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Dall’imitazione all’aggressività

2.1. Cosa ci accomuna ai primati non-umani

2.1.2. Dall’imitazione all’aggressività

I processi di imitazione, l’intersoggettività, la consonanza empatica, la organizzazione e la strut-turazione dei gruppi di conspecifici, le cure paren-tali e l’istruzione diretta dei figli, la cooperazione e l’altruismo selettivo, insomma, le modalità del social learning, costituiscono il secondo elemento di gran-de rassomiglianza tra umani e scimmie. La presenza di una comune struttura neurale come il mirror-neu-ron-system pone i primati superiori su un livello bio-logicamente più elevato della trasmissione cultura-le. Non solo, infatti, le piccole scimmie sono esposte all’osservazione del comportamento dei conspecifici adulti e, quindi, attratte dall’uso di artefatti o stru-menti da questi utilizzati (tool use) anche senza ini-zialmente comprenderne lo scopo, ma in più posso-no riprodurre il comportamento degli adulti auto-maticamente guidati da una specializzazione adatta-tiva filogeneticamente predisposta.

Il nesso tra la predisposizione filogenetica di una struttura dedicata alla trasmissione culturale e la più generale complessità dell’architettura cerebra-le dovuta all’evoluzione corporea compcerebra-lessiva spiega la grande variazione culturale che si osserva nei pri-mati.

Com’è noto da una ormai copiosa letteratura sviluppata sperimentalmente e sul campo da ricerca-tori quali Goodal, de Waal, Boesch, Withen, Biro, Mc Grew, Tomasello, Matsusawa, infatti, i compor-tamenti culturali dei primati variano molto territo-rialmente: per esempio, nella scelta dei cibi, nei se-gnali usati per comunicare, nel tipo di materiali im-piegati per produrre attrezzi, nel modo di maneg-giarli, negli scopi raggiunti e così via. Di fatto – in un panorama generale di adattamenti culturali di natura territoriale che interessa quasi tutte le specie animali – tra i primati e gli uccelli si contano certa-mente le specie più variabili. Strutture cognitive de-dicate all’intersoggettività (complessi neurocerebra-li + sistemi innati di comunicazione) permettono o, comunque, generano un maggior sviluppo del fra-zionamento culturale.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensa-re l’universalità della struttura è la migliopensa-re garanzia della flessibilità della cultura. Come vedremo in se-guito, non sempre questo nesso fra strutture dedica-te e variabilità culturale dà tuttavia luogo a processi canonicamente adattativi: in casi particolari – nella fattispecie quelli dominati da una situazione di im-possibilità speciativa come quello umano – può anzi produrre l’effetto opposto. Il caso delle lingue sto-rico-naturali è l’esempio più lampante. Mentre, in-fatti, non è praticamente possibile nel nostro mon-do immaginare un isolamento di popolazioni uma-ne tanto duraturo da produrre incremento di

varia-bilità nel pool genico, bastano invece poche centina-ia di anni di separazione tra gruppi di conspecifici per produrre lingue diverse e ormai reciprocamen-te irriconoscibili. Da questo punto di vista le lingue ostacolano più che agevolare la trasmissione cultu-rale: “la differenziazione linguistica tende a ridurre gli scambi culturali e ad aumentare le differenze tra i gruppi” (Cavalli-Sforza 2004, 79).

L’avvio di quel complesso processo che l’etolo-gia ha chiamato “pseudospeciazione culturale” e che riguarda esclusivamente Homo sapiens affonda le ra-dici proprio in questo intricato nesso tra naturali-tà biologica e naturalinaturali-tà culturale. In particolare in un altro “precedente” evolutivo che collega prima-ti umani e non umani e che consiste nella tendenza a violare una regola pressoché universale: la ritualiz-zazione dei comportamenti aggressivi intraspecifici.

Sappiamo infatti dalle fondamentali opere dell’etologia lorenziana (Lorenz 1963; 1973a) e, so-prattutto, dalla formalizzazione teorica proposta da Eibl-Eibesfeldt (1970; 1975) che l’aggressività intra-specifica (cioè all’interno di una medesima popola-zione geneticamente ed ecologicamente definita) è un meccanismo di autoregolazione interno a qual-siasi comunità a riproduzione sessuata. Da questo punto di vista è possibile definire la specie come il più vasto insieme di individui in grado di compete-re tra di loro per l’accesso ad un medesimo insieme di risorse riproduttive (Minelli 2007). L’inesorabili-tà della competizione sessuale, connessa alla

neces-sità di riprodursi, comporta una rigorosa delimita-zione dei principi di antagonismo, pena la disinte-grazione dei gruppi medesimi e il loro indebolimen-to progressivo nello scenario della selezione natura-le. Se, in parole povere, tutti i maschi che competo-no per il predominio sessuale di un gruppo di con-specifici fossero materialmente “fatti fuori” dall’uni-co vincitore, il gruppo intero risulterebbe struttural-mente fragile e potenzialstruttural-mente soggetto a un rapido processo di estinzione.

