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I rapporti familiari e la loro dimensione emotiva e affettiva nel Tardo Medioevo

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Academic year: 2021

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Alla mia famiglia, che mi ama e che amo,

e a Elena, che per me è come una sorella

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Indice

INTRODUZIONE ... 3

UNA PANORAMICA SULLA FAMIGLIA MEDIEVALE ... 6

LA FAMIGLIA NELL’ALTO MEDIOEVO ... 7

Sposarsi e divorziare nell’Alto Medioevo………12

Donne e amore, un’accoppiata pericolosa………....17

LA VOCE DI UNA MADRE DI MILLEDUECENTO ANNI FA………..……….19

IL PRIVATO SI ALLARGA: DAL LIGNAGGIO AGLI AMICI………..……….22

SCRIVERE D’AMORE: AMORE PENSATO E AMORE VISSUTO……….……..25

IL MEDIOEVO E LA LETTERATURA D’AMORE: LA REALTÀ È ALL’ALTEZZA DELLA FANTASIA……….………...26

ABELARDO E ELOISA, LETTERE DI UN VERO AMORE MEDIEVALE………35

DANTE TRA IL MATRIMONIO CON GEMMA E L’AMORE PER BEATRICE………43

AMORE E SESSO: L’ESEMPIO DI BOCCACCIO………50

LA CASA, FOCOLARE E CULLA DEI SENTIMENTI………55

PROTAGONISTI E TESTIMONIANZE………...60

IL MATRIMONIO: UN RAPPORTO SFACCETTATO…….……..……….61

Margherita e Francesco, lettere di vita quotidiana……….68

LE DONNE: PEDINE O PROTAGONISTE?...74

La voce di Christine de Pizan per dare voce alle donne……….……77

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2 «Non ho altro bene al mondo che voi tre miei figliuoli»: l’esempio di Alessandra

Macinghi Strozzi……….……….91

CONCLUSIONI……….….98 BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA ………...…………..102

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Introduzione

Il Medioevo, tra tutte le epoche storiche, è sicuramente quella che più di tutte viene descritta attraverso molti luoghi comuni che la dipingono come un periodo buio e oscuro, dominato da una Chiesa repressiva e da un’ignoranza generalizzata. Tutti stereotipi che hanno creato la vera e propria leggenda dei cosiddetti secoli bui, facendo allontanare il Medioevo da noi e mostrandocelo come un mondo diametralmente opposto al nostro.

Lo scopo di questa tesi è proprio quello di provare a ridurre tale distanza, cercando di trovare somiglianze e similitudini che a primo impatto penseremmo impossibili. Come emerge dal titolo, cercheremo di farlo analizzando i rapporti sentimentali e affettivi che intercorrono all’interno della famiglia, che da sempre, Medioevo compreso, è la cellula principale di ogni società.

Ormai la storia delle emozioni sembra essersi imposta nella storiografia. Barbara H. Rosenwein afferma che «ultimamente la storia delle emozioni è diventata così popolare che alcuni studiosi hanno parlato di una svolta emotiva»1, evoluzione che nessuno avrebbe creduto possibile fino a non molti anni fa. Senza dubbio ciò si deve all’opera di molti storici che si sono spesi per dare forza a questo settore di studio, tra cui Johan Huizinga, Lucien Febvre, Philippe Ariès, Georges Duby e Jacques Le Goff.

Ci si dovrà dunque chiedere che cosa sappiamo della vita affettiva e dei rapporti sentimentali durante il Medioevo, quanto essi fossero importanti e centrali nella società del tempo. È un tema che è stato a lungo trascurato, nonostante sia documentato da numerose fonti che spaziano dalla letteratura profana a quella religiosa, passando per cronache, libri di famiglia e corrispondenze. Gli storici che studiano i testi e interrogano le immagini che costellano il lungo millennio medievale, a mio avviso, non possono studiare la vita dell’epoca analizzando solamente gerarchie politiche, ritmi di produzione, guerre, rivolte e crisi economiche, trascurando desideri, dolori, gioie e tenerezze che rendono gli uomini ansiosi, paurosi, tristi, felici o innamorati.

Il luogo principe sede di tali emozioni e sentimenti è senza dubbio la famiglia, all’interno della quale nascono e si sviluppano rapporti tra individui legati tra loro da amore e affetto, primi tra tutti quelli tra i coniugi e tra genitori e figli.

Parlare della famiglia nel Medioevo, però, è molto complesso per alcune motivazioni: si tratta di un periodo storico che copre un amplissimo arco cronologico della durata di circa mille anni per nulla omogeneo o iscrivibile in categorie fisse e, oltre al tempo, copre anche aree geografiche lontane tra loro.

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4 L’elaborato è strutturato cronologicamente e procede infatti dall’Alto Medioevo per poter porre le basi ai successivi ragionamenti, arrivando agli ultimi capitoli nei quali si tratterà più precisamente e approfonditamente del Tardo Medioevo, il tutto concentrandosi soprattutto su esempi che provengono dall’area italiana.

Nel primo capitolo si darà una panoramica della famiglia medievale: verranno descritte le strutture fondamentali di essa, con particolare riferimento all’organizzazione della parentela, ai ruoli di genere e ai sentimenti che legavano i componenti del gruppo familiare. Con il termine ‘‘famiglia medievale” possiamo intendere una varietà pressoché infinita di entità diverse tra loro; essa infatti risulta estremamente complessa da sintetizzare in poche pagine. Verrà analizzata la cerimonia del matrimonio, che era un vero e proprio percorso di vita: le giovani donne venivano infatti promesse in spose fin da bambine, e molto spesso la scelta della famiglia era volta a mantenere in vita rapporti di amicizia o di interesse che sembrano essere lontanissimi dalla libera scelta che oggi noi pensiamo alla base di un rapporto matrimoniale. Ci chiederemo, però, attraverso alcuni esempi, se anche all’epoca, dietro questa patina di mero interesse e egoismo, si celassero dei sentimenti, come la stima reciproca tra i coniugi, e se si potesse parlare o meno di amore. Amore che sicuramente studieremo in un altro fondamentale rapporto familiare, quello tra genitori e figli. L’esempio che ci può dare uno spiraglio di positività contro la visione asentimentale e anaffettiva che spesso emerge quando si parla di Medioevo è Dhuoda, una madre di milleduecento anni fa che, allontanata dal figlio, ci mostra, scrivendo, tutto il suo dolore. È una donna che ama essere madre, che ha a cuore la formazione del figlioletto e che attraverso le sue parole amorevoli e allo stesso tempo autorevoli ci aiuterà a riconoscere in lei atteggiamenti e comportamenti che ancora oggi ritroviamo alla base dell’essere un buon genitore.

Il tema dell’amore verrà ampiamente trattato nel secondo capitolo di questa tesi. Qui l’amore è l’amore tra uomo e donna, perché non dobbiamo dimenticare che i protagonisti di cui parleremo sono proprio uomini e donne che, come oggi, provavano sentimenti ed emozioni. Sappiamo che il Medioevo e con esso i poeti medievali ci hanno lasciato le prime e più belle parole d’amore della storia della letteratura: pensiamo alla poesia trobadorica, alla scuola siciliana, fino ad arrivare ai grandi poeti del dolce stilnovo. Così come oggi, l’amore era infatti il protagonista di lettere, poesie e componimenti letterari, e proprio per tale motivo in questo capitolo ci chiederemo come e se l’amore vissuto esistesse e se fosse all’altezza di quello pensato, dando una panoramica dell’amore quotidiano, del suo svilupparsi in famiglia e di come esso interessasse la vita di uomini e donne medievali. Non possiamo pensare che non esistessero storie come l’amore folle di Lancillotto e Ginevra nella realtà; si deve provare a partire dall’idea che se qualcosa viene scritto deve pur avere una qualche aderenza al reale. Attraverso le parole di Abelardo ed Eloisa vedremo la forza di un vero amore

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5 medievale, che probabilmente era un’eccezione, ma di cui non possiamo non tenere conto nella trattazione sul tema. Attraverso i versi di Dante cercheremo di capire come fosse possibile e accettato che un uomo sposato (la moglie del poeta era Gemma Donati) spendesse litri di inchiostro solo per la donna che amava, Beatrice, senza mai nominare la moglie nei suoi scritti. Infine attraverso l’esempio di Boccaccio proveremo a porre fine ad uno dei maggiori luoghi comuni sull’epoca, cioè la fuorviante trasformazione del termine “medievale” in aggettivo – cito il Dizionario Treccani – riferito a «concezioni e principî superati e retrogradi» che vedono il Medioevo come un periodo chiuso, oppressivo e repressivo, portando alla luce lampi di modernità e apertura che non avremmo mai immaginato.

