del resto del mon- do animale, arrivano al massimo a prospettare l’idea che: “ogni specie dispone, comunque, di un proprio modo di rappresentarsi il mondo”. Ciò che appare davvero impossibile da ammettere è che possano esi- stere mondi cognitivi del tutto privi di attività rap- presentazionale, che si possa vivere in maniera adat- tativamente adeguata senza alcuna forma di parola, pensiero, concetto, idea, significato, segno o sistema di riferimento. Insomma senza alcun tipo di tradu- zione di informazioni in etichette mentali.

La seconda cecità cognitiva – derivata dalla pri- ma e forse ancor più antica nella storia delle idee – è

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la convinzione secondo cui sia proprio la rappresen- tazione linguistica a determinare la superiorità co- gnitiva dell’animale uomo rispetto al resto del mon- do animale. Del tutto refrattari a riflettere sull’ano- malia e, per certi aspetti, sull’artificialità del modo di categorizzare il flusso di informazioni vitali attra- verso l’incasellamento di qualsiasi oggetto naturale o culturale entro una maglia della complessissima rete dei nostri lessici, il pensiero linguistico del No- vecento ha convertito ad arte quello che Vico chia- mava “il primo difetto della mente umana” (la no- minalizzazione dell’inattingibile realtà) in una scor- ciatoia filosofica riciclando la millenaria tesi dell’al- terità dualistica del pensiero umano. L’idea di una diversa sostanza tra signifié e signifiant, competence e performance, tra la “materia della mente” e l’attività rappresentazionale che permetterebbe di estrarne va- porose entità prive di ogni “peso” con cui comuni- chiamo e ragioniamo ha costituito, d’altrocanto, la principale barriera che separa tuttora il metodo spe- rimentale dalla pura attività speculativa.

Esiste, infine, una terza forma di cecità cogniti- va più raffinata e scientificamente avvertita. Si tratta dell’idea, largamente presente non solo in ambito fi- losofico ma anche in vasti strati della cultura scienti- fica, secondo cui alla rappresentazione linguistica do- vremmo i processi evolutivi che hanno caratterizzato la selezione naturale del sapiens. Questa tesi è, gene- ralmente, accompagnata dalla versione naturalistica del dualismo che abbiamo prima visto e che, in que-

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sto caso, si manifesta sotto le spoglie della frattura tra l’“evoluzione naturale” e l’“evoluzione culturale”, o per dirla con una vecchia terminologia tra “natura” e

“cultura”. La prova generalmente esibita di questa di- cotomia consisterebbe nella diversa cronologia tra le due storie, caratterizzate da lentissime trasformazioni dovute al caso e alla necessità nella prima, e dalla sba- lorditiva celerità del fluire degli avvenimenti signifi- cativi nella seconda. In questa singolare tesi accade, ovviamente, di veder assimilati i processi culturali ai processi linguistici e la rapidità della selezione umana alla corsa della storia evolutiva culturale.

1.1. Cecità cognitive

La nozione di “cecità cognitiva” è sorta, con- temporaneamente, nell’ambito dell’etologia e della psicologia cognitiva. Nel primo caso fu applicata da R. Chauvin – e in seguito da E. Wilson e da tanti al- tri naturalisti – per dimostrare come ciascuna specie possa percepire ed elaborare solo materiale cognitivo che appartiene al proprio dominio ecologico. Così una chioccia entra in agitazione se ascolta il pigolìo dei propri pulcini anche se non li può vedere (per- ché nascosti da un muro), mentre resta tranquilla se li può vedere ma non ne sente il richiamo (se sono chiusi in una teca di vetro). Si dice, in casi come questi, che la chioccia è “cognitivamente cieca” alla vista per questo compito, essendo il suo mondo in-

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tellettivo interamente costruito attorno all’udito.

La psicologia cognitiva ha dimostrato, d’altrocanto, che quando i livelli di attenzione sono polarizzati su un dato evento o fenomeno, altri eventi o fenomeni concomitanti rischiano di non essere neppure per- cepiti. Celebre, a questo proposito, l’esperimento di Simons e Chabris – sulla scia degli studi di Neisser – che dimostrarono come soggetti a cui era stato chie- sto di porre attenzione ai passaggi di palla tra i com- ponenti di una squadra di pallacanestro guardando un video non riuscirono a notare in alcun modo l’in- gresso e la permanenza in campo di un gorilla (in re- altà un uomo vestito da gorilla). In questo caso la ce- cità cognitiva riguarda la pertinenza della selezione che impedisce di accorgersi di tutto ciò che sta at- torno al focus dell’attenzione. Ciò che accomuna i casi etologici e quelli psicologici è l’inintenzionali- tà dei processi di cecità cognitiva: seppure per mo- tivi diversi la chioccia di Chauvin e gli spettatori di Simons e Chabris non “possono” percepire determi- nati stimoli perché qualcosa di invisibile ma di cer- tamente presente opera di nascosto nel loro motore cognitivo. Per tornare a percepire occorre – laddove possibile – rimuovere questo ostacolo invisibile.

Il cambiamento dei paradigmi scientifici po- trebbe essere considerato un settore elettivo per lo studio delle cecità cognitive. Nel nostro caso, ad. es., non c’è dubbio che l’egemonia novecentesca della

“svolta linguistica” ha impedito di guardare all’in- terno della dimensione naturale del linguaggio. La

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natura del linguaggio umano è stata tutta schiaccia- ta sulla sua dimensione culturale. Non ci si è mai neppure accorti dei limiti del linguaggio, così come dei pericoli in cui può imbattersi la specie umana proprio in quanto specie-specificamente linguistica (Pennisi-Falzone, 2010).

C’è una caratteristica delle cecità cognitive che può essere proficuamente applicata alla comprensio- ne dei cambiamenti epistemologici, compreso quel- lo che stiamo analizzando. Si tratta dell’introduzione di piccoli particolari che entrano nella scena in ma- niera silenziosa e appaiono immediatamente insigni- ficanti ma che, una volta individuati e focalizzati, co- minciano a ristrutturare interamente il campo visivo sino a determinare la sua totale ridefinizione. Ad es., nel citato esperimento del gorilla invisibile, sortì un effetto rivelatore richiedere ai soggetti sottoposti alla visione del video di guardare ai passaggi di palla della squadra che indossava la maglia nera. La richiesta di focalizzare sul colore nero, che è anche il colore del gorilla, indusse a ristrutturare le pertinenze attenti- ve, sino a raddoppiare le prestazioni. Così anche nei processi epistemologici indurre a guardare particola- ri nuovi può produrre “catastrofi d’insieme” nel sen- so che già negli anni sessanta T. Khun dava a que- sto termine.

La catastrofe naturalistica che sta cambiando il modo di guardare ai fenomeni linguistici è stata pro- babilmente introdotta da Konrad Lorenz, il fonda- tore dell’etologia. È vero, infatti, che i modelli più

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accreditati, cioè quello neuroscientifico e quello evo- luzionistico-darwiniano, costituiscono l’impalcatura teorica delle nuove scienze cognitive del linguaggio, ma è anche vero che il “particolare ristrutturante” è stato introdotto da Lorenz molto tempo prima che avesse inizio l’affermazione del nuovo paradigma.

