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Il pensiero tecnomorfo

La prova più schiacciante di questa singolare condanna è fornita dalla storia dei rapporti fra le tec-nologie litiche e il linguaggio. Sino a 2,5-3 milioni di anni fa gli ominidi non differivano granché dagli altri primati nell’uso di attrezzi. Da allora c’è volu-to un altro milione e mezzo di anni per passare dalle tecnologie olduvaiane a quelle acheuliane, e un altro ancora per arrivare alle tecniche musteriane. Insom-ma, in quasi tre milioni di anni i progressi sono stati davvero minimi. A partire dal Paleolitico superiore lo scenario cambia: in una progressione vertiginosa-mente rapida si succede una quantità impressionan-te di invenzioni e nuovi modi di lavorare i maimpressionan-teriali.

Negli ultimi 10.000 anni si passa dalle pietre ai me-talli, dai metalli alle scritture, dalle scritture ai

com-puter. Quello che non è successo in quasi tre milio-ni di anmilio-ni, accade in un battito di ciglia della storia evolutiva.

Contemporaneamente le nuove scoperte della paleoarcheologia in relazione alle conoscenze neuro-scientifiche (Renfrew et al. 2009) hanno fatto emer-gere chiaramente che l’avanzare delle tecnologie è collegato ai comportamenti più significativi dell’uo-mo, e cioè al linguaggio, alla capacità simbolica e rappresentazionale, alla teoria della mente, al for-marsi di credenze causali.

L’evoluzione del cervello, quella del linguaggio e quella delle tecnologie si identificano in un unico network neurale specifico dell’uomo. Read e Van der Leeuw (2008), in particolare, hanno mappato i set-te stadi di differenziazione cognitiva del tool making stabiliti nella scala di Read – dalla semplice utilizza-zione senza modificautilizza-zione di oggetti trovati in natu-ra, alla completa realizzazione di artefatti composti da piani multipli, progettazione ricorsivo-cumulati-va e tridimensionalità – con la scala dei livelli della memoria a breve termine e con quella del quoziente di encefalizzazione dei primati umani e non umani, ottenendo la conferma che solo a partire dagli ultimi 200.000 anni e, soprattutto, negli ultimi 30.000, si è pervenuti al settimo stadio.

Stout et al. (2009) hanno invece lavorato speri-mentalmente per indagare il rapporto tra aree cere-brali e tecnologie litiche. Per far questo si sono servi-ti di soggetservi-ti con diverse esperienze e capacità di uso

delle tecnologie di tool making misurando, attraver-so l’uattraver-so della PET, la loro attività cerebrale mentre lavoravano. La misurazione dell’attività cerebrale av-veniva in relazione a compiti sempre più complessi che riflettevano le tecniche litiche cronologicamen-te individuacronologicamen-te, dall’olduvaiano al primo e al tardo acheuliano. Le valutazioni partivano dal prodotto fi-nale che era stato realizzato: il target di riferimen-to era il prodotriferimen-to tipico dell’industria olduvaiana o acheuliana. Le produzioni degli esperti erano molto simili a questi modelli reali.

Questi esperimenti hanno dimostrato come i correlati neurali richiesti dai diversi stadi delle tec-nologie litiche evidenziano una correlazione strettis-sima con le aree del linguaggio o, meglio, con quella complessa unità semimodulare multifunzionale che si focalizza attorno a quel nuovo processore evoluti-vo che è divenuta l’area di Broca, su cui torneremo in chiusura. Una prospettiva simile era già stata indi-viduata da Ambrose (2001) che ha proposto addirit-tura di restringere il lasso temporale di questa iden-tificazione strutturale fra tecnologia e linguaggio agli ultimi 12.000 anni di storia evolutiva. Più di recen-te, a queste ipotesi si sono accostati anche gli etologi che orbitano attorno alle posizioni chomskiane. Un esempio di calcolo generativo elaborato sul dominio dei manufatti calcolando la data di creazione e la di-versità degli strumenti prodotti ha indotto Hauser (2009) a considerare il nesso fra le strutture filogene-tiche e i processi cognitivi di natura

ricorsivo-com-binatoria come il limite delle determinanti biologi-che specie-specifibiologi-che biologi-che restringerebbero il campo di ogni possibile forma di cultura umana:

“qualcosa di simile a una rivoluzione genetica deve es-sersi verificata durante il Paleolitico fornendo gli esseri umani di un set di capacità senza precedenti per gene-rare nuove espressioni culturali nel linguaggio, nell’eti-ca, nella musica e nella tecnologia. In particolare, a un certo punto, prima o durante il Paleolitico, il cervello umano è stato trasformato da un sistema dotato di un alto grado di modularità con qualche interfacciamen-to in un sistema di moduli con un complesso, eteroge-neo e combinatoriamente creativo insieme di interfac-ce. Questo sistema ha fornito un framework universa-le di delimitazione deluniversa-le opzioni culturali realmente re-alizzabili (ib., 193).

Ciò che appare significativo di tutti questi dati è il fatto che linguaggio e tecnologie sono fenomeni cognitivi che tendono a coincidere. In una dimen-sione ontologica ed etologica delle scienze cognitive questo vuol dire, soprattutto, che la lente linguistica con cui l’uomo è costretto a guardare il mondo è una lente che non può impedirgli di stimarne le dimen-sioni, le forme, le analogie strutturali, che lo obbliga a rendere sempre più preciso il rapporto funziona-le (nel senso matematico del termine) con il mondo non umano e con l’ambiente circostante. Il linguag-gio, insomma, coinciderebbe con quel “pensiero tec-nomorfo” (Lorenz 1983, 7) che ci costringe a misu-rare ogni cosa, a spezzettare l’orditura del continuo

nel puzzle costantemente riorganizzato del discreto.

Il linguaggio-tecnologia ci obbliga alla cumulazione e alla riproducibilità di strutture di conoscenza em-pirica sempre più articolate, dettagliate e semantica-mente definite.

§ 2. Construens. Appunti neo-naturalistici sul linguaggio

Che la rappresentazione mentale sarebbe quindi sempre linguistica, contrassegnerebbe univocamen-te l’unicità e la superiorità cognitiva dell’uomo, di-stinguerebbe l’evoluzione culturale da quella biolo-gica, potrebbero essere tutti considerati, ormai, re-taggi ideologici del secolo antropocentrico che ab-biamo appena lasciato.

Il linguaggio, lungi dall’essere l’unica forma di cognizione possibile, resta tuttavia, un mistero filo-sofico e fisiologico tuttora impenetrabile, nonostan-te i decisivi progressi compiuti con le neuroscienze e le altre scienze cognitive del linguaggio.

Di certo, abbiamo sin qui potuto osservare, che esso condiziona inesorabilmente l’ontologia uma-na: l’animale-uomo non potrebbe essere cognitiva-mente diverso da com’è perché ogni sua percezio-ne, evento conoscitivo, esperienza, atto motorio, esi-stono solo nella misura in cui diventano nodi di una indefinitamente estesa rete di rappresentazioni lin-guistiche. Per quanto ancora si studi a fondo la co-gnizione animale, non è dato neanche di immagina-re che questa coazione a categorizzaimmagina-re, semantizzaimmagina-re, proposizionalizzare ogni evento sia un procedimen-to riscontrabile in altre specie. La natura tecnomorfa del linguaggio umano costituisce, quindi, la struttu-ra cognitivo-ontologica di fondo con cui dovrà fare i

conti chi vuole spiegare non più attraverso le “favo-le vere” con cui Gianvincenzo Gravina amava qua-lificare le affascinanti ipotesi filosofiche sulla natu-ra, ma attraverso un metodo empirico-sperimentale i fondamenti biologici del linguaggio.

In questa parte del lavoro cercheremo quindi di schizzare in positivo una breve sintesi delle cono-scenze naturalistiche sinora accumulate sul linguag-gio umano, reinterpretandole alla luce delle discipli-ne che hanno rivoluzionato le impostazioni antropo-centriche del secolo scorso. Nient’altro che un bloc-co di appunti neo-naturalistici per cercare di ribloc-co- rico-struire un’ipotesi probabilmente meno consolatoria ma forse più veritiera di come sia e di cosa possa pro-vocare la vera natura del linguaggio umano.

2.1. Cosa ci accomuna ai primati

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