L’ultimo capitolo si concentrerà prettamente sul Tardo Medioevo e scenderà ancora di più nel particolare. Verranno infatti analizzate precise testimonianze, scritte dai protagonisti, che ci permetteranno di confermare la nostra tesi. Nella prima parte si parlerà nuovamente di matrimonio (ne vedremo differenze e similitudine con la cerimonia altomedievale), e nello specifico dello sfaccettato rapporto tra i coniugi, messo in luce attraverso le lettere scambiate tra Margherita e Francesco Datini, che quotidianamente si raccontavano la loro giornata tra momenti più seri e momenti più dolci e sentiti. L’analisi delle lettere è volta proprio alla ricerca di quei passi che mostrino un rapporto più profondo tra i due protagonisti che permetta di andare oltre l’idea che tutto, nel Medioevo, fosse mosso da interesse personale. Il rapporto marito-moglie suggerisce domande anche sulla condizione della donna e su come la donna fosse considerata all’epoca: la voce di Christine de Pizan, moglie, madre e scrittrice di professione aprirà le porte a una visione più inclusiva delle donne all’interno della vita familiare e sociale.

L’ultima parte della tesi sarà invece dedicata nuovamente al rapporto genitori-figli già toccato nel primo capitolo. È un rapporto fondamentale nella costituzione della realtà familiare, non solo un legame di sangue, ma, oggi come allora, anche di trasmissione di valori e insegnamenti. Anche a questo proposito si cercherà di rivedere la concezione stereotipata che vedeva i genitori come un mondo completamente distaccato dai propri figli, e le testimonianze raccolte ce lo permettono: le voci di padri sofferenti per la morte dei figli sono molteplici, così come le parole spese dai figli per condannare il comportamento a loro avviso sbagliato dei propri genitori. L’esempio analizzato più diffusamente è quello di Alessandra Macinghi Strozzi, che ci permetterà di scorgere i sentimenti di una madre costretta a mantenere i legami con i propri figli solo attraverso la scrittura di lettere che lasciano trapelare il dolore, l’affetto, le cure materne e la volontà di mantenere in vita uno dei rapporti più importanti che esista.

È solo attraverso la lettura delle voci dei protagonisti che possiamo realmente capire cosa essi provassero e cosa pensassero; l’importante è affrontare la lettura di tali passi senza gli stereotipi che

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6 hanno a lungo prevalso, o per lo meno provando a cogliere sfaccettature e passi emozionali che, pur sembrandoci impossibili e troppo lontani da noi, non vanno sottovalutati. Tutti questi esempi e testimonianze avranno, al termine di questo elaborato, lo scopo, con le dovute cautele, di dare un volto più umano a un Medioevo sempre considerato troppo freddo e insensibile.

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Capitolo primo

Una panoramica sulla famiglia medievale

Questo primo capitolo cercherà di dare un quadro il più possibile esauriente sul concetto di famiglia e su quanto centrale fosse il suo ruolo nella società a partire dai primi secoli di Medioevo fino ad arrivare alla fine di questa epoca storica, fulcro del mio interesse in questa tesi.

Il primo paragrafo è il punto di partenza, la base su cui sviluppare il discorso complessivo: si parlerà di matrimonio, di donne e di amore, temi che verranno ripresi nei capitoli successivi. Nel secondo invece, racconteremo le vicende e la storia di Dhuoda, una madre e scrittrice altomedievale: scattando un’istantanea del rapporto che poteva intercorrere tra madre e figlio.

Con l’ultimo paragrafo si scenderà nel mondo, spesso oscuro, della terminologia: molto frequentemente infatti si confondono o si considerano equivalenti termini come lignaggio e famiglia, per tale motivo si cercherà di individuare la linea sottile che li divide; in seguito, verranno definiti chi siano i parenti, chi siano gli amici e come questi si intreccino nel nucleo familiare, nucleo che non può essere considerato come oggi basato solo e strettamente sul rapporto coniugale o amorevole.

1.1. LA FAMIGLIA NELL’ALTO MEDIOEVO

Si dice che per capire veramente la società medievale si debba studiare l’organizzazione della famiglia, considerata la vera cellula sociale su cui si basavano tutti i rapporti esistenti, quello del padrone con il suo vassallo, dell’artigiano con il suo apprendista e perfino quello dell’imperatore con i suoi sudditi.

Parlare della famiglia nel Medioevo, però, è molto complesso per alcune motivazioni. Innanzitutto quando parliamo di Medioevo ci riferiamo a un periodo storico che copre un amplissimo arco cronologico della durata di circa mille anni, una serie di secoli come lo definì Flavio Biondo nel XV secolo. Per non parlare delle enormi differenze geografiche e istituzionali che sarebbe necessario analizzare dettagliatamente per riuscire a fornire una visuale completa dell’argomento. Obbiettivo che risulta complicato anche dal gran numero di istituti giuridici e abitudini esistenti: il matrimonio, la patria potestas, la dote, che vanno a comporre il concetto stesso di famiglia. Insomma, con “famiglia medievale” possiamo intendere una varietà pressoché infinita di entità differenti.

Bisogna quindi individuare dei limiti temporali e spaziali per il tema che stiamo trattando: perciò mi soffermerò sul tardo medioevo e sulla zona italiana.

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8 Prima di arrivare a parlare dell’epoca al centro di questo lavoro, è utile, però, fare un passo indietro e concentrarsi sulle strutture familiari dell’Alto medioevo, con la consapevolezza del fatto che non sarà facile darne un quadro esaustivo in poche righe. La realtà della famiglia altomedievale risulta estremamente complessa. Nella trattazione di questi temi sia qui che negli altri paragrafi si intrecceranno tre attori principali: le istituzioni, la chiesa e le donne.

La famiglia oggi come allora vedeva un momento fondamentale nella sua formazione con la nascita di figli e figlie. Oggi quando un nuovo nato viene al mondo acquisisce automaticamente sia da parte della madre sia dalla parte paterna i diritti che ne determinano la sua posizione giuridica sociale ed economica. Ma è sempre stato così? La risposta è no. Il diritto romano aveva relegato il ruolo della donna al ruolo di mero contenitore del seme maschile stabilendo che l’identità dei figli, la loro posizione sociale e ereditaria fosse legata a quella dell’uomo che si assumeva la loro paternità2.

Quando nel 553 Giustiniano volle la composizione del suo Digesto che ordinava il pensiero giuridico romano inserì questa parte:

La natura della parentela presso i romani è di due tipi: infatti alcuni legami parentali derivano dal diritto civile, altri dal diritto naturale. Vi è parentela per entrambe le leggi, naturale e civile, quando si forma un’unione attraverso il matrimonio legalmente contratto

(Digesta, XXXVIII, 10, 4)

Dal quale emerge che esisteva una parentela naturale, ossia quella biologica che legava inevitabilmente la donna ai suoi figli, e una parentela più istituzionale e giuridica che nasceva nel momento in cui l’uomo sceglieva di essere padre di quell’individuo. È solo questa parentela, agnatizia come viene definita giuridicamente, che attribuiva ai nuovi nati dei diritti: infatti il legame naturale fondato sulla maternità non produceva alcun effetto legale sui figli, in altre parole «la madre in senso giuridico non era considerata parente dei proprio figli neanche in mancanza del padre e non poteva neppure trasmettere loro beni che eventualmente possedesse»3. Giustiniano è però anche autore delle Novellae e nel capitolo CVIII stabilisce che si togliessero ai discendenti in linea diretta maschile tutti

i privilegi in materia di successione e attribuì diritti paritari agli elementi cognatizi della discendenza. Con cognatizio nel diritto romano si intende il vincolo che legava fra loro tutti i parenti di sangue, per cui una madre era legata ai propri figli con legame cognatizio e non agnatizio. È per tale motivo che i figli non potevano ereditare beni dalla madre perché nella prassi il patrimonio si trasferiva solamente, come abbiamo visto, solo agnaticamente. Nonostante le Novellae siano datate un decennio

2 T.Lazzari, Le donne nell’Alto Medioevo, Milano 2010, p.26 3 Lazzari, Le donne, p.26

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9 prima del Digesto si percepisce come le cose stessero iniziando a cambiare e come ciò che sembrava scontato iniziasse a traballare; non si deve pensare che tutto arrivò all’improvviso ma sicuramente fu un’evoluzione dovuta allo stretto contatto che già da tempo avveniva fra romani e popolazioni barbariche. Infatti a partire da una tarda età romana in cui le strutture e le istituzioni familiari diffuse sul suolo italiano erano abbastanza omogenee, lo scontro-incontro con nuovi popoli e la successiva convivenza con essi portò inevitabilmente a modifiche e contaminazioni. Il progressivo insediarsi in varie parti della Penisola di popolazioni barbariche introdusse varietà e complessità, in quanto esse erano portatrici di modelli familiari propri basati sulla consuetudine per la quale la parentela giuridica non era solo quella derivante dal padre, ma anche quella che legava i nuovi nati alla madre e al suo gruppo familiare d’origine.