Fu per primo Lorenz nel suo manifesto metodo- logico (Vergleichende Verhaltensforschung. Grundla- gen der Ethologie, 1978) a sottolineare, infatti, la centralità delle determinanti innate sulla manifesta- zione del comportamento. A tale scopo propose il concetto “tecnico” di Speziesspezifität (specie-specifi- cità), un termine che è stato usato in seguito in ma- niera impropria. Formulato in ambito strettamen- te biologico, il concetto di specie-specificità indi- cherebbe il fatto che certi organismi sarebbero attivi solo verso una determinata specie animale o vegetale (si pensi a quei parassiti che vivono esclusivamente in determinate specie di animali o piante). Lorenz ha mutuato questo concetto biologico assegnandolo a una sfera più alta rispetto alla semplice compatibilità chimica, quella del comportamento, che segue leg- gi di funzionamento differenti rispetto a quelle della biologia animale o vegetale. La componente centra- le della nozione di specificità che Lorenz intendeva applicare al comportamento animale era l’elemen- to costrittivo: i parassiti che non possono scegliere quale pianta infestare, ma possono anzi devono attac- care, per la loro sopravvivenza e riproduzione, una sola specie, presentano Speziesspezifität. Così il padre

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fondatore dell’etologia ha impiegato questa nozione di coercizione funzionale applicandola al comporta- mento animale. Nell’etologia contemporanea, infat- ti, si parte dal presupposto secondo cui “il compor- tamento è determinato in gran parte da adattamen- ti filogenetici sotto forma di coordinazioni ereditarie e di meccanismi scatenanti innati” (Eibl-Eibelsfeldt, 1995, 382): è quest’accezione a definire l’uso tecni- co del termine “specie-specificità”.

Non bisogna quindi confondere la nozione di specie-specificità con tutto ciò che dei comporta- menti di una specie ci appare caratteristico ed an- che, in un certo senso, unico. Non è affatto detto che i comportamenti specie-specifici siano quelli più spettacolari. Anzi, poiché i comportamenti specie- specifici sono determinati dalla programmazione de- gli algoritmi genetici, essi, in genere, si riferiscono a meccanismi coatti, ad azioni o ritmi o fasi obbliga- torie che limitano in maniera determinante le stra- tegie adattative più creative. Specie-specifico, allora, è l’aspetto del comportamento che è regolato dal- la dotazione genetica, quella componente a cui una data specie non può sottrarsi. La componente na- turale del comportamento risiede, così, proprio nel gradiente di specie-specificità che una specie anima- le mostra: più è alto questo gradiente, più i compor- tamenti dei singoli membri sono geneticamente de- terminati risultando meno flessibili e meno creativi.

Non è un caso che sulla scorta di questa definizio- ne epistemologicamente precisa, Lorenz (1959) ab-

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bia definito l’uomo l’animale più euritopico, un vero

“specialista della non specializzazione”.

1.2. L’ontologia linguistica dell’animale umano

L’impatto di questa impostazione sulle scienze del linguaggio è stato, ed è attualmente, di incalcola- bile portata. Poiché, infatti, i comportamenti specie- specifici sono determinati, in questo quadro, dalla programmazione degli algoritmi genetici, essi in ge- nere si riferiscono a coercizioni limitanti per la flessi- bilità comportamentale.

Già con Chomsky era emersa l’idea che il lin- guaggio fosse un dispositivo innato, filogenetica- mente ereditato, che nasce e si sviluppa in tempi on- togenetici ben delimitati e sostanzialmente indipen- denti dall’apprendimento. Chomsky stesso utilizza più volte il termine “specie-specificità” per connota- re il linguaggio umano:

“non esistono uomini – nemmeno gli idioti – che non siano capaci di mettere insieme diverse parole, forman- do con esse un enunciato con cui rendono noto il loro pensiero; mentre d’altra parte non esiste alcun altro ani- male (...) che sia capace di fare lo stesso (...). In breve, dunque, l’uomo ha una capacità specie-specifica (spe- cies-specific), un tipo unico di organizzazione intellet- tuale che non può essere attribuita ad organi periferici o messa in relazione con l’intelligenza generale e che si

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manifesta in ciò che possiamo chiamare “aspetto crea- tivo” dell’uso ordinario del linguaggio, la cui proprie- tà consiste nell’illimitatezza dell’ambito e nell’indipen- denza dagli stimoli” (1966, 46-47).

Il caso di Chomsky che, nonostante i numero- si cambiamenti e le molteplici revisioni teoriche della sua prospettiva, non abbandonerà mai l’uso di questa nozione, non è tuttavia pienamente rappresentativo delle più attuali tendenze del paradigma naturalisti- co. Egli, infatti, non identifica mai il linguaggio con gli organi periferici o centrali che lo producono: pa- radossalmente, anzi, finisce col condividere con i suoi oppositori l’idea che il linguaggio sia sostanzialmente una tipologia di pensiero, una “forma di intelligenza”

estranea o comunque indifferente ai correlati morfo- logici con cui si manifesterebbe semplicemente nel mondo delle “strutture superficiali”. Non è un caso che il fondatore delle scienze cognitive – nonostante tutte le ultime formulazioni vaghe, elusive ed oscil- lanti2 – sia oggi sostanzialmente avverso o comunque indifferente sia alla prospettiva neuroscientifica che a quella evoluzionista. Resta, tuttavia, dell’insegna- mento chomskiano ripensato nel terzo millennio, la necessità di imparare a rileggere la “cognizione uma- na come massicciamente generativa ma fortemente vin- colata” (Hauser 2009, 195).

Per trovare un punto di vista filosofico centra- to sulla rappresentazione linguistica ma del tutto immerso nella prospettiva di una “specie-specifici- tà” biologicamente intesa, siamo costretti a risalire

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alla linguistica aristotelica (Lo Piparo 2003). Nono- stante la distanza temporale che separa il grandioso affresco aristotelico della conoscenza dall’attuale di- battito delle scienze della mente, è solo all’interno di questo pensiero globale sulla cognizione anima- le che emerge una soluzione realistica e percorribile.

Questa soluzione fa perno sull’idea che l’ontologia umana coincida con l’ontologia linguistica dell’ani- male-uomo. L’uomo è, infatti, in senso tecnico, un animale linguistico. Tutte le ipotesi vecchie e nuove fondate sull’idea che il linguaggio si identifichi con lo strumento di qualche altra primarietà (l’interazio- ne sociale, la trasmissione delle informazioni, la con- venzionalità dei concetti o delle idee, il veicolo di trasporto degli artefatti culturali ecc.) appaiono, da questo punto di vista, errate e parziali: “il linguaggio non è uno strumento ma attività specie-specifica di organi naturali” (ib., 3). Con Aristotele il parlare è come il respirare dell’anima:

“il parlare non è tanto attività biocognitiva che si ag- giunge ad altre attività che l’uomo ha in comune con altri viventi quanto, piuttosto, attività che, a partire dal momento in cui sorge, riorganizza e rende specifiche tutte le attività cognitive umane, comprese quelle che l’uomo mostra di avere in comune con gli animali non umani: percezione, immaginazione, memoria, deside- rio, socialità” (ib., 5)

Tra gli studiosi attuali di scienze cognitive quel- la che più si può idealmente accostare a questa po-

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sizione è Elizabeth Spelke, più nota come l’autrice dell’ipotesi della core knowledge in cui si sostiene che le capacità cognitive di tutti gli animali dipendono dallo stretto intrecciarsi tra lo sviluppo infantile e i sistemi di conoscenze dominio-specifici. Così come i cuccioli di animali mostrano sistemi percettivi spe- cializzati per individuare particolari tipi di informa- zione sensoriale e sistemi motori dedicati a certi tipi di azione, allo stesso modo presentano sistemi cogni- tivi che assolvono compiti specifici: per rappresen- tarsi gli oggetti materiali, navigare attraverso map- pe spaziali, riconoscere altri animali e conspecifici.

