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Una morfologia da sapiens

2.2. Cosa ci differenzia da tutte le altre specie

2.2.4. Una morfologia da sapiens

Esiste davvero una morfologia unica del sa-piens? Quali tratti anatomici bisogna possedere per essere identificati come sapiens in maniera inequivo-cabile? C’è tra questi tratti qualcuno che determina l’uso del linguaggio?

Tenuto conto delle precauzioni metodologiche legate alla storia evolutiva delle strutture anatomiche di cui abbiamo discusso precedentemente, è indub-bio che la risposta alla prima domanda è positiva e i contenuti della seconda vanno rintracciati proprio nell’analisi di quegli organi che consentono l’imple-mentazione di funzioni cognitive specifiche, prima tra tutte il linguaggio. Il linguaggio, infatti, presenta caratteristiche evidentemente innate come le

struttu-re anatomiche e la pstruttu-redisposizione spontanea all’ap-prendimento, seppure necessiti comunque di un in-nesco sociale per potersi realmente palesare (Pennisi, 2006). Ciò che, tuttavia, continua ancor oggi ad es-sere ignorato è il rapporto tra le strutture e le funzio-ni del linguaggio e la storia evolutiva che ha potuto portare al suo attecchimento come forma cognitiva specie-specifica della socialità umana.

Dal punto di vista anatomico, infatti, la stra-grande maggioranza dei tratti anatomici dell’uomo presenta delle caratteristiche di derivazione da an-tenati comuni almeno ad altri ominidi e ai prima-ti non umani (cfr. infra, 2 e ss.). E questo per ragio-ni connesse alla natura del DNA e alle pressioragio-ni se-lettive. Le strutture anatomiche specifiche per il lin-guaggio – sebbene derivate filogeneticamente – sono invece morfologicamente differenti e, soprattutto, sono impiegate per realizzare quella specifica moda-lità cognitiva del sapiens di rappresentazione della realtà che abbiamo visto nella prima parte del lavoro.

A garantire una morfologia linguistica da sapiens, se-condo gli studi paleoantropologici classici, è il tratto vocale sopralaringeo, la struttura periferica specifica della capacità articolatoria.

Il linguaggio articolato è frutto del funziona-mento coordinato di diverse strutture anatomiche periferiche, ognuna delle quali concorre alla pro-duzione dei suoni propri di una lingua. Nei mem-bri adulti della specie umana, in particolare, è pre-sente una configurazione tipica del canale faringeo

con la laringe in posizione permanentemente bassa.

L’abbassamento della laringe è fondamentale per la produzione vocale in quanto consente di ampliare la lunghezza della cavità orale. Questo elemento ana-tomico permette di ottenere una cassa di risonanza in più in cui modulare maggiormente il tono puro emesso dalla glottide prima di uscire dalla bocca. I suoni del linguaggio umano, infatti, vengono pro-dotti tramite la vibrazione dell’aria che, emessa dai polmoni, attraversa il tratto vocale incontrando al-cuni ostacoli anatomici di cui il soggetto parlante di-spone.

Ad una analisi superficiale sembrerebbe che il tratto vocale sopralaringeo sia presente esclusiva-mente nel sapiens in quanto evidenteesclusiva-mente selezio-nato per scopi linguistici (Lieberman, 1975, 1991).

Studi comparativi recenti (Fitch, 2002, 2005), però, hanno messo in evidenza che questa posizione non sembra etologicamente fondata, in quanto diver-se specie animali (tra i Mammiferi, ma anche tra i Rettili) sono in grado di ottenere una configurazio-ne anatomica del tratto vocale simile a quella uma-na: con i muscoli laringali, infatti, alcuni anima-li non umani (cervi, cani, capre, maiaanima-li, tamarini, ma anche coccodrilli) riescono a portare la laringe in una posizione bassa, allungando la faringe e otte-nendo una cavità orale ampia a sufficienza per pro-durre frequenze formantiche (quelle frequenze tipi-che di ogni specie animale e prodotte con la massi-ma intensità fonatoria). Sulla scorta di questa

anali-si Fitch ipotizza che il tratto vocale umano anali-sia stato selezionato non per vantaggi connessi alla funzione linguistica, ma per ragioni legate alla fitness: produr-re suoni definiti e gravi – come consentito dall’ab-bassamento della laringe – infatti, permetterebbe di simulare una stazza corporea maggiore (size-exagge-ration theory) in quanto suoni di questo tipo vengo-no prodotti (senza l’abbassamento della laringe) da membri della specie con stazza maggiore. Così sareb-be successo anche per il sapiens: l’abbassamento per-manente della laringe sarebbe stato selezionato per consentire di fingere una stazza corporea maggiore, utile sia a scopi di difesa che a scopi sessuali; solo in un secondo momento sarebbe stato rifunzionalizza-to (exaptation) per scopi linguistici.