Inizialmente anche il popolo longobardo suddiviso in fare, nome che si riferiva ai raggruppamenti familiari riconducibili ad un antenato comune, vedeva la famiglia come un organismo chiuso, una comunità patriarcale governata dal padre e nella quale la donna non aveva posizione di rilievo4. Infatti la donna longobarda, che pure poteva porsi alla guida della famiglia una volta morto il marito, era una res tradita, sempre soggetta al mundio paterno e maritale. L’Editto di Rotari recita così:

A nessuna donna libera che viva sotto la giurisdizione del nostro regno secondo la legge dei Longobardi sia consentito viere sotto la potestà del proprio arbitrio, cioè selpmundia, ma al contrario, debba sempre restare sotto la certa potestà degli uomini o del re; e non abbia la facoltà di donare o alienare alcunché dei beni mobili o immobili senza il consenso di colui sotto il cui mundio si trova

Nonostante il fatto che nella famiglia patriarcale longobarda vigesse il mundio, che in un certo senso assimilò l’istituzione della patria potestas romana, le consuetudini sulle quali si basava la legislazione familiare longobarda erano ben diverse da quelle romane; Franca Leverotti nel suo libro Famiglia e

istituzioni nel Medioevo italiano. Dal Tardoantico al Rinascimento parla di «paritetico maschilismo

longobardo». L’autrice chiede uno sforzo al lettore data la complessità dell’argomento, e quindi vista l’altrettanta complessità del testo cercheremo di trarne gli elementi principali su cui sviluppare poi i prossimi ragionamenti: si parla di maschilismo paritetico perché la legge longobarda favoriva nella successione mortis causa anzitutto i figli maschi legittimi in egual misura eliminando qualsiasi traccia di primogenitura; con questi potevano concorrere i fratelli naturali, seppur per quote inferiori (Rot. 154), ma mai le sorelle che quindi risultavano escluse dai processi ereditari. Molti di questi aspetti cambiarono con la conversione. Infatti la Chiesa ebbe un ruolo fondamentale nel modificare queste

4 F. Leverotti, Famiglia e istituzioni nel Medioevo italiano. Dal Tardoantico al Rinascimento, Roma 2005, p.27

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10 consuetudini, poiché si era battuta per riformare la legislazione riguardante la famiglia già attorno al V, secolo per esempio per scongiurare l’incesto prima del settimo grado di parentela o per introdurre norme che limitassero (e perfino impedissero) i divorzi.

Il passaggio dei longobardi al cattolicesimo offre infatti la chiave di comprensione per quasi tutte le maggiori trasformazioni avvenute nella mentalità, nelle pratiche di vita e nel diritto di questo popolo. Nell’VIII secolo le nuove leggi introdotte dal Re Liutprando – che può essere considerato il primo re cattolico – fecero penetrare sempre più fortemente le idee cristiane sulla questione matrimoniale, introducendo la sacralità del matrimonio (Liut. cap.117 coniuctio quam deus precepit) e di conseguenza migliorando la condizione della donna che poteva ora acconsentire o meno al matrimonio. Il re intervenne anche sulla questione familiare introducendo la possibilità che il padre di famiglia potesse disporre di una certa quota di patrimonio che doveva essere redistribuita in egual misura anche alle figlie femmine dando la possibilità alle figlie in assenza di fratelli di succedere pienamente al padre. 5

La Chiesa ha influenzato anche la struttura amministrativa franca e poi carolingia. Alla Chiesa di Roma Pipino e Carlo Magno chiesero che la normativa sul matrimonio si basasse su monogamia e indissolubilità del vincolo: da ciò emerge che sia la chiesa che il potere politico promuovevano la famiglia coniugale, anche se ovviamente le eccezioni non mancavano. La società franca era una società in cui il possesso delle cariche e degli onori era precario in quanto legato alla benevolenza dell’Imperatore: è per questo motivo che la disciplina matrimoniale era così importante. Di qui l’obbligo di rendere manifesto il matrimonio a partire dal 755, poiché al signore interessava disciplinare le alleanze dei suoi fideles e indirizzarne le successioni. Le famiglie franche erano famiglie molto numerose che continuavano ad allargarsi sempre più grazie ai rapporti di vassallaggio e amicizia, mettendo praticamente sullo stesso piano queste relazioni con i rapporti di sangue.

Questi continui scambi e contatti andarono ad intaccare, inoltre, una concezione fondamentale alla base della prassi giuridica romana: si pensava che nell’atto della procreazione la donna fosse solamente un ‘vaso’ nel quale si inseriva il liquido fecondante attivo maschile, come se solo questo liquido fosse in grado di formare un legame genetico con i figli. Grazie a questa teoria si provava scientificamente l’esclusione delle donne dalla tutela giuridica dei figli. Da questa posizione prese le distanze Isidoro da Siviglia, che sottolineò come «ogni generazione si compone di un seme duplice»

(Etimologie o origini, 620 circa), stabilendo quindi che la somiglianza dei bambini più al padre che

alla madre e viceversa derivasse dalla compartecipazione di entrambi i genitori durante la

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11 procreazione. Una tradizione ancora più femminista, se così possiamo definirla anacronisticamente, è quella delle saghe nordiche. Tiziana Lazzari nel suo libro Le donne nell’alto Medioevo propone un bel testo che racconta di come il dio Odino con l’obbiettivo di creare i tre ordini sociali sposò e ingravidò tre donne che «presentavano i talenti personali e le abitudini di vita che caratterizzano, preconizzandoli, i tre diversi gruppi sociali che dai loro tre figli avranno rispettivamente origine». Da questo testo emerge una concezione diametralmente opposta da quella mediterranea: infatti qui sono le donne che trasmettono ai discendenti qualità personali, fisiche e di appartenenza sociale. Questa prospettiva sembra essere non solo leggendaria, ma alla base anche delle leggi barbariche, poiché si sottolineava che l’appartenenza di ciascuno a un determinato ordine sociale derivasse dalla condizione personale della madre: se un aldio (individuo semilibero) prende in moglie una serva, sua o di un altro, i figli che nasceranno da lei siano servi di colui di cui è serva anche la madre (Editto di

Rotari).

Questo è solo uno degli esempi possibili, ma fa ben capire come i figli seguissero il destino materno: chi nasceva da una serva, servo diventava. Questa sembra poter essere una delle spiegazioni per le quali alcuni padri altomedievali, soprattutto di alto rango o potere, si rifiutavano di dare in moglie le proprie figlie. Infatti queste, se di origine regia per esempio, avrebbero trasmesso ai loro figli, indipendentemente dall’uomo che sposavano, una quota del potere arrivato loro in eredità dal padre: una quantità troppo elevata di aspiranti al regno avrebbe creato conflitti e tensioni.

A riguardo uno degli esempi più lampanti è quello di Carlo Magno: Eginardo, il suo biografo, ci racconta di quanto il sovrano fosse legato alle sue figlie scrivendo che

poiché erano molto belle e molto da lui amate, non volle mai darle in sposa a chicchessia dei suoi o di fuori, ma le tenne tutte con sé in casa fino alla sua morte, dicendo che non poteva fare a meno della loro compagnia6

Ovviamente la libertà di costumi che regnava alla corte franca fece si che più di una avesse relazioni quasi ufficiali e di lunga durata.7 Nonostante ciò nella Divisio Regnorum dell’806, il testo che dettava le volontà del sovrano riguardo il suo impero post mortem e le relative suddivisioni tra gli eredi, ritroviamo questo tema nel capitolo diciassette nel quale Carlo Magno ritenne giusto sottolineare che alla sua morte le sue figlie avessero la libertà di scegliere sotto la tutela e la protezione di quale fratello vivere, di avere la possibilità di scegliere la vita monastica e se proprio «iuste et racionabiliter a

6 G.Bianchi, Eginardo. Vita di Carlomagno, Roma 1988, p.66

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12 condigno viro ad coniugium fuerit quesita et ei ipsa coniugalis vita placuerit, non ei denegetur a fratribus suis si et viri postulantis et feminae consentientis honesta et rationabilis fueris voluntas»8.

Come emerge dalle righe precedenti bisogna pensare alla famiglia altomedievale come a un coacervo di istituzioni e allo stesso tempo di eccezioni difficili da raccogliere in poche righe, nelle quali è complicato trovare una via unitaria. Una delle cose più importanti a mio avviso che definisce questa varietà è la non istituzionalità di molte delle consuetudini di cui abbiamo parlato e di cui parleremo: molto è dato dalla tradizione, tutto è molto fluido e in divenire. È proprio in questo periodo che si cerca di incanalare istituzioni come la famiglia o il matrimonio in compartimenti ben precisi governati da leggi comuni.