“Questi sistemi specializzati costituiscono il nucleo di tutte le abilità cognitive mature dimodoché qual- siasi comportamento che è unico degli uomini di- pende da un’unica caratteristica del loro primo svi- luppo” (Spelke-Hauser, 2004, 278). Trenta anni di studio sperimentale in questo settore hanno dimo- strato che i bambini sono equipaggiati con un siste- ma di core knowledge analogo a quello di altri anima- li ma che, raggiunta l’età dei due anni, cominciano a esibire livelli tali di abilità in ciascuno di questi si- stemi da configurare un vero e proprio salto cogniti- vo. Secondo la Spelke ciò avverrebbe proprio perché nell’uomo esistono facoltà dominio-specifiche di ap- prendimento e uso del linguaggio:

“non esistono – in alcun dominio cognitivo sostanzia- le – core system unicamente umani, nemmeno quello del ragionamento sociale. Soltanto il linguaggio presen- ta un nucleo di fondamento che è soltanto umano, che

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serve a rappresentare ed esprimere concetti all’interno di – e attraverso – ogni altro dominio conoscitivo spe- cifico. La capacità esclusivamente umana di combinare rappresentazioni essenziali in modo rapido, produttivo e flessibile potrebbe dunque dipendere dalla nostra in- nata facoltà di linguaggio” (Spelke 2009, 131).

L’idea chomskiano-aristotelica viene qui rivisi- tata a partire dalle evidenze empiriche e morfo-strut- turali. Le più recenti neuroscienze cognitive hanno ipotizzato l’esistenza di strutture modulari di que- sto tipo. Al di là del lavoro di precisazione sperimen- tale è indubbio che nella struttura filogenetica del sapiens emergono configurazioni strutturali perife- riche (tratto vocale sopralaringeo e apparato uditi- vo) e centrali (aree di lateralizzazione cerebrale per la comprensione del linguaggio, come l’area di Werni- cke, ed aree di integrazione multimodale delle perce- zioni come l’area di Broca) probabilmente dominio- specifiche (cfr. infra. 2.3.4). Anche se improntato a un modularismo molto più debole di quello presup- posto dalle attuali volgarizzazioni neuroscientifiche, le prove funzionali a favore di una specificità domi- nio-specifica per il linguaggio sembrano forti. Il pro- blema è come dimostrarla.

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1.3. I limiti cognitivi del linguaggio

Una conseguenza immediata e, forse, filosofi- camente imprevista della metabolizzazione teorica della specie-specificità tecnica del linguaggio uma- no è l’accettazione del carattere ontologicamente vincolante della sua struttura fisiologica. Una pro- iezione automatica della filosofia linguistica ari- stotelica implica, infatti, una riduzione dei margi- ni dell’euritopicità lorenziana attribuita all’uomo:

“l’uomo non sceglie il linguaggio. A partire dal mo- mento in cui comincia a parlare non è più libero di fare a meno del linguaggio o di prenderne le di- stanze” (Lo Piparo 2003, 3). Il linguaggio, quindi, non è più quella fonte di illimitata creatività del- lo spirito umano, quel contrassegno della sua in- discussa superiorità cognitiva sulle altre specie ani- mali che era stata amplificata nel corso del Nove- cento: è, al contrario, un sistema di vincoli e limiti che circoscrivono e specializzano l’attività cogniti- va umana.

Mentre sul piano della struttura fisiologica i vincoli del linguaggio cominciano ad essere indivi- duati con sufficiente precisione dai diversi settori del neo-naturalismo linguistico su cui torneremo nella seconda parte del lavoro, non è altrettanto chiaro in che modo si rispecchino sul piano cognitivo.

È Antonio Damasio – uno dei critici più decisi della concezione linguistica della coscienza – a mo- strare più chiaramente di tanti altri la precisa consa-

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pevolezza della natura coattiva della cognizione lin- guistica:

“il cervello umano genera automaticamente una versio- ne verbale delle storie visive. Non ho modo di impedi- re questa traduzione e neanche voi potete farlo. Qua- le che sia la musica nelle tracce non verbali della nostra mente, viene rapidamente tradotta in parole e frasi. Fa parte della natura dell’essere umano, la creatura che ha il dono del linguaggio. Probabilmente è da questa irre- primibile traduzione verbale, dal fatto che anche il co- noscere e il sé nucleare diventano verbalmente presenti nella mente prima del momento in cui di solito ci con- centriamo su di loro, che trae origine l’idea di spiegare la coscienza in base al solo linguaggio. A giudizio di ta- luni la coscienza si presenta quando, e soltanto quando, il linguaggio commenta la situazione mentale per noi.

(...) Tale idea impone una visione della coscienza per la quale soltanto gli esseri umani con una notevole pa- dronanza dello strumento linguistico possono avere sta- ti coscienti. Gli animali privi di linguaggio e i neonati umani sarebbero semplicemente sfortunati, condannati all’eterna incoscienza” (1999, 224).

Se prescindiamo dalle discutibili conclusioni – perché mai se nell’uomo le forme della coscienza de- rivassero dal linguaggio anche le forme della coscien- za animale dovrebbero dipendere dal linguaggio? – nessuno avrebbe potuto esprimere meglio la condi- zione etologica di delimitazione conoscitiva, di spe- cie-specificità in senso tecnico del linguaggio umano.

D’altro canto, i modelli teorici della linguistica contemporanea hanno lasciato molto spazio a que-

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sto genere di posizioni, rivelandosi refrattari a spie- gare i vincoli bio-cognitivi del linguaggio. Per esem- pio lo strutturalismo, con cui si suole far coincidere l’avvio della linguistica moderna, mentre ha svisce- rato in profondità l’universo descrittivo delle forme linguistiche già date, non è mai stato sfiorato dall’i- dea di intercettare il rapporto vincolante fra struttu- ra fisiologica e cognizione linguistica nel farsi delle sue forme. Da questo punto di vista le strutture lin- guistiche, in quanto “semiotiche”, al pari di tutte le altre strutture convenzionali, non sono altro che si- stemi culturali autosufficienti che possono solo esse- re descritti e mai spiegati.

È stato il grande merito della linguistica chomskiana l’aver iniziato a riflettere su quale spe- cifico tipo di cognizione sia la cognizione linguisti- ca. E in effetti, come abbiamo visto prima, Chom- sky ha definito il linguaggio come una forma sui ge- neris di conoscenza ma lasciando solo sullo sfondo la dimensione biologico-strutturale del suo studio e approfondendo esclusivamente le proprietà formali delle grammatiche, con relativa separazione tra sin- tassi e semantica. Insomma, il limite di fondo dell’e- ra chomskiana è stata l’autarchia del suo mentali- smo, l’idea espressa in Regole e rappresentazioni, se- condo cui “quando ci volgiamo alle strutture cogni- tive o ai meccanismi fisici che sottostano ad esse”

non dobbiamo far altro che “trasferire il problema dal livello psicologico a quello biologico” (1980, 369).