La stabilizzazione di una struttura che consente una produzione vocale “virtuosa” come quella uma-na potrebbe essere stata seleziouma-nata positivamente nel corso dell’evoluzione con gli stessi meccanismi e per le stesse ragioni funzionali delle strutture fonato-rie degli animali non umani, tuttavia l’uso che oggi ne fa Homo sapiens esula dai fini originari. Il riadatta-mento di tale struttura, una volta selezionata positi-vamente grazie a un certo vantaggio evolutivo atto a stabilizzare il tratto anatomico all’interno della spe-cie, ha consentito la possibilità dell’articolazione e modulazione fine di suoni in sequenze più o meno complesse e con frequenze formantiche tipiche.

La funzione secondaria, quella che si è instan-ziata successivamente e non necessariamente per

for-nire vantaggi adattativi immediati, sarebbe, dunque, quella fonatoria. Si tratterebbe di una “analogia esat-tata”, un caso di co-evoluzione di strutture anatomi-che vantaggiose e di possibilità emergenti anatomi-che, una volta stabilizzata la funzione immediata, hanno po-tuto manifestarsi grazie alla liberazione dai vinco-li evolutivo-strutturavinco-li precedenti. Sebbene presen-te strutturalmenpresen-te in altre specie animali, infatti, la possibilità di ottenere una conformazione del tratto vocale utile per produrre frequenze formantiche ha consentito solo nell’uomo di realizzare la funzione linguistica articolatoria: questo sia per ragioni pret-tamente strutturali (l’uomo possiede un tratto voca-le con una posizione permanentemente bassa della laringe, dunque, sempre disponibile alla produzio-ne articolata e combinatoria senza sforzi muscolari costanti), sia per ragioni funzionali. Lo stesso Fitch, ad esempio, ammette che la vera differenza risiede nei meccanismi di controllo delle strutture periferi-che, come il tratto vocale, che se gestite da network centrali complessi consentono l’implementazione di funzioni complesse.

La posizione di Fitch sul ruolo dei sistemi di controllo getta un ponte interessante tra la presen-za di tratti morfologici specifici a livello periferico e network di funzionamento neurale a livello cen-trale. Gli studi sulla specialità umana, infatti, spesso si sono concentrati sulla configurazione caratteristi-ca del cervello umano, organizzato in aree intercon-nesse che gestiscono, almeno a livello corticale,

fun-zioni cognitivamente complesse. A livello cerebrale, almeno due sono i network coinvolti nella realizza-zione della funrealizza-zione linguistica: uno – studiato clas-sicamente fin dai tempi della prima neurologia basa-ta su metodi post-mortem – connette le famose aree del linguaggio; l’altro, di più recente interesse, indi-vidua le connessioni neurali per il linguaggio nella corteccia uditiva. I due network, come sembra evi-dente ad un primo sguardo, sono connessi da vincoli funzionali: il linguaggio necessita di una struttura di decodifica uditiva altamente specializzata per i suo-ni linguistici.

Sembra che i due circuiti non solo siano con-nessi per evidenti ragioni funzionali, ma siano en-trambi specifici del sapiens, nel senso che una volta ri-mossi, non può manifestarsi (o possa verificarsi solo parzialmente) il recupero delle capacità presiedute da questi circuiti su altre aree specifiche.

Nel caso della corteccia uditiva la specificità fun-zionale ha un valore estremamente predittivo per le funzioni cognitive unicamente umane. È facile obiet-tare, infatti, che le capacità uditive (percezione di suoni e capacità di localizzarli nello spazio) non siano unicamente umane, ma che anzi costituiscano un re-quisito evolutivo basilare per la sopravvivenza (si pen-si alle tecniche di caccia, ma anche alla fuga dai pre-datori). La corteccia uditiva, tuttavia, non solo non è strutturalmente la stessa nelle varie specie anima-li (diversi studi dimostrano le diversità di complessi-tà e di dimensioni di cortecce dedicate alla funzione

uditiva nelle varie specie animali, cfr. Platt, Ghanza-far, 2010), ma svolge anche funzioni differenti. Stu-di psicobiologici Stu-dimostrano, infatti, come la cortec-cia uditiva sia maggiormente specortec-cializzata per compi-ti udicompi-tivi solo in alcune specie animali. Per compren-de questa analisi possiamo riferirci agli studi condotti su cavie in cui l’asportazione delle cortecce uditive (in entrambi gli emisferi) portava a esiti differenti: men-tre nei topi e nei gatti il recupero delle abilità senso-riali uditive avveniva quasi completamente già quat-tro mesi dopo l’asportazione chirurgica, nei primati e nell’uomo, invece, l’asportazione bilaterale determi-na udetermi-na perdita totale delle capacità uditive (Heffner e Heffner 1990; Harrington 2002).

