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GENITORI, FIGLI: TESTIMONIANZE DI UN FORTE LEGAME

Oltre alle relazioni uomo-donna, quella tra genitori e figli è per antonomasia uno dei rapporti nei quali scorre amore e affetto. I rapporti tra genitori e figli rappresentano da sempre una questione delicata e difficile, che sicuramente ha subito nel tempo un’evoluzione

L’amore delle madre e dei padri verso i figli, che si dimostra nella cura, nell’attenzione, nell’educazione e nei consigli, sembra essere senza tempo. E anche a questo proposito è interessante chiedersi se in epoca medievale tutte queste caratteristiche o almeno alcune fossero già presenti, senza lasciarsi sopraffare da luoghi comuni che anche attorno a questo tema sono vivi e ancora troppo vegeti, senza pensare che esistessero solamente genitori abituati a superare un evento tragico di un figlio proprio perché esso era molto comune o genitori che non erano in grado di educare con amore i propri figli solo perché, magari, le modalità di insegnamento valoriale erano diverse dalle nostre.

Nel primo capitolo abbiamo analizzato per esempio la figura di Dhuoda, che nell’alto medioevo dispensava consigli al figlio lontano dimostrandoci come la distanza siderale che vediamo tra noi e loro non è, in realtà, così grande come pensiamo. Era una madre attenta alla formazione morale del figlio affinché questi potesse vivere una vita giusta, nella quale scegliere sempre la strada più corretta e che rispettasse le sue capacità. In questo paragrafo vedremo altri esempi che forse ci faranno vedere un lato nascosto, magari non tanto appariscente ma presente del rapporto genitori figli. Vediamo come si instaura questo rapporto, fin dal nascita di un nuovo bambino. Innanzitutto nel Medioevo nascere e di conseguenza vivere non era così scontato: una delle più diffuse cause di

85 morte era proprio il parto. Non solo per il bambino, ma anche per le madri, perché la scienza dell’epoca non era in grado di affrontare le complicanze del parto. Se il bambino riusciva a sopravvivere, la strada non era comunque in discesa, perché purtroppo il rischio della morte era dietro l’angolo.

Una delle usanze più diffuse del Medioevo era sicuramente quella di separarsi dal neonato dandolo a balia. Per noi oggi sembra veramente irragionevole è come se affidassimo la nostra emozione più bella ad un estraneo. Ma nel Medioevo non era così: dai libri di famiglia e dalle ricordanze emerge che l’affidamento a balia dei bambini era una regola piuttosto che un’eccezione, anche perché quello della balia era considerato un vero e proprio lavoro regolarmente retribuito. Sappiamo sia dagli statuti comunali che dalla pratica descritta dai libri di famiglia che il salario di una balia variava sostanzialmente sulla base sua residenza.210 Soprattutto alla fine del Trecento la balia viveva in genere lontano dalla casa di origine del neonato.211

Scegliere la balia ideale spettava al padre, che si metteva a cercarla in tutta la sua cerchia di clienti e amici.212 La già citata Margherita Datini spesso veniva mandata dalle sue conoscenze fiorentine a cercare loro balie, e per arrivare alla decisione più giusta usava precisi criteri di scelta, per esempio la donna non doveva essere orba e il suo latte doveva avere due mesi. Molto crudelmente, si sperava addirittura che la donna avesse perso da poco i bambini perché, come ci tiene a sottolineare Margherita: «non potrei mai credere che quando elle anno i fanciulli di un anno esse non ne diano loro». 213

Nella scelta della balia quindi non importava affatto che la donne fosse moralmente corretta o di estrazione sociale buona, bastava che il suo latte fosse fresco e abbondante. La moglie non aveva voce in capitolo in questa questione, era questione del marito o meglio, dei mariti, poiché molto spesso a contrattare - perché si trattava di un vero e proprio rapporto contrattuale - erano il padre del neonato da allattare e il cosiddetto balio, il marito della futura balia.214 Redatto il contratto, se fosse

stato deciso che la donna si sarebbe trasferita a casa del neonato, la famiglia d’arrivo si preoccupava di sistemarla, solitamente vicino alla cucina. Se invece era il bambino ad uscire di casa, una volta che si trovava con la balia le attenzioni a lui rivolte da parte dei genitori non erano più molte. Nonostante Paolo da Certaldo nel 1370 incoraggiasse «i genitori di fare sempre visita i fanciulli che dai fuori di

210 Klapisch-Zuber, La famiglia, p.218 211 Klapisch-Zuber, La famiglia, p.217 212 Klapisch-Zuber, La famiglia, p.222 213 Klapisch-Zuber, La famiglia, p.223 214 Klapisch-Zuber, La famiglia, p.276

86 chasa tua a baglia»215, essi non si prendevano la briga molto spesso di andare a controllare le

condizioni del figlio. Ne venivano comunque a conoscenza perché vi era uno scambio di notizie tra le famiglie o per mezzo di emissari: quando alla casa del padre fosse arrivato il balio le notizie non erano buone. Molto spesso accadeva che i bambini a balia morissero; secondo i dati riportanti da Klapisch-Zuber,nell’85% dei casi è la malattia che si portava via i neonati, nei restati casi l’affogamento e il soffocamento.