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È proprio questo passaggio, al contrario, a rive- larsi intricato e problematico, pur restando inomet- tibile per una ridefinizione della cognizione lingui- stica umana: non è sufficiente, infatti, considerare la ricorsività delle procedure sintattiche una risposta globale alla ricerca della sua specie-specificità. Fissar- si sulla natura formale di queste procedure, sebbene colga un aspetto fondamentale dell’aspirazione uma- na alla precisione cognitiva, all’efficienza e all’effica- cia dei suoi metodi, fa perdere di vista gli scopi so- ciali per i quali si formano le strutture semantiche e pragmatiche: quelli che Tomasello chiamerebbe i

“saperi condivisi”. Si scontra, infine, con quella in- dissociabilità di semantica e sintassi che proprio gli studi neuroscientifici contemporanei stanno piena- mente dimostrando.

Nella “vecchia” linguistica aristotelica il tema dell’intrinseca e irrinunciabile sintatticità (articola- tezza) dei saperi umani, al contrario, è sempre salda- to a quello di una struttura unitaria che produce sen- si e algoritmi conoscitivi: “scrivibilità, articolazioni specie-specifiche della voce umana, operazioni logi- co-cognitive, anch’esse specie-specifiche, dell’anima umana, sono le tre dimensioni co-originarie che, in- sieme, generano il logos” (Lo Piparo 2003, 99).

Scrivibilità alfabetica, articolazione vocale e composizionalità sintattico-semantica sono, in un certo senso, sinonimi. Sono i modi in cui si intrec- ciano inestricabilmente e inesorabilmente le forme e i contenuti in cui è frammentata l’esperienza uma-

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na. La condanna umana alla specie-specificità lingui- stica dei suoi saperi non consiste solo nella necessità di articolare in parole fatte di suoni (isolabili come le lettere) il dicibile – “nell’impulso imperioso a trova- re un nome per le cose come per le attività” (Lorenz 1973a, 378) – ma anche nel fare in modo che questa articolazione non risulti affatto arbitraria e contenga, incorporandola, la funzione semantica con cui l’uo- mo la usa in scambi intenzionalmente consenzienti con altri conspecifici e in relazione a una sempre più efficace presa sull’ambiente non umano.

1.4. Il pensiero tecnomorfo

La prova più schiacciante di questa singolare condanna è fornita dalla storia dei rapporti fra le tec- nologie litiche e il linguaggio. Sino a 2,5-3 milioni di anni fa gli ominidi non differivano granché dagli altri primati nell’uso di attrezzi. Da allora c’è volu- to un altro milione e mezzo di anni per passare dalle tecnologie olduvaiane a quelle acheuliane, e un altro ancora per arrivare alle tecniche musteriane. Insom- ma, in quasi tre milioni di anni i progressi sono stati davvero minimi. A partire dal Paleolitico superiore lo scenario cambia: in una progressione vertiginosa- mente rapida si succede una quantità impressionan- te di invenzioni e nuovi modi di lavorare i materiali.

Negli ultimi 10.000 anni si passa dalle pietre ai me- talli, dai metalli alle scritture, dalle scritture ai com-

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puter. Quello che non è successo in quasi tre milio- ni di anni, accade in un battito di ciglia della storia evolutiva.

Contemporaneamente le nuove scoperte della paleoarcheologia in relazione alle conoscenze neuro- scientifiche (Renfrew et al. 2009) hanno fatto emer- gere chiaramente che l’avanzare delle tecnologie è collegato ai comportamenti più significativi dell’uo- mo, e cioè al linguaggio, alla capacità simbolica e rappresentazionale, alla teoria della mente, al for- marsi di credenze causali.

L’evoluzione del cervello, quella del linguaggio e quella delle tecnologie si identificano in un unico network neurale specifico dell’uomo. Read e Van der Leeuw (2008), in particolare, hanno mappato i set- te stadi di differenziazione cognitiva del tool making stabiliti nella scala di Read – dalla semplice utilizza- zione senza modificazione di oggetti trovati in natu- ra, alla completa realizzazione di artefatti composti da piani multipli, progettazione ricorsivo-cumulati- va e tridimensionalità – con la scala dei livelli della memoria a breve termine e con quella del quoziente di encefalizzazione dei primati umani e non umani, ottenendo la conferma che solo a partire dagli ultimi 200.000 anni e, soprattutto, negli ultimi 30.000, si è pervenuti al settimo stadio.

Stout et al. (2009) hanno invece lavorato speri- mentalmente per indagare il rapporto tra aree cere- brali e tecnologie litiche. Per far questo si sono servi- ti di soggetti con diverse esperienze e capacità di uso

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delle tecnologie di tool making misurando, attraver- so l’uso della PET, la loro attività cerebrale mentre lavoravano. La misurazione dell’attività cerebrale av- veniva in relazione a compiti sempre più complessi che riflettevano le tecniche litiche cronologicamen- te individuate, dall’olduvaiano al primo e al tardo acheuliano. Le valutazioni partivano dal prodotto fi- nale che era stato realizzato: il target di riferimen- to era il prodotto tipico dell’industria olduvaiana o acheuliana. Le produzioni degli esperti erano molto simili a questi modelli reali.

Questi esperimenti hanno dimostrato come i correlati neurali richiesti dai diversi stadi delle tec- nologie litiche evidenziano una correlazione strettis- sima con le aree del linguaggio o, meglio, con quella complessa unità semimodulare multifunzionale che si focalizza attorno a quel nuovo processore evoluti- vo che è divenuta l’area di Broca, su cui torneremo in chiusura. Una prospettiva simile era già stata indi- viduata da Ambrose (2001) che ha proposto addirit- tura di restringere il lasso temporale di questa iden- tificazione strutturale fra tecnologia e linguaggio agli ultimi 12.000 anni di storia evolutiva. Più di recen- te, a queste ipotesi si sono accostati anche gli etologi che orbitano attorno alle posizioni chomskiane. Un esempio di calcolo generativo elaborato sul dominio dei manufatti calcolando la data di creazione e la di- versità degli strumenti prodotti ha indotto Hauser (2009) a considerare il nesso fra le strutture filogene- tiche e i processi cognitivi di natura ricorsivo-com-

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binatoria come il limite delle determinanti biologi- che specie-specifiche che restringerebbero il campo di ogni possibile forma di cultura umana:

“qualcosa di simile a una rivoluzione genetica deve es- sersi verificata durante il Paleolitico fornendo gli esseri umani di un set di capacità senza precedenti per gene- rare nuove espressioni culturali nel linguaggio, nell’eti- ca, nella musica e nella tecnologia. In particolare, a un certo punto, prima o durante il Paleolitico, il cervello umano è stato trasformato da un sistema dotato di un alto grado di modularità con qualche interfacciamen- to in un sistema di moduli con un complesso, eteroge- neo e combinatoriamente creativo insieme di interfac- ce. Questo sistema ha fornito un framework universa- le di delimitazione delle opzioni culturali realmente re- alizzabili (ib., 193).