Questa differenza è significativa in quanto sa-rebbe indice della diversa importanza che riveste la percezione uditiva nella classe dei primati rispetto agli altri animali non umani. Nei primati, infatti, la percezione uditiva sarebbe associata a un compito evolutivo centrale: la comunicazione intraspecifica (Kanwal, Ehret, 2011). La percezione uditiva, dun-que, avrebbe un ulteriore ruolo, fondamentale per le specie ad alta socialità come i primati, cioè quella di poter discriminare il significato biologico dei suo-ni comusuo-nicativi (COO) (Petersen et al. 1978). Per questo motivo, allora, la rimozione di entrambe le cortecce uditive nei primati determina una impos-sibilità di recupero delle capacità uditive: secondo un principio evoluzionistico ormai accettato, infat-ti, la plasticità cerebrale è associata alle possibilità di

recupero, ma contemporaneamente è vincolata dal-la specializzazione dei circuiti cerebrali per funzioni specifiche. Inoltre studi recenti (Zatorre et al. 1996) hanno dimostrato come la corteccia uditiva umana, soprattutto quella secondaria, sia specializzata per la decodifica di suoni linguistici e che fin dalla nascita presenti una “predilezione” per i suoni prodotti dai conspecifici. Non è inutile ricordare a questo punto che proprio nella corteccia uditiva secondaria sini-stra è locata l’area di Wernicke, una regione cerebra-le classicamente identificata come responsabicerebra-le della decodifica linguistica.

Si tratta di un’area che fa parte del circuito per il linguaggio, un network neurale molto indagato e altamente specifico, analizzato fin dagli esordi del-la neurologia proprio perché rappresentava l’instan-ziazione materiale su tessuti cerebrali di una funzio-ne unicamente umana. Oggi la posiziofunzio-ne scientifica più accreditata sul network specifico del linguaggio assegna alle aree che lo costituiscono dei ruoli co-gnitivamente complessi. In particolare diversi studi hanno criticato la plausibilità del modello classico Wernicke-Geschwind secondo cui il linguaggio ve-niva gestito da tre strutture connesse: l’area di Bro-ca, responsabile della generica produzione (articola-zione motoria compresa), l’area di Wernicke, depu-tata alla decodifica, e il fascicolo arcuato, un insieme di fibre nervose che conduce l’informazione decodi-ficata nell’area di Wernicke all’area di Broca. Que-sto modello, infatti, non ha trovato riscontro negli

studi neuropsicologici (ad esempio, alcuni soggetti, qualche mese dopo interventi chirurgici in cui veni-va rimossa l’area di Broca, erano capaci di articolare il linguaggio, sebbene avessero perso alcune capaci-tà di rappresentazione precedenti), né da dati di tipo genetico (come descritto sopra, i responsabili dell’ar-ticolazione motoria del linguaggio sarebbero i gan-gli basali). L’ipotesi più probabile è che il circuito del linguaggio serva sì per comunicare tra conspeci-fici, impiegando l’articolazione vocale, ma abbia an-che una funzione più elevata: quella di consentire la rappresentazione della realtà mediata dal linguaggio.

Studi psicolinguistici (Hagoort, 2005), infatti, han-no dimostrato come l’area di Broca sia coinvolta in compiti di costruzione delle conoscenze sul mondo, quella serie di competenze che acquisiamo in quanto esposti ad una determinata cultura (come ad esem-pio, l’applicazione delle norme sociali, le creden-ze etc.). Questo ruolo di neuroprocessore evolutivo delle rappresentazioni della realtà è specifico del sa-piens e attribuisce alla funzione linguistica il compi-to di caratterizzare le modalità di conoscenza della realtà tipicamente umane.

