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I limiti cognitivi del linguaggio

Una conseguenza immediata e, forse, filosofi-camente imprevista della metabolizzazione teorica della specie-specificità tecnica del linguaggio uma-no è l’accettazione del carattere ontologicamente vincolante della sua struttura fisiologica. Una pro-iezione automatica della filosofia linguistica ari-stotelica implica, infatti, una riduzione dei margi-ni dell’euritopicità lorenziana attribuita all’uomo:

“l’uomo non sceglie il linguaggio. A partire dal mo-mento in cui comincia a parlare non è più libero di fare a meno del linguaggio o di prenderne le di-stanze” (Lo Piparo 2003, 3). Il linguaggio, quindi, non è più quella fonte di illimitata creatività del-lo spirito umano, quel contrassegno della sua in-discussa superiorità cognitiva sulle altre specie ani-mali che era stata amplificata nel corso del Nove-cento: è, al contrario, un sistema di vincoli e limiti che circoscrivono e specializzano l’attività cogniti-va umana.

Mentre sul piano della struttura fisiologica i vincoli del linguaggio cominciano ad essere indivi-duati con sufficiente precisione dai diversi settori del neo-naturalismo linguistico su cui torneremo nella seconda parte del lavoro, non è altrettanto chiaro in che modo si rispecchino sul piano cognitivo.

È Antonio Damasio – uno dei critici più decisi della concezione linguistica della coscienza – a mo-strare più chiaramente di tanti altri la precisa

consa-pevolezza della natura coattiva della cognizione lin-guistica:

“il cervello umano genera automaticamente una versio-ne verbale delle storie visive. Non ho modo di impedi-re questa traduzione e neanche voi potete farlo. Qua-le che sia la musica nelQua-le tracce non verbali della nostra mente, viene rapidamente tradotta in parole e frasi. Fa parte della natura dell’essere umano, la creatura che ha il dono del linguaggio. Probabilmente è da questa irre-primibile traduzione verbale, dal fatto che anche il co-noscere e il sé nucleare diventano verbalmente presenti nella mente prima del momento in cui di solito ci con-centriamo su di loro, che trae origine l’idea di spiegare la coscienza in base al solo linguaggio. A giudizio di ta-luni la coscienza si presenta quando, e soltanto quando, il linguaggio commenta la situazione mentale per noi.

(...) Tale idea impone una visione della coscienza per la quale soltanto gli esseri umani con una notevole pa-dronanza dello strumento linguistico possono avere sta-ti cosciensta-ti. Gli animali privi di linguaggio e i neonasta-ti umani sarebbero semplicemente sfortunati, condannati all’eterna incoscienza” (1999, 224).

Se prescindiamo dalle discutibili conclusioni – perché mai se nell’uomo le forme della coscienza de-rivassero dal linguaggio anche le forme della coscien-za animale dovrebbero dipendere dal linguaggio? – nessuno avrebbe potuto esprimere meglio la condi-zione etologica di delimitacondi-zione conoscitiva, di spe-cie-specificità in senso tecnico del linguaggio umano.

D’altro canto, i modelli teorici della linguistica contemporanea hanno lasciato molto spazio a

que-sto genere di posizioni, rivelandosi refrattari a spie-gare i vincoli bio-cognitivi del linguaggio. Per esem-pio lo strutturalismo, con cui si suole far coincidere l’avvio della linguistica moderna, mentre ha svisce-rato in profondità l’universo descrittivo delle forme linguistiche già date, non è mai stato sfiorato dall’i-dea di intercettare il rapporto vincolante fra struttu-ra fisiologica e cognizione linguistica nel farsi delle sue forme. Da questo punto di vista le strutture lin-guistiche, in quanto “semiotiche”, al pari di tutte le altre strutture convenzionali, non sono altro che si-stemi culturali autosufficienti che possono solo esse-re descritti e mai spiegati.

È stato il grande merito della linguistica chomskiana l’aver iniziato a riflettere su quale spe-cifico tipo di cognizione sia la cognizione linguisti-ca. E in effetti, come abbiamo visto prima, Chom-sky ha definito il linguaggio come una forma sui ge-neris di conoscenza ma lasciando solo sullo sfondo la dimensione biologico-strutturale del suo studio e approfondendo esclusivamente le proprietà formali delle grammatiche, con relativa separazione tra sin-tassi e semantica. Insomma, il limite di fondo dell’e-ra chomskiana è stata l’autarchia del suo mentali-smo, l’idea espressa in Regole e rappresentazioni, se-condo cui “quando ci volgiamo alle strutture cogni-tive o ai meccanismi fisici che sottostano ad esse”

non dobbiamo far altro che “trasferire il problema dal livello psicologico a quello biologico” (1980, 369).

È proprio questo passaggio, al contrario, a rive-larsi intricato e problematico, pur restando inomet-tibile per una ridefinizione della cognizione lingui-stica umana: non è sufficiente, infatti, considerare la ricorsività delle procedure sintattiche una risposta globale alla ricerca della sua specie-specificità. Fissar-si sulla natura formale di queste procedure, sebbene colga un aspetto fondamentale dell’aspirazione uma-na alla precisione cognitiva, all’efficienza e all’effica-cia dei suoi metodi, fa perdere di vista gli scopi so-ciali per i quali si formano le strutture semantiche e pragmatiche: quelli che Tomasello chiamerebbe i

“saperi condivisi”. Si scontra, infine, con quella in-dissociabilità di semantica e sintassi che proprio gli studi neuroscientifici contemporanei stanno piena-mente dimostrando.

Nella “vecchia” linguistica aristotelica il tema dell’intrinseca e irrinunciabile sintatticità (articola-tezza) dei saperi umani, al contrario, è sempre salda-to a quello di una struttura unitaria che produce sen-si e algoritmi conoscitivi: “scrivibilità, articolazioni specie-specifiche della voce umana, operazioni logi-co-cognitive, anch’esse specie-specifiche, dell’anima umana, sono le tre dimensioni co-originarie che, in-sieme, generano il logos” (Lo Piparo 2003, 99).

Scrivibilità alfabetica, articolazione vocale e composizionalità sintattico-semantica sono, in un certo senso, sinonimi. Sono i modi in cui si intrec-ciano inestricabilmente e inesorabilmente le forme e i contenuti in cui è frammentata l’esperienza

uma-na. La condanna umana alla specie-specificità lingui-stica dei suoi saperi non consiste solo nella necessità di articolare in parole fatte di suoni (isolabili come le lettere) il dicibile – “nell’impulso imperioso a trova-re un nome per le cose come per le attività” (Lotrova-renz 1973a, 378) – ma anche nel fare in modo che questa articolazione non risulti affatto arbitraria e contenga, incorporandola, la funzione semantica con cui l’uo-mo la usa in scambi intenzionalmente consenzienti con altri conspecifici e in relazione a una sempre più efficace presa sull’ambiente non umano.

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