Ciò che appare significativo di tutti questi dati è il fatto che linguaggio e tecnologie sono fenomeni cognitivi che tendono a coincidere. In una dimen- sione ontologica ed etologica delle scienze cognitive questo vuol dire, soprattutto, che la lente linguistica con cui l’uomo è costretto a guardare il mondo è una lente che non può impedirgli di stimarne le dimen- sioni, le forme, le analogie strutturali, che lo obbliga a rendere sempre più preciso il rapporto funziona- le (nel senso matematico del termine) con il mondo non umano e con l’ambiente circostante. Il linguag- gio, insomma, coinciderebbe con quel “pensiero tec- nomorfo” (Lorenz 1983, 7) che ci costringe a misu- rare ogni cosa, a spezzettare l’orditura del continuo

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nel puzzle costantemente riorganizzato del discreto.

Il linguaggio-tecnologia ci obbliga alla cumulazione e alla riproducibilità di strutture di conoscenza em- pirica sempre più articolate, dettagliate e semantica- mente definite.

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§ 2. Construens. Appunti neo-naturalistici sul linguaggio

Che la rappresentazione mentale sarebbe quindi sempre linguistica, contrassegnerebbe univocamen- te l’unicità e la superiorità cognitiva dell’uomo, di- stinguerebbe l’evoluzione culturale da quella biolo- gica, potrebbero essere tutti considerati, ormai, re- taggi ideologici del secolo antropocentrico che ab- biamo appena lasciato.

Il linguaggio, lungi dall’essere l’unica forma di cognizione possibile, resta tuttavia, un mistero filo- sofico e fisiologico tuttora impenetrabile, nonostan- te i decisivi progressi compiuti con le neuroscienze e le altre scienze cognitive del linguaggio.

Di certo, abbiamo sin qui potuto osservare, che esso condiziona inesorabilmente l’ontologia uma- na: l’animale-uomo non potrebbe essere cognitiva- mente diverso da com’è perché ogni sua percezio- ne, evento conoscitivo, esperienza, atto motorio, esi- stono solo nella misura in cui diventano nodi di una indefinitamente estesa rete di rappresentazioni lin- guistiche. Per quanto ancora si studi a fondo la co- gnizione animale, non è dato neanche di immagina- re che questa coazione a categorizzare, semantizzare, proposizionalizzare ogni evento sia un procedimen- to riscontrabile in altre specie. La natura tecnomorfa del linguaggio umano costituisce, quindi, la struttu- ra cognitivo-ontologica di fondo con cui dovrà fare i

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conti chi vuole spiegare non più attraverso le “favo- le vere” con cui Gianvincenzo Gravina amava qua- lificare le affascinanti ipotesi filosofiche sulla natu- ra, ma attraverso un metodo empirico-sperimentale i fondamenti biologici del linguaggio.

In questa parte del lavoro cercheremo quindi di schizzare in positivo una breve sintesi delle cono- scenze naturalistiche sinora accumulate sul linguag- gio umano, reinterpretandole alla luce delle discipli- ne che hanno rivoluzionato le impostazioni antropo- centriche del secolo scorso. Nient’altro che un bloc- co di appunti neo-naturalistici per cercare di rico- struire un’ipotesi probabilmente meno consolatoria ma forse più veritiera di come sia e di cosa possa pro- vocare la vera natura del linguaggio umano.

2.1. Cosa ci accomuna ai primati non-umani

In Geni, popoli e lingue (1996) Cavalli-Sforza ha contribuito a dimostrare che il diversificarsi dei trat- ti antropogenetici e il parallelo ramificarsi dei tratti linguistici non sono altro che elementi di variazione superficiale dell’identità allo stesso tempo biologica e culturale del sapiens: un’unica specie ubiquitaria con una vocazione dedicata all’espansione migrato- ria e alla diversificazione linguistico-culturale.

L’analogia tra geni e lingua può essere di grande aiuto per chiarire gli equivoci su cui si è sempre fon-

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data l’artificiosa contrapposizione fra natura e cul- tura. Per esempio il fatto che l’evoluzione biologi- ca sia più lenta di quella culturale è una sorta di il- lusione ottica, dovuta alla confusione che esiste tra i termini lingua/e e linguaggio, tra variazioni storiche e funzione generativa della faculté de langage. Certo quest’ultima ha una storia evolutiva lunghissima e graduale almeno quanto quella dei primati. Per rico- struirla dobbiamo inevitabilmente attraversare i pas- saggi critici del bipedismo, dell’accrescimento del- le capacità craniche e delle trasformazioni cerebra- li, della discesa della laringe e dell’assestamento del tratto vocale e, soprattutto, di tutti i processi esat- tativi (usi sociali, funzionalizzazioni specifiche, ecc.) che sono scaturiti a tutti i livelli da queste variazioni strutturali e dalla loro lentissima metabolizzazione.

D’altro canto, sia nella sua fase di incubazione che in quella di conclamazione questa facoltà ha genera- to prodotti: articolazioni vocali di varia complessità, dai primi grugniti ai quarantamila dialetti e lingue odierne. Se chiamassimo “lingue” tutte queste varia- zioni funzionali i tempi biologici e quelli culturali coinciderebbero.

Non diverso sarebbe il problema anche se par- tissimo dagli effetti ecologici del rapporto struttu- re-funzioni prodotti da un’unica evoluzione (quel- la biologica). In questo caso è certo che l’evoluzio- ne culturale sembrerebbe volare: dal momento in cui la lenta trasformazione delle strutture si stabi- lizza in un meccanismo cognitivo adatto non solo

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alla trasmissione ma anche alla formalizzazione e alla conservazione delle conoscenze, i vantaggi adattati- vi che ne scaturiscono sembrano, infatti, moltipli- carsi a dismisura. Questa accelerazione è dovuta tut- tavia al maturare di quelle condizioni strutturali (si- nergie morfologiche) che, sebbene siano derivate da un lungo percorso evolutivo non finalizzato all’evo- luzione culturale, di fatto imprimono a quest’ultima una svolta che può apparire come un salto (cogniti- vo, tecnologico ecc.).

In qualsiasi caso non è possibile uscire fuori dal circolo unitario natura-cultura:

“si può dire – scrive Cavalli-Sforza – che la cultura sia un meccanismo biologico, in quanto dipende da orga- ni, come le mani per fare gli strumenti, la laringe per parlare, le orecchie per udire, il cervello per capire, ecc.

che ci permettono di comunicare tra di noi, di inven- tare e di costruire nuove macchine capaci di esercitare funzioni utili e speciali, di fare tutto quel che è necessa- rio, desiderato e possibile. Ma è un meccanismo dotato di grande flessibilità che ci permette di applicare qua- lunque idea utile ci venga in mente, e sviluppare solu- zioni per i problemi che nascono di volta in volta” (Ca- valli-Sforza 2004, 78).