Spogliata del suo ruolo generico di regione del-la produzione linguistica (con aspetti di gestione ar-ticolatoria e sommariamente di codifica del linguag-gio), l’area di Broca negli ultimi dieci anni ha assun-to sempre più un ruolo di epicentro funzionalmente elevato all’interno del network del linguaggio. Il lin-guaggio, in questo modo, condiziona processi

per-cettivi e di conoscenza del mondo esterno. Questa, dunque, sarebbe la modalità attraverso cui ogni es-sere umano categorizza e rappresenta la realtà cir-costante: una modalità che vincola persino i livel-li percettivi bassi e influenza la selezione specie-spe-cifica degli elementi ambientali. È in questo modo linguistico-procedurale che l’uomo conosce e modi-fica il mondo: la funzione linguistica, una volta in-stanziata, obbliga coattamente alla realizzazione del-la sua modalità tipica di conoscenza, senza concede-re margini di evasione. Il sapiens è costconcede-retto a pen-sare linguisticamente, ma proprio questa costrizio-ne che ha fornito una impennata costrizio-nella potenza stru-mentale e, quindi, nella capacità iperadattativa, sem-bra costituire la sua condanna specifica (Pennisi-Fal-zone, 2010).

L’importanza di questi tratti anatomici per la realizzazione della funzione linguistica, centrale per caratterizzare in maniera specifica la cognizione uma-na, è però strettamente intrecciata con le possibilità di attivazione sociale: e il caso degli enfants sauvages (i bambini lupo, biologicamente sapiens, ma funzio-nalmente animali non umani) lo dimostra in pieno.

La cognizione sociale umana non si caratterizza ba-nalmente per una serie di competenze che i “cuccio-li” di sapiens devono acquisire per entrare nel mondo adulto. L’imitazione, il social learning, le cure paren-tali, che nei primati non umani realizzano la com-petenza sociale, nell’essere umano assumono una

“qualità” differente, come sottolineato da Tomasello

(1999) secondo cui l’uomo, che pure condivide con gli altri primati una simile organizzazione cerebrale e corporea, ha sviluppato una socialità specie-specifica che rende incomparabile le sue prestazioni cogniti-ve con quelle dei suoi antenati. Anche i primati, in-fatti, mostrano abilità cognitive che sembrano simili a quelle umane che danno luogo anche nei primati a precise forme di vita sociale stabili fondate sul ri-conoscimento dei conspecifici e persino su una serie di principi cooperativi applicati all’apprendimento, alla formazione di alleanze e coalizioni, alla previ-sione dei comportamenti degli individui che com-pongono i gruppi. Infine anche i primati sembrano comprendere alcune relazioni astratte implicite nelle relazioni sociali: per es., quando vengono attaccati si vendicano, a volte, non solo contro chi li ha colpiti ma anche contro i parenti di questi ultimi (ib., 35).

Tuttavia, secondo Tomasello, i primati “non vedo-no il mondo nei termini delle ‘forze’ intermedie e spesso nascoste – le cause sottostanti e gli stati inten-zionali/mentali – che sono tanto importanti nel pen-siero umano” (ib., 37).

Il motivo per cui i primati non umani non rie-scono a mostrare comportamenti spiegabili alla luce di una “teoria della mente”, secondo Tomasello, non sono connesse a incapacità sofisticate come me-morizzare esperienze per attuare previsioni sul com-portamento altrui (sanno, ad es., perfettamente cosa vuol fare chi si dirige verso una fonte di cibo), ma è determinato dalla mancata generalizzazione dello

“scopo” del comportamento. E sarebbe il contesto intersoggettivo e le condizioni ecologiche entro cui si svolge il processo di apprendimento (quello che Wittgenstein chiamerebbe una “forma di vita”) che rende qualitativamente diverso il principio di causa-lità presso la specie umana. Nell’ipotesi tomasellia-na questa funzione verrebbe svolta dalla “attenzione condivisa”, un’attività cognitiva secondo cui gli atti di riferimento linguistico non avvengono per la con-nessione univoca del simbolo e del suo referente, ma attraverso un processo di focalizzazione del senso che coinvolge, in uno specifico e contestualizzato atto di cooperazione comunicativa, due o più conspecifici appartenenti ad una medesima “forma di vita”.

La differenza tra l’apprendimento umano e quello delle altre specie consisterebbe, quindi, nel fatto che esso mette a contatto i conspecifici (per es.

genitori-figli) attraverso un “format rappresentazio-nale interattivo” inedito nella storia evolutiva basa-to: (a) sull’azione che si sta facendo in quello speci-fico momento; (b) sull’inversione continua dei ruo-li della comunicazione; (c) sul raggiungimento del-la condivisione degli scopi; (d) sull’intersoggettività della comprensione contestuale.