Superato anche questo periodo non certo facile, il bambino poteva ritornare a casa lasciando la donna che lo aveva allevato fino a quel momento. Solitamente i piccoli rimanevano a balia per circa diciotto o venti mesi, durata che variava a seconda del sesso; infatti sembra che le bambine ritornassero sotto il tetto genitoriale prima rispetto ai maschi.

Oggi queste usanze ci sembra molto lontane a noi, ma bisogna pensare che in una società come quella medievale, dove le donne si sposavano giovani, avevano figli molto spesso prima del diciottesimo anno d’età e vivevano gravidanze molto ravvicinate, dare bambini a balia era più facile visto l’impegno che avrebbero imposto alla donna i continui allattamenti.216

Bisogna pensare che nelle famiglie più abbienti le cure, le attenzioni primarie quali la pulizia, il bagno e la fasciatura del bambino e persino l’alimentazione erano portata avanti non tanto dalle madri quanto dal personale di servizio; nelle famiglie di artigiani e di contadini erano le domestiche, i parenti e le sorelle che davano una mano quando si trattava di assistere e sorvegliare bambini, ma la madre aveva un ruolo più centrale, era infatti lei che si occupava dell’alimentazione e dell’igiene del figlio cercando di ritagliare alla prole più spazio possibile tra un lavoro e l’altro.217 Soprattutto in

queste famiglie, i bambini più grandi a partire dai quattro anni potevano essere già chiamati a collaborare nei lavori di casa o di giardinaggio, ambito specifico delle donne, affinché le madri potessero trovare un momento di respiro tra gli affanni lavorativi e ringraziare un domani, in vecchiaia, i figli dell’amore che riservarono loro.

In ogni caso i bambini crescevano, ma come veniva considerata la loro infanzia? La questione delle complesse relazioni tra bambini e adulti e la loro natura variabile nel tempo è alla base di molti saggi pubblicati nel secolo scorso: il primo sicuramente è il libro di P.Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, nel quale con ferma convinzione fin dalla prima pagina l’autore affermava che il sentimento dell’infanzia non esisteva, al punto che «appena il bambino poteva vivere senza le cure costanti della madri, della nutrice o della bambinaia, apparteneva alla vita degli adulti»

215 Klapisch-Zuber, La famiglia, p.227 216 Klapisch-Zuber, La famiglia, p.245

87 218. Secondo l’autore, il termine bambino non aveva il senso il stretto che gli attribuiamo noi. In sostanza vi era un’indeterminazione dell’età che toccava qualsiasi campo, dal gioco ai mestieri, si aveva una sola certezza, che il bambino piccolissimo, ancora troppo fragile per mescolarsi alla vita degli adulti, non contava nulla.219

Il ciclo di Isidoro di Siviglia fu a partire dal VII secolo lo schema di divisione delle età che riscosse maggior successo. L’infantia, la cui origine etimologica derivava secondo Isidoro da non

fari, era il primo periodo che, estendendosi dalla nascita fino ai 7 anni, era definito, come in

sant’Agostino, dall’incapacità del fanciullo di parlare220: è questa anche la definizione che alla fine

del Medioevo si dava ai minori di sette anni, erano infanti. Una provvisione del 1494, riferendosi alla magistratura degli Ufficiali dei Pupilli, che dal 1384 si occupava della tutela dei fanciulli, significativamente denominò così i bambini di età inferiore ai 7 anni «che non hanno avuto iudicio et discretione d’intendere e bisogni loro»221.

A partire dall’interpretazione di Ariès l’idea di un mondo senza emozioni, senza nessun sentimento verso l’infanzia si è affermata nella storiografia sul tema. Nonostante il fatto che molte delle tesi di Ariès siano state confutate, «c’est grâce aux multiples filons nés de l’expérience désormais lointaine de Philippe Ariès si aujourd’hui le monde de l’enfance n’est plus un monde étranger au domaine de l’histoire».222

Dell’educazione medievale dei giovani dell’epoca si è detto tutto e il contrario di tutto. Non essendo questa la sede in cui affrontare questo tema approfonditamente cercheremo di soffermarci sui capisaldi principali, per poi passare all’analisi di esempi più concreti che ci possano mostrare come venivano intesi i rapporti tra genitori e figli nel medioevo.