Le resistenze a rinunciare al comodo inganno della dicotomia natura/cultura sono, tuttavia, nu- merose. Quella più frequente è fondata sulla tipolo- gia della trasmissione delle informazioni: quelle “na- turali” si trasmetterebbero per via genetica mentre quelle “culturali” per via diretta. Verità lapalissiana,

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che tuttavia restringe il termine “natura” all’ambi- to della genetica e il termine “cultura” a quello delle scienze sociali. Questa restrizione obbliga a postula- re una doppia sostanza: una materiale (i geni) e una immateriale (le idee, la conoscenza, il capitale cultu- rale e così via). Ma potrebbero le idee (e quindi la co- noscenza, le tradizioni, ecc.) esistere senza i soggetti che le hanno per primi formulate? E questi sogget- ti avrebbero potuto formularle nella forma in cui lo hanno fatto se non avessero avuto un sistema organi- co (senso-motorio, cerebrale, cognitivo) fatto in uno specifico modo?

Si tratta quindi di un vestito ideologico impro- babile costruito a misura di tutte le scorciatoie filo- sofiche dualistiche. Di fatto non c’è alcuna necessi- tà di considerare naturale solo ciò che è trasmissibi- le geneticamente e culturale tutto il resto. Qualsia- si prassi che non si trasmette per via ereditaria è na- turale quanto qualsiasi tratto passato dai nostri geni ai geni dei nostri figli. Non esistono, infatti, passag- gi immateriali. Sia i processi imitativi, spontanei o indotti, sia l’istruzione esplicitamente impartita dai genitori o da altri conspecifici seguono proprie spe- cifiche vie di conduzione e necessitano di appara- ti corporei in grado di produrre e ricevere le infor- mazioni. La percentuale tra le informazioni veicola- te dalla struttura filogenetica e quelle ricapitolate a ogni ripartenza ontogenetica può variare in una cer- ta misura da specie a specie, ma tutte le specie natu- rali – quindi tutte le specie animali – acquisiscono

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e trasmettono dati ai propri conspecifici utilizzan- do sempre specifiche procedure: in biologia è cultu- ra qualunque meccanismo che consenta acquisizione di informazione da membri della propria specie at- traverso sistemi sociali in grado di dar luogo a com- portamenti.

Balene che apprendono dialetti diversi dal pro- prio, macachi che imparano dai conspecifici a lava- re le patate, uccelli della stessa specie che cantano in maniera diversa secondo il luogo in cui vivono, non sono molto diversi dai bambini che imparano a scri- vere grazie alle istruzioni impartite da un insegnante.

Il fatto che le procedure messe in atto per trasmet- tere, direttamente o indirettamente, le informazioni ai propri conspecifici, possano variare per quantità, complessità, organizzazione, sistematicità, strutture sociali dei gruppi ecc., non intacca per nulla il prin- cipio della naturalità della cultura: anche le procedu- re più complesse restano interamente naturali. Sono risorse biologiche che variano solo per complessità e grado di efficienza comunicativa. La cultura del sa- piens è certamente la più complessa tra tutte quelle appartenenti al regno animale.

Da che cosa dipende questa indiscussa comples- sità della cultura umana? Tra le tante risposte che sono state date a questo interrogativo centrale per tutte le scienze della natura contemporanee ne pos- siamo sintetizzare almeno tre: 1) dall’evoluzione del- le strutture corporee e, in particolare, dalla dimen- sione e dall’architettura del sistema cerebrale dell’uo-

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mo; 2) dalla natura e dallo sviluppo della sua confi- gurazione sociale; 3) dalle sue capacità comunicative e, quindi, dalla facoltà di linguaggio.

In una prospettiva naturalistica queste tre ragio- ni appaiono comprensibili solo all’interno di un’ot- tica unitaria. Si tratta, infatti, di elementi tutti in- terni alla configurazione etologica complessiva della specie biologica Homo sapiens. Si tratta, tuttavia, di una configurazione che appare connessa e del tutto integrata nella storia evolutiva dei primati. Le strut- ture anatomiche e cerebrali e i comportamenti co- gnitivi, sociali e culturali umani presentano, infat- ti, straordinarie somiglianze con i pregi e i difetti dei nostri cugini zoologici più prossimi.

2.1.1. Mirror-neuron-system

La somiglianza più impressionante – perché promana direttamente e senza mediazione dalle re- mote profondità del cervello – è la presenza di strut- ture neurali specifiche che stanno a fondamento dei comportamenti intersoggettivi e sociali: i neuroni- specchio3. Si tratta, com’è noto, di popolazioni di neuroni motori delle scimmie, collocate soprattut- to nell’area F5, ma presenti anche nel lobo parietale posteriore (aree 7B o PF), che si attivano sia quando un soggetto esegue con la mano azioni dirette a uno scopo, sia quando osserva lo stesso tipo di azioni ese- guite da altri individui (conspecifici o umani). Affin-

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ché si verifichi la scarica neuronale non basta l’esibi- zione di oggetti (per esempio mostrare frutta, basto- ni, fogli di carta ecc.) ma è indispensabile realizza- re o veder realizzare l’interazione tra mano e oggetto (afferrare un frutto, stringere un bastone, strappare la carta ecc.).

L’importanza cognitiva della coincidenza neuro- fisiologica fra il comportamento attivo (fare un azio- ne) e quello passivo (veder fare un azione) è dovuta al suo carattere simulativo. Simulazione incarnata (Gal- lese, 2006) è l’espressione usata dagli studiosi per in- dividuare i comportamenti cognitivi che rispecchia- no quelli degli altri. Questo rispecchiamento può ri- guardare una gamma diversificata di atti: dalla con- sonanza emotiva (provare allegria o disgusto se l’al- tro prova allegria o disgusto, sbadigliare se l’altro sba- diglia ecc.), sino ad arrivare, nella formulazione più estrema, alla consonanza logico-deduttiva (la cosid- detta “Teoria della mente”), per cui un soggetto sa- rebbe in grado di prevedere o “leggere” il ragiona- mento dell’individuo che gli sta davanti (perché sa- rebbe simile a quello che lui stesso farebbe).

Forse non sarà l’omologo del DNA in geneti- ca, come ha suggerito Ramachandran (2001), ma allo stato attuale un così preciso marker cerebrale di specialità cognitiva dei primati come i neuroni- specchio non ha eguali nel panorama neuroscienti- fico. Tuttavia, da qui a identificare i mirror-neurons come il requisito fondamentale della intersoggetti- vità, dei comportamenti sociali e culturali e, addi-

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rittura, dell’intelligenza e della comprensione dialo- gica, la strada è davvero tanto lunga da sembrare, a tutt’oggi, impercorribile per molti motivi.

Innanzitutto perché, se fosse vera la relazione tra la presenza di neuroni-specchio e comportamen- ti diagnosticabili come biologicamente culturali, la cultura sarebbe una faccenda esclusiva dei primati.

Al contrario, come hanno osservato molti etologi, i comportamenti culturali, fondati sull’imitazione, sul social learning e sulle cure parentali sono diffu- si non solo nei mammiferi ma in tutte le specie ani- mali, invertebrati compresi. I cefalopodi, per esem- pio, che non sono neanche animali “sociali”, sono in grado di imitare i conspecifici e imparare da essi4. Uccelli, rettili, anfibi, pesci e persino insetti (Franks e Richardson 2006) mostrano precise forme di “in- segnamento” ai conspecifici. Secondo Tim Caro e Marc Hauser (1992) un comportamento di esplici- ta trasmissione culturale di informazioni può esse- re considerato tale solo se: è esibito davanti a indivi- dui che certamente non conoscono quel comporta- mento; è “disinteressato”, cioè costituisce una fatica senza immediata ricompensa; rende davvero possi- bile un guadagno di conoscenze per il soggetto a cui l’insegnamento è rivolto. Se si applicano coerente- mente queste regole alle etologie animali, quasi tut- ti i comportamenti genitoriali dovrebbero essere in- dubitabilmente considerati comportamenti cultura- li, indipendentemente dalla presenza di un mirror- neuron-system.