Di certo sappiamo che il vero e proprio santuario della vita privata era la casa: case per lo più in legno con muri di argilla e paglia circondate da silos e cantine per le conserve cucinate poi in stoviglie e suppellettili in ceramica e bronzo.

Ma chi viveva in queste case? I parenti come li intendiamo oggi? Già in epoca altomedievale il termine parente era un termine di difficile definizione. Sicuramente la legge salica precisava che l’individuo poteva essere protetto solamente se facente parte di una parentela, essa era quindi una sorta di cellula protettrice come afferma il già citato Rouche. Al contrario della famiglia romana di stampo coniugale che grazie a leggi e disposizioni giuridiche poteva fermarsi a raccogliere sotto lo stesso tetto nonni genitori figli e schiavi, la famiglia altomedievale larga e allargata vedeva vivere in grandi case circa una dozzina di persone tra nonni, zii, zie , cugini con figli e in più servitori fideles e amici per questo «è obbligata a diventare sempre più numerosa perché la vita e l’eredità possano essere trasmesse»9 anche se è vero che il loro numero va diminuendo nel corso dell’età carolingia perché la Chiesa, come abbiamo visto, promuoveva sempre più la famiglia coniugale. Approfondiremo questo tema tra poco.

1.1.1. Sposarsi e divorziare nell’Alto Medioevo

Sicuramente in queste case vivevano un marito e una moglie. Ma come si diventava sposi nel Medioevo?

8https://www.dmgh.de/mgh_staatsschriften_5_2/index.htm#page/300/mode/1up (ultima consultazione: 01/11/2020)

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13 L’uomo, capo della parentela, aveva il possesso del mundio (simbolo di purezza del sangue e di autenticità della discendenza) dei suoi figli e figlie. Questo potere protettivo verrà poi passato nelle mani del marito delle sue figlie al momento del matrimonio, o meglio del fidanzamento, cerimonia che costituiva «una assicurazione contro la violenza e un certificato di garanzia della purezza della sposa»10. Purezza che doveva essere a tutti i costi mantenuta, tant’è che si doveva cercare di fare qualsiasi cosa per evitare che le donne si contaminassero: scongiurare gli stupri, gli adulteri, l’incesto e il rapimento era fondamentale. Al momento della cerimonia del fidanzamento, che aveva vera e propria effettività giuridica, i genitori ricevevano un dono, una cifra simbolica per riscattare il potere del padre sulla giovane. Tra i longobardi questa cifra prendeva il nome di meta. E’ curioso sottolineare che dopo questo donativo il matrimonio doveva avvenire entro due anni: se, trascorso questo tempo, il fidanzato rinunciava a sposarsi, la meta rimaneva comunque al titolare del mundio.11 Tra i franchi il riscatto del mundio si pagava solitamente un soldo e un denaro.

La cerimonia era pubblica e consisteva in un grande banchetto, con canti, scherzi e giochi spesso osceni per propiziare la fecondità dei due sposi. In seguito la sposa riceveva la dote composta da animali domestici, gioielli, pietre preziose. La dote nell’Alto Medioevo arrivava alle donne sia da parte del padre al momento del matrimonio che del marito; una signora sposata aveva un patrimonio formato dalla quota che le spettava dell’eredità paterna e appunto dalla dote maritale, che dava tranquillità alla donna in caso di vedovanza dandole capacità di azione. Alla fine della cerimonia, dopo la consegna da parte del futuro sposo di pantofole e anello nuziale (questa usanza già presente in epoca romana venne istituzionalizzata nelle Leges di Liutprando che nel capitolo 30 introdusse proprio la cerimonia dello scambio degli anelli), i due sposi si baciavano sulla bocca, simbolo dell’unione tra i corpi, e si dava inizio a un corteo che conduceva gli sposi alla camera nuziale (traditio). Sembra che presso i Franchi e i Germani il matrimonio consistesse essenzialmente nella sua consumazione: il momento più importante avveniva infatti la mattina seguente, quando la donna riceveva dal marito il morgengabe (dono del mattino), «consistente nel dono che il marito faceva alla sposa, in presenza dei parenti e degli amici, la mattina successiva alla prima notte di matrimonio, attestandone solennemente l’onorabilità, stante la facoltà di ripudio se non fosse stata vergine»12. La

donna diventava proprietaria del morgengabe a tutti gli effetti e continuava a disporne per tutta la vita anche nel caso in cui, rimasta vedova, decidesse di risposarsi.13

10 Ariès, La vita privata, p.350 11 Lazzari, Le donne. p.183

12https://www.treccani.it/enciclopedia/morgengabe/ (ultima consultazione: 04/11/2020) 13 Lazzari, Le donne, p.184

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14 Questa consuetudine germanica viene disciplinata dall’Editto di Rotari e dalle Leges di Liutprando in questi termini

Se qualcuno che vive sotto la legge longobarda vorrà dare alla sua sposa il morgengabio, nel momento in cui la unirà a sé nelle nozze, stabiliamo così, che il giorno successivo (alle nozze), di fronte ai suoi genitori ed agli amici la mostri, con uno scritto validato da testimoni e dica: "[Che] ecco, donai questo alla mia sposa come morgengabio.14

Liutprando inoltre decise che

tuttavia questo morgengabio non sia più consistente della quarta parte del patrimonio di colui che diede questo stesso morgengabio. Se qualcuno volesse dare una parte delle sue cose minore di un quarto, abbia, sotto ogni aspetto, libertà di dare quanto vorrà; perciò nessuno può dare più di questa quarta parte15

Per il re era importante stabilire ciò dato che in questa costituzione patrimoniale per le donne si creava una riserva che si aggiungeva a quella definita dalle pratiche ereditarie di questo popolo il quale, come abbiamo visto, voleva che ogni figlio sia maschio che femmina avesse la stessa quota di eredità.

Quando pensiamo al matrimonio pensiamo ovviamente che alla base del legame ci sia una forte volontà basata su affetto e amore da parte dei contraenti. Anche in questo caso non è sempre stato così. Il matrimonio nell’Alto Medioevo non aveva ancora alcun valore sacrale – anche se la questione cominciava a trovare spazio nelle riflessioni di alcuni vescovi – , bensì lo si considerava solamente un accordo legale.16 L’obbiettivo principale di un matrimonio era procreare, soprattutto se parliamo di sovrani o uomini di potere, tant’è che non c’era proprio niente di strano nel ripudiare la propria moglie se non fosse stata in grado di dare figli maschi. Questa oltretutto è una delle connotazioni che contrastava maggiormente con la concezione matrimoniale cristiana: infatti la

14«Si quis langobardus morgingab coniugi suae dare voluerit, quando eam sibi in coniugio sociaverit: ita dicernimus, ut alia diae ante parentes et amicos suos ostendat per scriptum a testibus rovoratum et dicat: "Quia ecce quod coniugi meae morgingab dedi", ut in futuro pro hac causa periurio non percurrat.» https://www.dmgh.de/mgh_fontes_iuris_2/index.htm#page/88/mode/1up (ultima consultazione: 01/11/2020) 15 «Ipsum autem morgingab nolumus ut amplius sit, nisi quarta pars de eius substantia, qui ipsum morgingab fecit. Si quidem minus voluerit dare de rebus suis, quam ipsa quarta portio sit, habeat in omnibus licentiam dandi quantum voluerit; nam super ipsam quartam portionem dare nullatenus possit». https://www.dmgh.de/mgh_fontes_iuris_2/index.htm#page/88/mode/1up (ultima consultazione: 01/11/2020) 16 Barbero, Carlo Magno, p.143

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15 Chiesa tentava di convincere i cristiani ad avere una sola moglie, a non risposarsi anche se fossero rimasti vedovi, ma nella realtà dei fatti questo non si realizzava praticamente mai.

Il matrimonio aveva anche lo scopo di stringere alleanze politiche nel caso di matrimoni di alto rango, o comunque semplicemente era comune che nel scegliere la consorte si tenesse a mente piuttosto l’interesse della famiglia che le inclinazioni personali. Nulla di romantico quindi, ma forse uno spiraglio per un diverso punto di vista si può trovare. È sicuramente difficile leggere parole d’amore nei primi secoli di medioevo, ma non impossibile: Tiziana Lazzeri riporta piccole poesie anonime nelle quali possiamo leggere versi del tipo: Soltanto un amore sicuro è una grande medicina del dolore, la grazia coniugale unisce te a me e io a te’ o ancora ‘Amore è latte per i bambini […] onda del mare per i pesci; anche noi caro ci tiene insieme l’amore reciproco, nessuno lo infranga.17

E così ci si palesa un amore coniugale, un sentire profondo che non avremmo mai accostato ad un’epoca in cui si potrebbe pensare che gli esseri umani, impegnati in una lotta continua per la sopravvivenza, fossero restii a lasciarsi andare a sentimenti simili nei confronti di rapporti costantemente a rischio di finire prematuramente.