Si tratta di un principio esplicitamente wittgen-steiniano che spiega in termini antropo-evolutivi il rivoluzionario ruolo cognitivo assunto dal linguag-gio nella storia dell’evoluzione.

§ 3. Conclusioni. La selezione naturale e la natura del linguaggio umano

In un celebre articolo apparso sulla “Philoso-phical Review” del 1974, Thomas Nagel si poneva una domanda che doveva apparire davvero strana ai suoi lettori: cosa si prova ad essere un pipistrello? Ov-vero: possiamo immaginare di condividere o capire qualcosa di esseri che sono dotati di apparati senso-riali, neurofisiologici e cognitivi diversi dai nostri?

Nonostante la raffinatezza delle argomentazioni ten-tate a favore di una risposta positiva l’idea di Na-gel è che ciò non sia possibile. Un effetto seconda-rio dell’accezione tecnica della specie-specificità che abbiamo considerato ampiamente in questo lavoro, così come viene percepita dai filosofi della mente, è proprio l’inibizione della conoscenza di mondi eto-logici diversi. In un certo senso ogni specie vive, na-sce e muore come fosse una monade incomunicabile chiusa nella sua nicchia eco-etologica.

Questa impostazione del problema favorisce in un certo senso una sorta di resa a quella filosofia an-tropocentrica del Novecento con le cui opinioni ab-biamo aperto questo saggio. In fondo perché mai dovremmo interessarci ai qualia etologici di altre spe-cie animali? La natura del linguaggio umano, in qua-lunque modo venga concepita a seconda dei presup-posti filosofici con cui la si osservi, resta sempre un problema interno alla cultura umana. E, per il pen-siero antropocentrico, alla cultura tout-court.

Abbiamo visto che le scienze della natura sono indispensabili per suggerirci altre possibilità in un certo senso peggiorative rispetto a quelle utilizzate dalle scienze umane ma forse anche per questo più autentiche e durature. Il prezzo pagato, infatti, dalle scienze umane per persistere nella propria autarchia cognitiva è quello che uno dei pionieri della psichia-tria moderna, Harold F. Searles, ha chiamato l’ab-bandono gnoseologico dell’ambiente non umano: “ossia la totalità dell’ambiente dell’uomo, a eccezione degli altri esseri umani che vi vivono [...], come se la vita umana si svolgesse in un vuoto, come se la specie umana fosse la sola nell’universo, perseguendo desti-ni individuali e collettivi in un’omogenea cordesti-nice di non essere, su uno sfondo privo di forma, di colore e di sostanza (Searles 1960, 5).

Questa via non è, tuttavia, obbligatoria. La scel-ta di percorrerla senza tentennamenti o tenscel-tazioni critiche pertiene esclusivamente alla sfera dell’etica della ricerca scientifica: utilizzare un’idea antropo-centrica di cultura per chiudersi consapevolmente in una fondazione soggettivista – identitaria o indivi-dualistica – del mondo, oppure tentare la via di un confronto con la verità naturale, per quanto scomo-da o addirittura spietata possa apparirci.

L’interpretazione dei dati che abbiamo analizza-to in quesanalizza-to saggio può costituire un buon esempio di questo dilemma etico. La natura specie-specifica del linguaggio umano può farcelo concepire come lo strumento elettivo di una mente culturalmente

il-limitata dedita all’analisi interna dei propri prodot-ti come la letteratura, la retorica, la filosofia, l’istru-zione, l’arte, le religioni, etc., oppure come l’ontolo-gia cognitiva di una specie tecnomorfa che analizza e tratta qualsiasi possibilità adattativa attraverso una lente tecnologica capace di trasformare l’ambiente a proprio vantaggio nell’arduo compito di mantenere intatte le proprie possibilità riproduttive.

Ciascuna delle due alternative è perfettamen-te legittima. Se concepiamo la natura del linguag-gio come lo strumento di un pensiero incondiziona-to potremmo percorrere in lungo e in largo l’intero circolo autistico dello scibile umano: è la direzione filosofica della circolarità senza progresso, dei cor-si e ricorcor-si storici, della metaficor-sica dell’eterno ritor-no, del culturalismo autocontemplativo, della narci-sistica resa boeziana al De consolatione philosophiae.

Se invece pensiamo alla natura del linguaggio uma-no come a una conseguenza inevitabile della uma-nostra struttura morfo-cognitiva, bio-psichica, come al

Se invece pensiamo alla natura del linguaggio uma-no come a una conseguenza inevitabile della uma-nostra struttura morfo-cognitiva, bio-psichica, come al

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