È questa la ragione naturale per cui quasi tutti i gruppi di animali sociali adottano quella che è sta-ta chiamasta-ta una “ritualizzazione” dei comporsta-tamenti aggressivi neurofisiologicamente innescati, in tutte le specie, dal sistema endocrino e dal nucleo più primi-tivo dell’encefalo: il paleocervello rettiliano. La ritua-lizzazione comporta una forte stereotipizzazione del-le azioni, con artificiosa enfasi dei movimenti e una loro sistematica ed esagerata amplificazione5. Si pensi ai combattimenti tra i lupi: tutto si risolve nella pan-tomima ritualizzata del comportamento aggressivo a cui si uniformano, sottomettendosi e accettando la sottomissione e riconoscendole come autentiche nor-me simboliche, sia il vinto che il vincitore.

L’animale umano è l’unico che viola tanto spes-so questa regola da rischiare di trasformare la ritua-lizzazione dei comportamenti aggressivi nell’eccezio-ne. Anche questa peculiarità della natura culturale umana, tuttavia, è un retaggio di quella dei primati.

La tenera immagine dei cuccioli di scimpanzé

stret-ti al corpo della madre, il mito della dolcezza e del-la bontà di queldel-la specie dagli occhi liquidi che ac-compagna da sempre l’uomo, ha spesso condiziona-to il giudizio sull’aggressività dei primati non uma-ni. Genocidi a parte, invece, gli scimpanzé uccido-no e torturauccido-no sia individui di altre specie sia mem-bri della propria specie e persino della propria tribù, esattamente come gli umani uccidono e torturano i propri conspecifici.

La mole di dati osservativi che si è accumula-ta in questi ultimi vent’anni su questo fenomeno è impressionante e ha rivelato aspetti sconcertanti del mondo dei primati non umani. Al di sopra di ogni sospetto primeggiano le osservazioni dei massimi pionieri della primatologia sul campo: le testimo-nianze di Frans De Waal e Jane Goodall sugli scim-panzé del parco nazionale di Gombe in Tanzania.

L’abitudine alla presenza umana ha qui determinato comportamenti peculiari come i rapimenti di piccoli umani che gli scimpanzé organizzano per nutrirsene.

Nel vicino Uganda il kidnapping degli scimpanzé av-viene persino dentro le case degli umani ed è ormai divenuto un problema di criminalità sociale ende-mica. Nei confronti dei propri conspecifici gli scim-panzé sembrano mostrare atteggiamenti aggressivi talmente organizzati da spingere la Goodall a credere che le diverse tribù coordinino le loro azioni a livello intenzionale e premeditato. Gli assalitori effettuano veri e propri raid contro i conspecifici-vittime isola-ti: le modalità dell’agguato evidenziano

un’esibizio-ne di crudeltà talmente efferata da rasentare la vo-lontà di costituire un “avvertimento” per i “nemici”, tanto è vero che a distanza di settimane gli aggressori ritornano sulla scena del delitto che li ha visti tortu-rare le vittime per constatare l’efficacia del loro com-portamento sul piano della deterrenza nei confron-ti di tutte le altre tribù concorrenconfron-ti (De Waal 2005).

Molti altri studi hanno arricchito il quadro del com-portamento aggressivo dei primati non umani rive-landoci ulteriori somiglianze con le modalità dell’ag-gressione intraspecifica umana. Violentare le femmi-ne (forced copulations), per esempio, è prassi frequen-te non solo tra gli scimpanzé, ma anche tra i goril-la e gli oranghi6. Con la stessa frequenza si manifesta l’omicidio intraspecifico per gelosia tra le amadria-di, i babbuini e i macachi (Ellis 1998). Una questio-ne di particolare interesse è costituita dalla frequen-za dell’infanticidio7. Specialista nell’uccidere i picco-li dei propri conspecifici è il Gelada Baboon, un bab-buino etiope dai grandi harem (ib.). Infanticidi sono stati riscontrati anche presso i macachi8, lo Hanu-man Langur (Fairbanks 1993), le femmine di panzé che uccidono piccoli di altre femmine di scim-panzé9. In generale l’omicidio intenzionale dei pic-coli della propria specie è stato documentato in cin-que delle sei famiglie di primati, con la sola eccezio-ne dei Tarsidi (Smith 2005).

Ciò che, in sintesi, sembra emergere da questo insieme di ricerche è il progressivo distacco dei pri-mati dai tradizionali moduli etologici

dell’aggressivi-tà: uccidere per le scimmie umane e non umane non è un fatto obbligatoriamente connesso agli istinti vitali della sopravvivenza (Rogers e Kaplan 2004).

Contrariamente a quanto si credeva negli anni Set-tanta (Fromm 1973), i primati aggrediscono non solo per difendersi, nutrirsi o accoppiarsi, ma anche per circoscrivere il territorio, stabilire domini di pos-sesso su beni e risorse, mantenere stabili le strutture sociali e le gerarchie dei gruppi. Forse anche solo per il “naturale” piacere “culturale” di uccidere.

2.1.3. Le strutture filogenetiche della

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