L’idea dominante è che il padre rimane il protagonista principale dell’opera educativa, anche se la sfera dell’educazione morale e il controllo del comportamento, soprattutto delle femmine, è appannaggio delle madri.223 Molti, tra cui Giovanni il Certosino, Bernardino e il Dominici sottolineano come proprio la figura della madre debba essere fondamentale per educare figli e figlie, correggendoli nell’errore, insegnando loro le preghiere fondamentali, rinnegando le bugie, i peccati e le bestemmie. Sarà la madre che dovrà plasmare l’anima dei figli reprimendo con amore e rigore le loro manchevolezze. Rimane però forte la convinzione che la vita sociale e gli studia debbano essere

218 P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Bari 2006, p.145 219 Ariès, Padri e figli, p.145

220 I.Taddei, Età fisica, età sociale Le frontiere dell’infanzia nella società fiorentina alla fine del Medioevo, https://journals.openedition.org/mefrim/614 (ultima consultazione: 02/11/2020)

221 Taddei, Età fisica, età sociale

222 J. Chauvard, A. Groppi, La place des enfants https://journals.openedition.org/mefrim/612 (ultima consultazione: 02/11/2020)

88 indirizzati dal padre. È il padre a prendersi cura dei figli fin da prima della loro nascita scegliendo una moglie che sia degna di diventare madre, e che è responsabile dell’inserimento del bambino nella società. La madre deve dare affetto e amore al bambino nei primi anni di vita per poi lasciare campo libero al padre nell’educazione dei figli, soprattutto dei figli maschi. Nel medioevo esisteva un tipo di genitorialità sostitutiva. Fra i legami genitoriali di carattere non biologico si deve necessariamente segnalare l’intensa relazione che univa il padrino e la madrina ai rispettivi figliocci. Due erano le motivazioni principali: la prima era il fatto che questi legami erano veicoli di ampliamento della rete sociale delle famiglie naturali; la seconda era l’imprescindibile dimensione teologica del rito battesimale, attraverso il quale padrini e madrine diventavano per il piccolo genitori di spirito.224 Tradizione questa, che oggi abbiamo praticamente perso.

Non possiamo pensare, quindi, ai rapporti tra genitori e figli come a un blocco monolitico che non subì variazioni nel tempo; Dobbiamo pensare che l'infanzia e le altre età della vita sono un costrutto sociale e culturale: ogni società ha la sua idea di cosa siano questi rapporti e passaggi. È da qui che deriva la fortuna del famoso detto popolare che "i bambini di oggi non sono più quelli di un tempo" forse proprio perché nemmeno i genitori lo sono.

I figli del passato, come è stato più volte sottolineato, rimangono oggetti storici difficili da cogliere: in quasi tutte le fonti che abbiamo sono oggetto delle parole e del discorso degli altri, costringendoci così a studiarli attraverso le tracce che hanno lasciato di se stessi negli adulti. È proprio in queste fonti che dobbiamo cercare di cogliere sentimenti vivi e forti che ci fanno trovare somiglianze con il presente.

Il primo caso che riporto è quello di Giovanni Morelli con la madre Telda. Alla morte di Pagolo, il padre di Giovanni, la giovanissima vedova aveva scelto di passare a seconde nozze, cosa che, implicando la sua uscita di casa, venne vissuta dal piccolo Giovanni che aveva appena tre anni come un abbandono.225 Sul rapporto di Giovanni con la madre è stato scritto molto, sottolineando spesso come fosse espressione di un sentimento negativo. In realtà il legame non può essere ascritto in categorie così rigide. Giovanni definisce la madre come una ‘‘madre crudele’’ artefice di un abbandono nei confronti di teneri bambini bisognosi del suo amore e delle cure materne226, ma lo fa in un momento in cui, a suo dire, è preda della tentazione del demonio227.

224 M.C.Rossi, Storie di affetti nel Medioevo : figli adottivi, ‘figli d’anima’, figli spirituali, https://journals.openedition.org/mefrim/230 (ultima consultazione: 02/11/2020)

225 C.Tripodi, Il padre a Firenze nel Quattrocento. L’educazione del pupillo in Giovanni Morelli, in «Annali di Storia di Firenze», III, 2008, p.37

226 Klapsch-Zuber, La famiglia, p.289 227 Tripodi, Il padre a Firenze, p.38

89 È vero anche che proprio tramite l’espediente della tentazione egli riesce a dare voce a pensieri che non avrebbe espresso con tale forza; tuttavia è un po’ forzato credere che questa espressione riveli un risentimento così forte nei confronti della madre poiché il contatto tra i due rimase nel tempo persino con aspetti di un certo portato affettivo228. Infatti i rapporti tra Telda, Giovanni e i suoi fratelli, a quanto sembra, non si interruppero; inizialmente i bambini rimasero infatti sotto la tutela dei nonni materni229, che si presero cura dei nipoti rimasti soli. Forse il risentimento di Giovanni era dovuto al fatto che la madre non portò fin da subito i figli con lei; solo nel 1383 i bambini si spostarono «sotto il governo di Simone Spini», nuovo marito della madre appunto. È monna Telda che, secondo quanto ci dice Giovanni, gli racconta del padre defunto, del suo carattere e di alcuni episodi della sua vita.