Potremmo vedere uno spiraglio di romanticismo anche nel Friedelehe (letteralmente matrimonio degli amanti). Questo concetto è stato introdotto nella storiografia medievale durante gli anni Venti del Novecento da Herbert Meyer, ricevendo tuttavia varie critiche e confutazioni. Secondo l’autore questo tipo legame si basava su un accordo consensuale tra moglie e marito basato sul desiderio di stare insieme. «Uomini e donne si sarebbero in tal modo liberamente scelti senza che ci fosse bisogno di un vincolo giuridico formalizzato».18 L’unione in tal caso era pur sempre legale e onorevole, ma era stipulata mediante un semplice atto privato con il quale l’uomo non diventava tutore legale della donna, infatti «non sottraeva la donna alla potestà paterna per trasferirla sotto quella del marito»; è per questo motivo dunque che la relazione poteva ‘essere sciolta senza troppe formalità quando «l’interesse familiare o nel caso di un sovrano le ragion di stato lo richiedessero».19 Contro gli studi

di Meyer si scagliò Andrea Esmyol che nella sua tesi Amante o Moglie? Concubine nel Medioevo critica il fatto che le fonti utilizzate erano state tolte dal loro contesto, distorcendone così il significato. Secondo Esmyol, infatti, le citazioni testuali utilizzate da Meyer riguardano tutte situazioni di concubinaggio non portando ad alcuna conclusione circa l'esistenza di una forma più libera di matrimonio inteso come Friedelehe.

17 Lazzari, Le donne, pp.46-53 18 Lazzari, Le donne, p.46 19 Barbero, Carlo Margno, p.149

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16 È questo il caso di Carlo Magno che, oltre a essere nato da un matrimonio d’amore tra il padre Pipino e Bertrada, ebbe il suo primo legame non celebrato pubblicamente in forma ufficiale ma con una

Friedelfrau di nome Imiltrude che avrebbe poi potuto sposare regolarizzando definitivamente la

situazione, se la politica non lo avesse costretto a fare altre scelte. Infatti Carlo accettò di sposare la figlia del Re dei Longobardi Desiderio, conosciuta con il manzoniano nome di Ermengarda. Il matrimonio non durò molto, forse solamente un anno, perché Carlo decise di ripudiarla: potremmo pensare che la rapidità con la quale il sovrano si liberò della moglie sottintenda il suo risentimento per aver rinunciato ad Imiltrude, oppure più semplicemente e forse anche più verosimilmente Carlo scelse questa via per questioni meramente politiche, vista l’ostilità sviluppatasi contro i Longobardi.

E quindi se si fosse voluto divorziare? A questo proposito sembra che il colpo più duro dato in materia matrimoniale dalla Chiesa a partire soprattutto dall’VIII-IX secolo riguardi soprattutto il divorzio, che prima dell’avvento del Cristianesimo veniva praticato con una certa regolarità, tanto che Seneca nel De beneficiis., III, 16, 2, parlando della Roma Imperiale, affermava che le persone «divorziano per maritarsi, si maritano per divorziare». Sembrerebbe che presso i franchi il divorzio non fosse autorizzato, tant’è che chi rompeva il fidanzamento (e quindi il matrimonio) doveva pagare 62 soldi e mezzo di ammenda. A questo si preferiva piuttosto il concubinaggio o la poligamia, come dimostra l’ episodio di Eulalio e Tetradia raccontato da Gregorio di Tours nella sua Historia Francorum e riportato da Ariès in La vita privata. Dall’Impero romano all’anno Mille.

Eulalio era sposato con Tetradia, ma come molti mariti del suo tempo era circondato da concubine. La moglie sentitasi trascurata dal marito si gettò tra le braccia del nipote di Eulalio, Viro. La storia continua con Viro che, impaurito da una possibile reazione dello zio, inviò Tetradia dal conte Desidero promettendo di sposarla in seguito. Tetradia portò con sé la dote maritale di cui abbiamo parlato prima. La conclusione della storia non fu delle migliori: Desiderio sposò Tetradia, Eulalio uccise Viro, sposò una fanciulla rapita in un monastero e perse il senno a causa di un maleficio delle sue ex-concubine.

In questo racconto notiamo che ci sono tutte le perturbazioni possibili che si scontrano con una sana vita coniugale: concubinaggio, assassini, fughe e follia sessuale portata avanti dalle concubine stesse. A giudicare dalla mancanza di fonti, nel IX e X secolo si abbandonarono questi comportamenti, o per lo meno alcuni (visto che il concubinaggio sarà sempre presente), ma il divorzio e la poligamia sembrano scomparire.

Uno dei casi più celebri che ci presentano il divorzio nell’Alto Medioevo riguarda la pretesa di Lotario II di separarsi dalla moglie Teutberga che dopo alcuni anni di matrimonio non gli aveva ancora dato il figlio maschio che tanto aspettava, per poter poi sposare l’amante Valdrada che lo

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17 aveva già reso padre. Nel momento in cui il re avanzò questa pretesa il vescovo Incmaro di Reims, acerrimo nemico di Lotario, si oppose a ciò scrivendo nell’860 un poderoso trattato, il De Divortio

Lotharii regis nel quale si «disegnava per la prima volta in modo completo e argomentato partendo

proprio dal caso specifico la dottrina intransigente della Chiesa in materia».20 Il trattato si presentava composto da una serie di domande alle quali lo stesso Incmaro dava risposte ben argomentate: si chiedeva se esistessero donne-amanti capaci di far provare all’uomo un odio profondo verso le mogli, attraverso pozioni o malefici, si domandava a questo proposito se Lotario non fosse stato in grado di generare un erede perché impedito dai sortilegi di Valdrada. Oltre a ciò il vescovo era fermo sull’idea che

l’uomo e la donna, dato che il sacro verbo afferma che ora non sono più due ma una sola carne, non possono separarsi né con un giuramento segreto, né con un lungo libello, dato che è stato scritto Ciò che Dio ha unito, l’uomo non separi, né in qualunque altro modo.21

Incmaro è uno dei tanti uomini che si fece portavoce, in nome di Dio e in nome del diritto canonico,

di una riforma ecclesiastica in materia di sacralità del matrimonio, di unicità del rapporto marito-moglie e di inscindibilità del vincolo, che prevedeva in questo senso

l’approvazione del diritto d’ingerenza del vescovo nelle relazioni tra gli sposi, considerate finora esclusi vamente come una questione dei gruppi familiari, che rappresentava una svolta considerevole, e anche se nel IX secolo la Chiesa non disponeva ancora di piena competenza in materia matrimoniale22

Poiché la strada non era così facile da percorrere, i ripudi, le concubine, le separazione e persino gli

uxoricidi contro donne considerate non degne di portare avanti un matrimonio erano dietro l’angolo.

1.1.2. Donne e amore, un’accoppiata pericolosa

Nell’Alto Medioevo in nessun testo troviamo la parola amore con significato positivo. Esso è sempre una passione sensuale spesso distruttiva che si riferisce piuttosto al rapporto tra amanti

20 Lazzari, Le donne, p.48 21 Lazzari, Le donne, p.63

22 A.Pieniadz, Incmaro di Reims e i suoi contemporanei sull’uxoricidio: l’insegnamento della Chiesa e la

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18 rispetto a quello coniugale. Infatti per indicare il sentimento alla base del matrimonio Innocenzo I parlava di charitas coniugalis o di dilectio, termini di difficile traduzione che sembrano però fare riferimento a sentimenti come tenerezza, amicizia, rispetto. Jean Pierre Devroey ha scoperto un esercizio scolastico in un’abbazia belga che descrive gli opposti delle virtù teologali: l’amore è ciò che cerca di accaparrarsi tutto, la carità ciò che tutto tiene unito, il suo esatto opposto23. Ciò si può osservare direttamente nella lettera che Carlo Magno inviò all’amico Lupo abate di Ferrieres, nel quale rivela la sua dilectio nei confronti di colei che era stata moglie sorella e compagna. 24 Il matrimonio aveva anche lo scopo di stringere alleanze politiche nel caso di matrimoni di alto rango, o comunque semplicemente era comune che nel scegliere la consorte si tenesse a mente piuttosto l’interesse della famiglia che le inclinazioni personali.