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Analoghe considerazioni valgono per tutti i li- velli della scala cognitiva. È difficile mettere in dub- bio l’intersoggettività dei comportamenti empatici nei mammiferi e negli uccelli: la sola letteratura sul- la fenomenologia del gioco negli animali occupereb- be diverse pagine di citazioni. Le strutture emozio- nali e quindi la condivisione di sentimenti ancestrali come la paura, la rabbia, l’appagamento sono, come aveva già suggerito Darwin sin dall’inizio della teoria dell’evoluzione, il sostrato più antico della cognizio- ne, non il risultato di strutture dedicate delle specie animali più recenti.

Infine non c’è alcun motivo di credere che la conclamata esistenza di un network neurofisiologico specifico per i comportamenti imitativi debba com- portare la contemporanea inesistenza dei network che regolano i processi di categorizzazione, simbo- lizzazione, rappresentazione, interpretazione, gerar- chizzazione e organizzazione dei sistemi cognitivi su- periori, e non solo nei primati e negli uomini. Non c’è dubbio che i mirror-neuron-systems autorizzino a supporre “l’esistenza di un livello di base (sic) delle nostre relazioni interpersonali che non prevede l’u- so esplicito di atteggiamenti proposizionali” (Gallese 2003, 42). Ma non crediamo possa essere messo ra- gionevolmente in discussione che questo livello basi- co della cognizione non possa direttamente spiegare le concatenazioni proposizionali, sintattiche, seman- tiche di cui sono fatti i ragionamenti che portano certamente gli umani e, probabilmente, i primati, e,

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comunque, tutti gli altri animali culturali non total- mente stenotopici, a competere per la sopravvivenza.

2.1.2. Dall’imitazione all’aggressività

I processi di imitazione, l’intersoggettività, la consonanza empatica, la organizzazione e la strut- turazione dei gruppi di conspecifici, le cure paren- tali e l’istruzione diretta dei figli, la cooperazione e l’altruismo selettivo, insomma, le modalità del social learning, costituiscono il secondo elemento di gran- de rassomiglianza tra umani e scimmie. La presenza di una comune struttura neurale come il mirror-neu- ron-system pone i primati superiori su un livello bio- logicamente più elevato della trasmissione cultura- le. Non solo, infatti, le piccole scimmie sono esposte all’osservazione del comportamento dei conspecifici adulti e, quindi, attratte dall’uso di artefatti o stru- menti da questi utilizzati (tool use) anche senza ini- zialmente comprenderne lo scopo, ma in più posso- no riprodurre il comportamento degli adulti auto- maticamente guidati da una specializzazione adatta- tiva filogeneticamente predisposta.

Il nesso tra la predisposizione filogenetica di una struttura dedicata alla trasmissione culturale e la più generale complessità dell’architettura cerebra- le dovuta all’evoluzione corporea complessiva spiega la grande variazione culturale che si osserva nei pri- mati.

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Com’è noto da una ormai copiosa letteratura sviluppata sperimentalmente e sul campo da ricerca- tori quali Goodal, de Waal, Boesch, Withen, Biro, Mc Grew, Tomasello, Matsusawa, infatti, i compor- tamenti culturali dei primati variano molto territo- rialmente: per esempio, nella scelta dei cibi, nei se- gnali usati per comunicare, nel tipo di materiali im- piegati per produrre attrezzi, nel modo di maneg- giarli, negli scopi raggiunti e così via. Di fatto – in un panorama generale di adattamenti culturali di natura territoriale che interessa quasi tutte le specie animali – tra i primati e gli uccelli si contano certa- mente le specie più variabili. Strutture cognitive de- dicate all’intersoggettività (complessi neurocerebra- li + sistemi innati di comunicazione) permettono o, comunque, generano un maggior sviluppo del fra- zionamento culturale.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensa- re l’universalità della struttura è la migliore garanzia della flessibilità della cultura. Come vedremo in se- guito, non sempre questo nesso fra strutture dedica- te e variabilità culturale dà tuttavia luogo a processi canonicamente adattativi: in casi particolari – nella fattispecie quelli dominati da una situazione di im- possibilità speciativa come quello umano – può anzi produrre l’effetto opposto. Il caso delle lingue sto- rico-naturali è l’esempio più lampante. Mentre, in- fatti, non è praticamente possibile nel nostro mon- do immaginare un isolamento di popolazioni uma- ne tanto duraturo da produrre incremento di varia-

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bilità nel pool genico, bastano invece poche centina- ia di anni di separazione tra gruppi di conspecifici per produrre lingue diverse e ormai reciprocamen- te irriconoscibili. Da questo punto di vista le lingue ostacolano più che agevolare la trasmissione cultu- rale: “la differenziazione linguistica tende a ridurre gli scambi culturali e ad aumentare le differenze tra i gruppi” (Cavalli-Sforza 2004, 79).

L’avvio di quel complesso processo che l’etolo- gia ha chiamato “pseudospeciazione culturale” e che riguarda esclusivamente Homo sapiens affonda le ra- dici proprio in questo intricato nesso tra naturali- tà biologica e naturalità culturale. In particolare in un altro “precedente” evolutivo che collega prima- ti umani e non umani e che consiste nella tendenza a violare una regola pressoché universale: la ritualiz- zazione dei comportamenti aggressivi intraspecifici.

Sappiamo infatti dalle fondamentali opere dell’etologia lorenziana (Lorenz 1963; 1973a) e, so- prattutto, dalla formalizzazione teorica proposta da Eibl-Eibesfeldt (1970; 1975) che l’aggressività intra- specifica (cioè all’interno di una medesima popola- zione geneticamente ed ecologicamente definita) è un meccanismo di autoregolazione interno a qual- siasi comunità a riproduzione sessuata. Da questo punto di vista è possibile definire la specie come il più vasto insieme di individui in grado di compete- re tra di loro per l’accesso ad un medesimo insieme di risorse riproduttive (Minelli 2007). L’inesorabili- tà della competizione sessuale, connessa alla neces-

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sità di riprodursi, comporta una rigorosa delimita- zione dei principi di antagonismo, pena la disinte- grazione dei gruppi medesimi e il loro indebolimen- to progressivo nello scenario della selezione natura- le. Se, in parole povere, tutti i maschi che competo- no per il predominio sessuale di un gruppo di con- specifici fossero materialmente “fatti fuori” dall’uni- co vincitore, il gruppo intero risulterebbe struttural- mente fragile e potenzialmente soggetto a un rapido processo di estinzione.