Sembra una storia molto vicina a noi, la storia di una famiglia allargata che dopo il divorzio deve cercare di ricostruirsi, e a sua volta ricostruire l’affetto che inizialmente si stava perdendo a causa dell’evento che inizialmente provoca ovviamente risentimento nei confronti di colui o colei che ha rotto l’idillio familiare. E qui accadde lo stesso: il risentimento di Giovanni era intenso, forse intensissimo, tanto quanto il dolore provato, ma il legame madre figlio resistette, cambiò nel tempo cercando di trovare momenti di riconciliazione familiare. Fu Telda, per esempio, a presenziare ai battesimi dei nipoti Matteo, Antoniotto, Tommaso e Iacopo.230

Il secondo esempio nel quale a mio avviso si possono ritrovare spunti di riflessione è quello che vide protagonista il padre di Giovanni Antonio di Faie, Francesco qualche informazione sull’autore, di dov’è. Dalla sua autobiografia si apprende che Giovanni Antonio era orfano del padre fin dalla nascita, e che tutto quello che sapeva di lui gli derivava dai racconti affettuosi e accurati della madre Guglielmina. Una delle parti più importanti della sua opera riguarda il racconto, dialogato, della morte di suo fratello Giovanni causata dalla peste, e del conseguente dolore straziante provato dal padre.

Francesco vedeva in Giovanni il figlio prediletto con il quale aveva il rapporto più intimo e stretto, al quale sono affidate tutte le attese paterne231; nel 1400, dopo giorni di angoscia e paura, Giovanni muore lasciando il padre nel dolore più totale tanto che egli si rivolge a Dio con uno straziante ‘Or che mi può tu far Dio?’232. Molto spesso si ritiene che i genitori medievali,

228 Tripodi, Il padre a Firenze, p.38 229 Tripodi, Il padre a Firenze, p.37

230 Tripodi, Il padre a Firenze nel Quattrocento, p.37

231 F.Franceschi, Il dolore del padre. La morte del figlio nell’‘autobiografia’ quattrocentesca di Giovanni

Antonio da Faie, in M. Montesano (a cura di) «Come l’orco della fiaba». Studi per Franco Cardini, Firenze 2010, p.400

90 completamente sottomessi al volere divino, accettassero senza batter ciglio la morte di un figlio chiamato da Dio. Spesso non era così. Francesco non riesce ad accettare la morte di Giovanni, i parenti si stringono attorno a lui per cercare di consolarlo; quando la fossa è già stata scavata, Francesco non vuole abbandonare il corpo del figlio, non temendo nemmeno il contagio 233, tant’è che i presenti sono costretti alle maniere forti «tenghano Francesco, e parte pian lo corpo e portanlo a soterare»234. Il padre è delirante, e ogni notte per più giorni consecutivi si avvicina alla tomba del figlio gridando «O Zhoanni, o Figliolo» spiegando a coloro che gli chiedono se sia impazzito che vuole solamente abbracciare il figlio per riportarlo a casa. Due mesi più tardi può esserci un momento di nuova gioia, Guglielmina dà alla luce un altro figlio, ma Francesco non sembra nemmeno accorgersene, le uniche parole che riesce a dire sono: «io non vojo alegrami mai più de nesuna choxa, poyché Dio m’a tolta tuta la mia speranza»235. Giovanni era amato di un amore unico e

incondizionato. Questo esempio ci fa pensare anche al grande sconforto provato da Coluccio Salutati mentre seppelliva il figlio Pietro e al dolore del sopracitato Giovanni Morelli, che paragona lo strazio per la morte del figlio Alberto come un coltello che ci passa il cuore.236

Queste sono tutte reazioni istintive, dettate dal sentimento più puro che lega padri e figli, la testimonianza di una risposta sentita alla morte che probabilmente non ci saremmo aspettati nel Medioevo, e soprattutto da due uomini.

L’ultimo paragrafo sarà dedicato all’esperienza di vita di Alessandra Macinghi Strozzi, madre vedova, che fece del rapporto con i figli la costante di una vita.

3.4.1 «Non ho altro bene al mondo che voi tre miei figliuoli»: l’esempio di