Per i Germani esisteva anche un’altra parola per definire l’istinto passionale dell’amore, la libido, spesso riferita ad una donna, come avvenne nel 517 quando il re burgundo Sigismondo emanò una legge speciale per graziare Onegilda, una vedova rifidanzatasi che fu incendiata da un grande desidero (libido per l’appunto) verso un altro uomo. Le vedove che fossero state vinte da libido e quindi si fossero unite a qualcun altro, e questa unione fosse divenuta di dominio pubblico, avrebbero perso tutti i loro diritti. L’amore considerato in questo senso è distruttore, portatore di comportamenti vili e indegni: la donna che si lascia andare al desiderio emana fetore di adulterio, se scoperta poteva essere uccisa, strangolata, gettata in una palude fangosa. Il costume franco era ancora più severo, poiché si riteneva che la donna adultera avrebbe macchiato con il suo comportamento tutta la discendenza. Perciò la colpevole doveva essere uccisa bruciandola viva, oppure sottoponendola all’ordalia dell’acqua, che consisteva nel legarle un masso al collo per poi farla precipitare nel fiume: se avesse galleggiato, veniva considerata innocente. La donna andava protetta, il che sembra un segno di grande modernità, se non che la protezione che si doveva loro era rivolta al timore che l’onore della famiglia fosse violato dalle donne di casa. Per questo le donne dovevano essere osservate da vicino, tenute sotto controllo, scortate durante uscite in cui potenzialmente potessero essere sedotte. Per fare un esempio, Adele di Fiandra durante il suo viaggio da pellegrina a Roma nell’XI secolo rimase sistemata in una dimora ambulante con le tende costantemente chiuse. Nel caso in cui una donna fosse sterile o non desse il figlio maschio tanto desiderato, il capofamiglia svelava il tradimento segreto, per poter infliggere alla colpevole il giusto castigo.

Siamo di fronte a una società al limite dello spietato dove il giusto castigo molto spesso come abbiamo visto porta all’uccisione della moglie, e in cui per l’appunto il diritto (e l’obbligo) di uccidere la donna adultera oppure colei che complotta contro la vita del marito costituiva un anello importante del

23 Ariès, La vita privata, p.364 24 Ariès, La vita privata, p.363

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19 sistema delle sanzioni che permettono di stabilire e mantenere l’ordine sociale. «Sul piano morale era l’imperativo dell’onore che guidava i modi di pensare e i canoni di comportamento dei membri della società. Le azioni violente del marito assumono significato all’interno del codice d’onore, secondo il quale la vita non costituiva un valore assoluto e si incentrava sulla difesa del prestigio e della rispettabilità dell’uomo e dei suoi familiari».25

Per questo motivo nonostante tutto la donna doveva essere considerata importante: la famiglia ha bisogno di donne per dare alla luce figli e quindi discendenti. E per dare alla luce discendenti degni è necessario che le donne siano pure, perché solo in quel caso potevano dar vita ad una discendenza altrettanto pura.

1.2. LA VOCE AFFETTUOSA DI UNA MADRE DI MILLEDUECENTO

ANNI FA

Francia, 841. Nel castello di Uzes, una città dell’attuale Linguadoca, la moglie del duca locale, Bernardo di Settimania, cugino di Carlo Magno, ha da poco dato alla luce un neonato che le è stato portato via non ancora battezzato dal marito, il quale si trovava al seguito di Pipino d’Aquitania. Destino che aveva subito anche con il primo figlio, Guglielmo, costretto dal padre a vivere con lui presso la corte dell’imperatore come commendato. Erano anni di ferro durante i quali lunghe lotte fra i discendenti di Carlo Magno laceravano l’impero da lui costruito, e lei rimasta sola prese parte personalmente alla difesa del ducato della sua famiglia e della Settimania, dovendosi destreggiare tra debiti e problemi causati dalle spese militari. A questo punto è lecito pensare che la protagonista di questa storia sia una donna dura, segnata dalla vita che l’ha allontanata da ogni affetto, e portata più per il comando che per i sentimenti. Invece, Dhuoda, così si chiamava, era una donna di straordinaria cultura, con un profondissimo senso religioso e una grande conoscenza non solo delle scritture sacre ma anche dei testi filosofici del passato e delle teorie, del calcolo aritmetico.

L’841 oltre essere l’anno in cui ha partorito il neonato strappatole troppo presto, è una data fondamentale per la sua biografia visto che iniziò a scrivere il “Liber Manualis”, un libro-guida per il figlio Guglielmo cresciuto lontano da casa. Appartenente a un genere letterario diffuso quello degli

specula principis (libri di istruzione per i principi), questo liber manualis (cioè un libro da tenere tra

le mani, sempre con sé) fu scritto con lo scopo di insegnare al proprio figlio lontano il timore di Dio e il retto comportamento da tenersi sia nella vita privata sia in quella pubblica a corte.26 Dhuoda è

25 Pieniadz, Incmaro di Reims e i suoi contemporanei, p.26

26 T. di Carpegna Falconieri, A. Feniello e C. Grasso (a cura di), Fonti medievali. Un’antologia, Roma 2017, p.79

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20 dunque in qualche modo segnata dalla sua maternità, è una madre che non può vivere quotidianamente la crescita e la formazione dei figli, non può indirizzarli verso una vita giusta con i suoi insegnamenti e con le cure amorevoli tipiche della maternità e quindi si immagina in qualche modo di essere vicino a Guglielmo, gli parla, accorcia le distanze scrivendo.

Il fatto che un testo del genere venga appunto scritto da una donna non è cosa da sottovalutare, perché rappresenta senza dubbio un unicum nella letteratura altomedievale. Dhuoda è a tutti gli effetti una scrittrice, è lei stessa a dirci che è tutta farina del suo sacco dall'inizio alla fine, nella forma come nella sostanza, nella melodia delle poesie come nell'argomentazione della prosa. Riflette spaziando da temi morali sulla sua posizione, ai doveri e alle difficoltà di un giovane uomo, il figlio, lontano da casa, dandoci una chiara e precisa visuale sulla cultura e sulla società del suo tempo.

Lasciamo a lei la parola. Dhuoda parla al figlio riconoscendosi come guida nei suoi confronti e scrive «anche se di giorno in giorno la tua biblioteca si arricchisce di molti volumi, ti piaccia comunque leggere spesso questa mia piccola opera; e possa tu con l'aiuto di Dio ricorrervi per il tuo bene»27 e ancora: Figlio mio, avrai altri maestri che ti insegneranno cose in numero maggiore e più utili, ma non nella medesima condizione, con l’animo che arde nel petto come faccio io, tua madre, o figlio mio primogenito»28

Già da queste primi passi si capisce come Dhuoda, ferita dalla lontananza dei suoi figli e consapevole che «la maggior parte delle madri di questo mondo possono godere della vicinanza dei loro figli»29 conosce il valore e la forza dell’amore materno, e non si risparmia mai dallo spiegare loro quanto siano amati.

L’amore è una delle forze che Dhuoda pone alla base della vita, lungo tutto il testo si fa sempre riferimento a questo sentimento in molte delle sue sfaccettature, è l’amore che fa si che gli altri ti rispettino, dare amore porta amore come emerge da questo passo

Ama Dio, cerca Dio, ama il tuo fratellino, ama tuo padre, ama gli amici e i compagni in mezzo ai quali vivi alla corte regia o imperiale, ama i poveri e gli infelici, ama tutti per essere amato da tutti, prediligili per essere prediletto; se li ami tutti, tutti ti ameranno; se li ami ciascuno, tutti ti ameranno.

27«Licet sint tibi multa adcrescentium librorum volumina, hoc opusculum meum tibi placeat frequeuter legere, et cum adjutorio omnipotentis Dei utiliter valeas intelligere». https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k7090w/f54.image.r=Licet%20sint%20tibi%20multa%20adcrescentium %20librorum?rk=21459;2 (ultima consultazione: 01/11/2020)

28 Carpegna Falconieri et alii, Fonti medievali, p. 80

29«Cernens plurimos cum suis in seculo gaudere proles».

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21 È interessante il duplice codice proposto dalla madre al figlio, che si riferisce a due ordini di doveri: quelli del giovane verso la Corte del sovrano e verso la sua famiglia (sia verso il fratello sia verso il padre) e quelli del cristiano verso Dio. Accanto all’ amore, Dhuoda segnala quali siano comportamenti positivi da seguire, perché per lei è fondamentale che tutto ciò che scrive non sia lasciato al caso. Infatti ricorda al figlio che «quando il manuale ti sarà giunto, dopo essere uscito dalla mia mano, voglio che tu lo stringa nella tua con amore; e che tenendolo stretto, e sfogliandolo, e leggendolo, tu t’impegni a fondo a tradurlo nelle tue azioni»30.

Le azioni per vivere una vita giusta e rivolta alla salvezza si basano sicuramente sulla discretio come misura e controllo dell’emotività; sula gioia che è fonte di energia e sulla generosità che distingue il vero uomo nobile. È il fatto di «rendere onore a tutti, ai grandi come ai piccoli, a chi ti è uguale come a chi ti è inferiore: e non solo con le parole, ma anche con i fatti»31 che permetterà a Guglielmo di essere amato ed aiutato, è il porgere l’altra guancia e la mano, pronta al servizio che lo farà amare da Dio, poiché Dio ama chi sa donare con gioia.