È questa la ragione naturale per cui quasi tutti i gruppi di animali sociali adottano quella che è sta- ta chiamata una “ritualizzazione” dei comportamenti aggressivi neurofisiologicamente innescati, in tutte le specie, dal sistema endocrino e dal nucleo più primi- tivo dell’encefalo: il paleocervello rettiliano. La ritua- lizzazione comporta una forte stereotipizzazione del- le azioni, con artificiosa enfasi dei movimenti e una loro sistematica ed esagerata amplificazione5. Si pensi ai combattimenti tra i lupi: tutto si risolve nella pan- tomima ritualizzata del comportamento aggressivo a cui si uniformano, sottomettendosi e accettando la sottomissione e riconoscendole come autentiche nor- me simboliche, sia il vinto che il vincitore.

L’animale umano è l’unico che viola tanto spes- so questa regola da rischiare di trasformare la ritua- lizzazione dei comportamenti aggressivi nell’eccezio- ne. Anche questa peculiarità della natura culturale umana, tuttavia, è un retaggio di quella dei primati.

La tenera immagine dei cuccioli di scimpanzé stret-

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ti al corpo della madre, il mito della dolcezza e del- la bontà di quella specie dagli occhi liquidi che ac- compagna da sempre l’uomo, ha spesso condiziona- to il giudizio sull’aggressività dei primati non uma- ni. Genocidi a parte, invece, gli scimpanzé uccido- no e torturano sia individui di altre specie sia mem- bri della propria specie e persino della propria tribù, esattamente come gli umani uccidono e torturano i propri conspecifici.

La mole di dati osservativi che si è accumula- ta in questi ultimi vent’anni su questo fenomeno è impressionante e ha rivelato aspetti sconcertanti del mondo dei primati non umani. Al di sopra di ogni sospetto primeggiano le osservazioni dei massimi pionieri della primatologia sul campo: le testimo- nianze di Frans De Waal e Jane Goodall sugli scim- panzé del parco nazionale di Gombe in Tanzania.

L’abitudine alla presenza umana ha qui determinato comportamenti peculiari come i rapimenti di piccoli umani che gli scimpanzé organizzano per nutrirsene.

Nel vicino Uganda il kidnapping degli scimpanzé av- viene persino dentro le case degli umani ed è ormai divenuto un problema di criminalità sociale ende- mica. Nei confronti dei propri conspecifici gli scim- panzé sembrano mostrare atteggiamenti aggressivi talmente organizzati da spingere la Goodall a credere che le diverse tribù coordinino le loro azioni a livello intenzionale e premeditato. Gli assalitori effettuano veri e propri raid contro i conspecifici-vittime isola- ti: le modalità dell’agguato evidenziano un’esibizio-

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ne di crudeltà talmente efferata da rasentare la vo- lontà di costituire un “avvertimento” per i “nemici”, tanto è vero che a distanza di settimane gli aggressori ritornano sulla scena del delitto che li ha visti tortu- rare le vittime per constatare l’efficacia del loro com- portamento sul piano della deterrenza nei confron- ti di tutte le altre tribù concorrenti (De Waal 2005).

Molti altri studi hanno arricchito il quadro del com- portamento aggressivo dei primati non umani rive- landoci ulteriori somiglianze con le modalità dell’ag- gressione intraspecifica umana. Violentare le femmi- ne (forced copulations), per esempio, è prassi frequen- te non solo tra gli scimpanzé, ma anche tra i goril- la e gli oranghi6. Con la stessa frequenza si manifesta l’omicidio intraspecifico per gelosia tra le amadria- di, i babbuini e i macachi (Ellis 1998). Una questio- ne di particolare interesse è costituita dalla frequen- za dell’infanticidio7. Specialista nell’uccidere i picco- li dei propri conspecifici è il Gelada Baboon, un bab- buino etiope dai grandi harem (ib.). Infanticidi sono stati riscontrati anche presso i macachi8, lo Hanu- man Langur (Fairbanks 1993), le femmine di scim- panzé che uccidono piccoli di altre femmine di scim- panzé9. In generale l’omicidio intenzionale dei pic- coli della propria specie è stato documentato in cin- que delle sei famiglie di primati, con la sola eccezio- ne dei Tarsidi (Smith 2005).

Ciò che, in sintesi, sembra emergere da questo insieme di ricerche è il progressivo distacco dei pri- mati dai tradizionali moduli etologici dell’aggressivi-

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tà: uccidere per le scimmie umane e non umane non è un fatto obbligatoriamente connesso agli istinti vitali della sopravvivenza (Rogers e Kaplan 2004).

Contrariamente a quanto si credeva negli anni Set- tanta (Fromm 1973), i primati aggrediscono non solo per difendersi, nutrirsi o accoppiarsi, ma anche per circoscrivere il territorio, stabilire domini di pos- sesso su beni e risorse, mantenere stabili le strutture sociali e le gerarchie dei gruppi. Forse anche solo per il “naturale” piacere “culturale” di uccidere.

2.1.3. Le strutture filogenetiche della comunicazione

Come vedremo in 2.2.4. un ulteriore elemen- to di importante affinità fisiologica tra primati uma- ni e non umani è costituito dal sistema della perce- zione uditiva. Questo fondamento naturale così im- portante non deve tuttavia fuorviare la ricerca sulla natura del linguaggio umano, neppure dal punto di vista strettamente anatomico. Non c’è dubbio, infat- ti, che fra le tante somiglianze tra uomini e scimmie una differenza spicca indiscussa su tutte le altre: le scimmie non parlano come fanno gli uomini.

A scanso di equivoci intendiamo qui con il ter- mine “parlare” l’emissione di suoni articolati modu- lati attraverso l’apparato fonatorio e regolati da pre- cise regioni cerebrali. Come sappiamo dai tanti lavo- ri di Philip Lieberman, infatti, la particolare strut-

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tura anatomica del congegno vocale umano (il trat- to vocale ricurvo a due canne, con la laringe perma- nentemente in posizione abbassata) è tra i mammi- feri l’unica capace di produrre una modulazione fine del suono. Come, infatti, vedremo meglio in segui- to, sebbene diverse altre specie di mammiferi riesca- no ad abbassare la laringe per produrre suoni con frequenze formantiche nessuna di queste specie può mantenere stabilmente quella posizione10. A livello cerebrale, inoltre, l’estensione, la collocazione e le funzionalità dell’area di Broca e di quella di Wer- nicke – e, più in generale, la specifica architettura del “doppio network del linguaggio” (Pennisi 2006) corticale e subcorticale – non sembrano riscontrarsi nei primati non umani o in altri mammiferi.

Dal punto di vista articolatorio le uniche spe- cie che si avvicinano alle performances umane sono quelle che appartengono agli uccelli, sia a livello dei correlati periferici del linguaggio, sia a quello del- la localizzazione cerebrale. Non si tratta, tuttavia, di una somiglianza dovuta a un rapporto di filiazio- ne evolutiva, bensì di un più semplice fenomeno di

“evoluzione convergente”: montaggi analoghi di kit di attrezzi diversi per scopi simili, diremmo con l’e- vo-devo. Tutto ciò non vuol certo significare che il sistema cognitivo degli uccelli, i loro comportamen- ti intellettivi, le loro abitudini sociali e culturali sia- no più simili a quelli umani di quanto risultino es- sere quelli dei primati non umani. Nell’uomo, come negli animali non umani, esiste una forte compo-

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