Lei, donna di profonda cultura, si concentra molto sulla crescita spirituale del figlio, che pensa essere estremamente connessa alla lettura e alla passione per la cultura. Lo esorta infatti a studiare, leggere e scrivere, gli fa capire che «fra le cure mondane di questo mondo non ti sia fastidioso procurarti molti libri».32 Quando si sentirà solo o bisognoso di consigli, spera che Guglielmo potrà trovare aiuto e conforto suo libello dicendogli che «leggendolo con la mente e con il corpo potrai ancora vedermi, come nel riflesso di uno specchio».33

Uno dei passi più profondi è sicuramente la metafora dell’albero. Dhuoda paragona la vita spesa con grandezza e fedeltà a «un albero bello e nobile che produce delle foglie nobili e porta dei buoni frutti», quindi è solo vivendo una vita retta che si potrà diventare un uomo dall’animo nobile e gentile, ed è proprio questo che spera per il destino del figlio. Scrive infatti: «Su un albero come questo ti invito ad innestarti, figlio mio».34

Usando termini eleganti ed elevati, Dhuoda rappresenta i timori di ogni madre, le paure di vedere un figlio vinto dalla vita, la voglia di poterlo indirizzare al meglio pur lasciandogli la libertà di scegliere e di sbagliare; è una madre di milleduecento anni fa, e nonostante questo non stentiamo a trovare

30http://www.uni3ivrea.it/ARCHIVIO/anno%202010/DOCUMENTI/DONNA/Testi%20dal%20Liber%20M anualis%20di%20Dhuoda%20_2_.pdf (ultima consultazione: 01/11/2020)

31https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k7090w/f114.image.r=honorem (ultima consultazione: 01/11/2020) 32 Falconieri Carpegna et alii, Fonti medievali, p.79

33 Falconieri Carpegna et alii, Fonti medievali, p.80

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22 affinità con le madri di oggi che come lei non vedono altro che la felicità dei propri figli, tanto da anteporre la loro alla propria. Sentiamo spesso queste parole, spesso le ho sentite pronunciare anche da mia madre, e non sembrano tanto lontane da queste con le quali si conclude il capitolo sperando di scaldare la freddezza medievale di cui spesso si parla: «la dolcezza del mio grande amore e il desiderio della tua bellezza mi hanno resa quasi dimentica di me stessa».35

1.3. IL PRIVATO SI ALLARGA: DAL LIGNAGGIO AGLI AMICI

Quindi, se una donna non avesse dato eredi degni e legittimi non si stentava a ‘licenziarla’, visto che perpetuare la discendenza era fondamentale, soprattutto se ci riferiamo all’epoca cosiddetta feudale. È adesso, tra il X e XI secolo, che gli storici, pur con oscillazioni legate a specifiche condizioni locali, fissano la “data di nascita” di quella che verrà da lì in poi definita nobiltà. Questo momento di passaggio coincide proprio con «il progressivo affermarsi di forme di autocoscienza familiare, che possono essere originate dal possesso di un determinato ruolo socio-economico o funzione politica – in primo luogo la vassallità o altre forme di dipendenza –, dalla prossimità ad un sovrano oppure dal formarsi di una consapevolezza dinastica che promana appunto dall’antichità della stirpe. In tutti i casi categoria fondamentale è la memoria genealogica, che è elemento di coesione del gruppo familiare, quando addirittura non si identifichi con tale coesione»36. Tutto ciò si coagula attorno al possesso di beni fondiari, che diventano il cardine del sentimento di appartenenza ad una genealogia ben precisa e, una volta realizzatisi i processi di stabilizzazione sul territorio, la necessità di difendere l’integrità del patrimonio dalla concorrenza di parentele diverse condusse alla prevalenza dell’agnazione sulla cognazione, che portò a due conseguenze principali: l’affermazione del lignaggio, considerato appunto come un gruppo articolato in linee patrilineari, e i cognomi, da ora necessari per il riconoscimento identitario e patrimoniale legato al cognome stesso.

Da questa spiegazione sembrerebbe che termini come parentela e lignaggio siano sovrapponibili. Dominique Barthelemy sottolinea invece come il termine lignaggio si riferisca a un gruppo particolare di individui definito dalla discendenza da un unico ramo 37, la cui etimologia deriverebbe dal francese antico lignage che a sua volta si riferirebbe al latino linea, ossia linea di discendenza, mentre invece il termine parentela è riferito alla relazione generale tra parenti.

35http://www.uni3ivrea.it/ARCHIVIO/anno%202010/DOCUMENTI/DONNA/Testi%20dal%20Liber%20M anualis%20di%20Dhuoda%20_2_.pdf (ultima consultazione 01/11/2020)

36 M. Bettotti (a cura di), Famiglia e lignaggio: l’aristocrazia in Italia, Reti Medievali 12, 1 (2004) 37 P.Ariès, G.Duby (a cura di), La via privata. Dal feudalesimo al Rinascimento, Milano 2001, p.93

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23 Il lignaggio dominava la vita sociale e politica delle città italiane fino al secolo XV; nei secoli XI e XII rafforzava la sua consistenza e ravvivava la sua memoria genealogica. Minacciati o indeboliti, i lignaggi avevano determinato la creazione delle vaste

parentele artificiali riunite sotto un nome totemico.

Anche quando non vivevano sotto il medesimo tetto, le famiglie apparentate condividevano un complesso di comuni preoccupazioni (dal patrimonio, ai matrimoni, agli aiuti reciproci). «La parentela ravvicina; crea solidarietà, ma non necessariamente un’intimità. Nel lignaggio in senso esteso ci sono cugini che non si vedono mai e che partecipano solo marginalmente o occasionalmente del privato. La solidarietà di lignaggio non sempre è fonte di intimità privata. Al contrario, amici che si vedono costantemente o vicini molto prossimi sono più immediatamente e più normalmente ammessi nel privato».38

Quasi sempre associati ai parenti di sangue troviamo infatti termini come amici e vicini che completano la triade di persone che rientrano nel privato familiare. Nella vita di tutti i giorni quindi non mancavano le occasioni di allargare spontaneamente il proprio spazio privato, poiché ogni famiglia poteva contare su un gruppo stabile di amici che appunto completava l’entourage del sangue. Gli amici non sono numerosissimi, circa una dozzina, come ci testimonia il banchiere fiorentino Lapo Niccolini, ma erano sempre presenti, calorosi e desiderosi di aiutare. Sono vicini nel vero senso della parola, partecipano alla vita quotidiana, danno consigli, diventano veri e propri parenti spirituali che saranno alla base di tante affermazioni politiche nelle città italiane del XIV-XV secolo. Ma questa è tutta un’altra storia.

E’ proprio lo spazio cittadino che favorisce il costituirsi di legami privati in senso largo che uniscono diverse famiglie di uno stesso lignaggio o di lignaggi differenti, che sfoceranno poi nelle trecentesche consorterie o negli alberghi genovesi. Questi legami di solidarietà e queste reti amicali nascono in tenera età e spesso si protraggono per tutta la vita. Non mancano gli esempi di adulti che ricordando i tempi passati sottolineando come molti amici del presente fossero gli amici di sempre, vicini a loro fin da bambini. Se ne deduce che queste solidarietà contassero, e formassero una delle basi più solide del privato allargato, che si manteneva vivo in spazi ben precisi: pensiamo alle logge, ai sedili nelle piazze o ai banchetti casalinghi. I momenti di riunione più significativi erano ovviamente la gioia del matrimonio, in cui il parentado e i consortes si facevano sentire più che mai, ma anche nel momento del dolore, della malattia e della morte e perfino al minimo e più piccolo problema: infatti bastava che una giovane donna gridasse ‘Aiuto’ che la sua casa si riempiva di una miriade di persone in suo soccorso.39

38 Ariès, La vita privata, pp. 94-95 39 Ariès, La vita privata, p.202

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24 Molto spesso però la solidarietà delle famiglie e più ancora quella tra cugini e quella derivante dal lignaggio era messa alla prova, per esempio da viaggi professionali, da esili o da guerre. Poteva essere infranta anche dalla morte dei suoi membri, cosa disonorevole visto che la vita dopo la morte c’è e va ricordata sempre. La morte non doveva essere considerata come la parole fine, anzi il rapporto con il defunto andava continuamente mantenuto pregandolo, pensandolo e ricordandolo. A questi due pericoli gli italiani degli ultimi secoli del Medioevo cercarono di porre delle difese: iniziarono a scrivere, a scrivere di loro, dei loro avi, di ciò che facevano e di come pensassero, e soprattutto iniziarono a scriversi, mandarsi lettere, per non spezzare mai il rapporto con l’assente. Proprio di questo ci occuperemo sia nel prossimo paragrafo che nell’ultimo capitolo di questa tesi per dare un volto più umano a un Medioevo sempre considerato troppo freddo e insensibile

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Capitolo secondo

Scrivere d’amore: amore pensato e amore vissuto

«Sentimento di viva affezione verso una persona, che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia»

L’Enciclopedia Treccani definisce così l’amore. Oggi se ne parla spesso infatti in film, canzoni, fiction, dibattiti questo termine riecheggia moltissimo, ma definire e chiarire che cosa realmente sia l’amore risulta veramente complicato. Per noi l’amore è scegliersi liberamente ogni giorno, è un sentimento incondizionato e profondo dalle mille sfaccettature, libero e disinteressato. Ma anche le donne e gli uomini del passato lo pensavano così pur vivendo in un’epoca molto lontana e diversa dalla nostra? A questo punto ci si può chiedere se l’amore quale lo conosciamo oggi debba qualcosa ai tempi passati, nel nostro caso all’epoca medievale, e se da essa abbia tratto qualche elemento caratterizzante.

Sicuramente il Medioevo è considerato da molti come un’epoca tetra e buia, di oppressione sia materiale che spirituale, e svariati sono i luoghi comuni che aleggiano attorno all’esistenza dell’amore e dell’affetto. In questo capitolo cercheremo di capire quali sentimenti le donne e gli uomini del tempo sentissero dentro di loro, e come questi venissero espressi. Così come oggi, l’amore era il protagonista di lettere, poesie e componimenti letterari: il primo paragrafo studierà i tratti fondamentali della letteratura d’amore bassomedievale, parlando di quella che è da sempre definita come la storia d’amore più straziante del medioevo. Il secondo paragrafo ci permetterà di studiare l’amore vero tra Abelardo ed Eloisa, il terzo, invece, parlerà di Dante: analizzeremo il suo matrimonio con Gemma Donati e del suo unico grande amore della vita, Beatrice. Passeremo poi ad analizzare il tema del sesso, che è sempre e da sempre legato all’amore o comunque alle relazioni uomo-donna.

Una volta concluso il tema dello scriver d’amore vedremo come e se tutto questo si riproponesse nella realtà dando una panoramica dell’amore quotidiano, del suo svilupparsi in famiglia e di come esso interessasse la vita di uomini e donne medievali. La prima parte dell’ultimo paragrafo ci porterà indietro nel tempo, scattando un’istantanea di vita quotidiana tra le mura domestiche per vedere più da vicino una vera famiglia medievale con i suoi ritmi e le sue abitudini. Per concludere si vedrà se all’interno della casa allo stesso modo di oggi si riescano a sviluppare sentimenti di affetto e amore in un mondo in cui sembrerebbe che alla base di ogni rapporto ci sia solamente l’interesse delle famiglie stesse di mantenere in vita relazioni economiche e amicali utili solo al prestigio e al successo familiare.

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2.1. IL MEDIOEVO E LA LETTERATURA D’AMORE: LA REALTÀ È

ALL’ALTEZZA DELLA FANTASIA?

Quando pensiamo all’amore siamo consci che alla sua base ci siano una serie di concetti ed equilibri che abbiamo imparato più o meno a rispettare. L’unicità dell’amore, la sacralità e la sincerità di esso, una certa riservatezza nelle sue espressioni, la sua libertà e il suo essere fine a se stesso. Tutti questi concetti li ritroviamo e li traiamo in gran parte dalla letteratura, e in particolar modo dalla letteratura provenzale del XII secolo e dai suoi successivi sviluppi. Lo storico francese Henri-Irenee Marrou definiva l’amore invenzione del XII secolo. Di certo con questa espressione non intendeva dire che prima di quel momento l’amore non fosse mai esistito, ma che l’amore così come lo intendiamo oggi, detto in modo semplicistico romantico, è figlio dell’amore cantato per la prima volta nel XII secolo nella poesia lirica dei trovatori (termine che deriva dal provenzale trobar,

poetare, comporre) provenzali, che scrivono in lingua d’oc. In questo contesto nacque il

cosiddetto amor cortese, come lo chiamiamo noi e che loro chiamavano fin’amor. E dalla Francia è arrivato nella nostra penisola, prima attraverso la Scuola siciliana, per poi arrivare ai poeti toscani e vedersi trasformato in termini che vedremo successivamente grazie ai poeti del Dolce Stil Novo: potremmo dire che l’intellettuale del XII secolo è intrinsecamente amoroso.

Su cosa fosse il fin’amor sono stati versati litri di inchiostro e forse ancora oggi una definizione unitaria non l’abbiamo: è un amore platonico, mai consumato? Le donne che vengono cantate sono donne storiche o mai esistite? Per provare a rispondere a queste domande vediamo innanzi tutto quale sia il tema principale dei loro componimenti. I trovatori parlano d’amore e ne parlano secondo i canoni cortesi: il poeta esprime la sua adorazione nei confronti della donna amata proclamandosi suo umile servitore, senza pretendere nulla in cambio. Spesso manifestano il loro desiderio, ma anche il tormento di non poterlo soddisfare, perché non bisogna dimenticare che le donne di cui si innamoravano erano sposate e la fedeltà verso i mariti era incrollabile (in teoria). Nonostante questo dalle loro poesie sembra trasparire un senso di gioia e felicità che in più occasioni è paragonato al fiorire della natura in primavera. Quando l’amore viene consumato, sfociando in un amore adultero, il timore che voci di corridoio possano diffondersi fa sì che il nome della amata non venga praticamente mai citato. I trovatori provenzali hanno stabilito un nuovo paradigma: la donna amata merita devozione ed è altro dall’uomo che la ama. In gran parte della storiografia viene a galla l’idea che le figure femminili cantate dai trovatori siano totalmente inventate, ma leggendo i versi profondi e sentiti di Arnault Daniel o di Bernart de Ventadour si ha invece la netta impressione che si tratti di donne in carne ed ossa.

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27 Nella Canzone della lodoletta non possiamo pensare che Bernart scriva di una donna immaginaria e che il dolore che mette in versi non sia stato realmente provato. Ecco le sue parole:

Ahime! Tanto credevo sapere d’amore e tanto poco ne so! Che non posso tenermi d’amare quella da cui nulla mai otterrò.

Tolto m’ha il cuore , tolto m’ha me stesso e se stessa m’ha tolto e tutto il mondo, nulla togliendomi mi ha lasciato se non desiderio e cuore bramoso40

L’amore qui è visto come una forza negativa e devastante di cui sono minutamente indagati cause ed effetti, è un amore che provoca dolore e lacerazione, che derivano dalla consapevolezza di riconoscere la donna amata come troppo lontana e distante, irraggiungibile. Molti studiosi sono di questo parere, infatti proprio perché i poeti sentono la distanza incolmabile tra loro e le donne esse devono essere pensate in carne ed ossa. Ricordiamoci anche a questo proposito, come abbiamo sottolineato precedentemente, che nella maggior parte dei casi le donne di cui si parla sono donne sposate, per cui intoccabili.

Anche spostandosi geograficamente e approdando nella Sicilia degli anni Quaranta del Duecento in cui si sviluppò alla corte di Federico II la Scuola siciliana, vediamo che il tema amoroso e le forme metriche (canzone, ballata, cui si aggiunse il sonetto di loro creazione) sono stati proposti in modo analogo ai trovatori provenzali: è centrale infatti l’omaggio dell’uomo alla donna, depositaria di virtù e pregi e per questo degna di stima e reverenza e i temi fondamentali giravano esclusivamente intorno all'amore. Dell’origine amorosa della poesia italiana ci parla Dante Alighieri. Infatti nella Vita Nova egli afferma che «il primo a scrivere poesie in italiano lo aveva fatto per farsi capire da una donna alla quale voleva dichiarare il proprio amore, dal momento che le donne non conoscevano il latino»41. Dante aveva ovviamente in mente i poeti siciliani, e nello specifico probabilmente pensava al notaio Giacomo da Lentini. Oggi possiamo fissare la nascita della poesia d’amore in volgare ancora prima ,addirittura alla fine del XII secolo: Quando eu stava in le tu cathene che precede la produzione del notaio di almeno un ventennio, e dunque appare tra le più antiche attestazioni della lirica profana italiana, ed è corredata da una sommaria notazione musicale, probabilmente fu trascritta tra il 1180 e

40 Traduzione italiana di A. Roncaglia, in Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oil, Milano 1961 41 A.Andreoni, Ama l’italiano. Segreti e meraviglie della lingua più bella, Milano 2017, p.59

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