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2 Geografia nel testo

2.1 Le novelle geografiche

2.1.1 Gente in Aspromonte

Non è per pura casualità che la prima novella, la più lunga della raccolta, dia il titolo all’intera opera: Gente in Aspromonte è la massima espressione della “calabresità” di Corrado Alvaro, una sorta di romanzo breve che esprime efficacemente il sentimento duplice di quest’autore nei confronti della sua terra; la sua è un’affettuosa memoria di un mondo chiuso, la nostalgia forte per una terra già sommersa dal male ancor prima che il suo popolo ne divenga consapevole. Questo sentimento antico è strettamente connesso però al giudizio di un uomo moderno, un calabrese che si è allontanato per studiare, ed è proprio questo distacco, colmato da un ampiamento culturale, che permise ad Alvaro di percepire il degrado in cui sopravvive la Calabria e di poterlo denunciare con le sue opere (partendo appunto da questa novella che è l’emblema del suo pensiero). Nonostante questa consapevolezza, il ricordo dei paesaggi dell’infanzia in tutta la loro spettacolarità hanno il sopravvento sul giudizio morale, e lo scrittore si lascia andare a lunghe descrizioni di quei luoghi, come nel celeberrimo incipit sui pastori d’Aspromonte:

Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro rinforzato d’erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi

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vestiti di lana nera, animano i cupi monti e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande pei porci neri. […] Stanno accucciati alle soglie delle tane, davanti al bagliore della terra, e aspettano il giorno della discesa al piano, quando appenderanno la giacca e la fiasca all’albero dolce della pianura. Allora la luna nuova avrà spazzata la pioggia, ed essi scenderanno in paese dove stanno le case di muro, grevi delle chiacchiere e dei sospiri delle donne. Il paese è caldo e denso più di una mandra. Nelle giornate chiare i buoi salgono pel sentiero scosceso come per un presepe, e, ben modellati e bianchi come sono, sembrano più grandi degli alberi, animali preistorici. (Alvaro, 2000, p. 3)

I due protagonisti entrano in scena per accompagnare lo sguardo dell’autore, risalendo insieme per quelle terre impervie e pericolose, legate ad una dimensione mitologica e quasi imperscrutabile, immersa nel mistero della notte:

Il padre si sedette un poco, si terse il sudore, poi si levò, si caricò la bisaccia a tracolla: «Andiamo». Ma prima di partire chiuse accuratamente la porta di frasche assicurandola con un macigno che vi rotolò davanti. Si vedeva di lontano il mare balenante nell’ombra serale, che laggiù non era ancora arrivata, e davanti al mare una montagna che pareva un dito teso, e ancora più vicino la striscia bianca del torrente. La sera girava pei monti in silenzio e ripiegava i lunghi raggi del sole. Le ombre cominciavano ad allungarsi per la pianura. (Ibidem, p. 6)

Si percepisce, andando avanti nella lettura, la fatica del piccolo Antonello nel dover accompagnare il padre, un fardello sulle sue spalle che egli percepisce ma ancora non riconosce: quando si uniscono ai pastori, il padre, l’Argirò, racconterà la disgrazia capitatagli, dando già un piccolo assaggio del dolore al quale l’intera famiglia sarà sottoposta. Come se la meta non portasse sollievo ma presagisse una sofferenza più grande, l’arrivo in paese diviene una descrizione mitica, ma tutto reso con un’incredibile precisione di dettagli:

Risalito il poggio, le case addossate una all’altra come una mandra si presentarono ai loro occhi. Da secoli questo paese si era cacciato nella valle, e vi si era addormentato. Intorno, a qualche miglio di distanza, gli altri paesi che si vedevano in cima ai cocuzzoli rocciosi si confondevano con la pietra, ne avevano la stessa struttura, lo sesso colore come la farfalla che si confonde col fiore su cui è posata. Sembra un mondo spento, lunare. Attraverso i letti dei torrenti, i viandanti che tentano di raggiungere le vallate, nel silenzio reso più solitario dal ritmo della cavalcatura, sembrano abitatori di spelonche. Ma a inoltrarsi appena fra gli speroni dei monti, sulla striscia del torrente, si vede la montagna che nasce tra la valle animarsi della sua vita segreta, e sembra di udir le voci di tutte le sorgenti che scaturiscono da essa. (Ibidem, p. 8)

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A riportare tutto nella dimensione del reale subentra la storia; l’autore, col suo sguardo da estraneo, ormai lontano dalla realtà rurale, mostra gli effetti disastranti della società calabrese sulla natura, culminando nell’immagine possente del palazzo dei Mezzatesta, i signori del paese, nonché artefici del degrado. Il palazzo diventa luogo della schiavitù, un sentimento di straniamento nasce nel piccolo Antonello, abituato alla libertà della montagna, sensazione che si accentua ancora di più quando compare sulla scena Filippo Mezzatesta. Dopo il primo rifiuto da parte del signore, inizia per i due protagonisti una caccia ai creditori in giro per la città, passando prima dal fratello del signore, Camillo, proseguendo poi dall’usuraio Ignazio Lisca. Finalmente, ottenuto il denaro, avviene il ritorno alla natura rassicurante:

La sera era chiara, c’era la luna. Erano intinti di luna gli alberi e la montagna, il mare lontano. Dopo i grandi calori era come se una lieve rugiada fosse passata sul mondo a inumidirne la sete. Pareva di sentire la voce delle fonti ai piedi dei monti, o dei fiumi risecchiti che si ricordavano del loro boato. Le ombre delle case per le strade strette erano dense e nere, e tagliavano a spicchi e a triangoli le strade, come se vi fosse disteso qua e là un panno scuro. Ma non erano voci di fontane quelle che udivano, erano le voci delle donne. (Alvaro, 2000, p. 25)

È un rasserenamento solo apparente, perché il paesaggio non è la montagna dell’infanzia, ma la realtà paesana, che disorienta il povero Antonello. È un incontro- scontro con questa novità, vissuto concretamente con l’arrivo di Peppino e Titta, figure che fanno capire per la prima volta al piccolo pastorello di essere un estraneo. Naturalmente sarà la comparsa improvvisa di una donna (in questo caso la bambina Lisabetta) a riportare in scena la natura, seppure falsata nella dimensione ludica del gioco:

Egli si mise a fare, sul ruscello che correva sotto il ponte, un ponticello di canne, poi un giardino intorno, poi il recinto d’una mandra, poi una piccola montagna. Lavorava diligentemente. Alla fine la bambina disse sgranando gli occhi: «Oh, cos’è?», e indicò, tendendo il dito, l’opera del ragazzo. «Questo è il fiume, questo è il giardino, questa è la montagna, questa la mandra». «Ma non ci sono gli animali». Allora Antonello prese dei ciottoli levigati, e li sparse qua e là. «Ecco la mandra». (Ibidem, p. 32)

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La bambina permette di ritrovare il paesaggio che per qualche pagina era stato eclissato dall’angoscia di Antonello; come sempre, è la figura femminile a ricollegare l’uomo alla natura, nella complessità dei rapporti uomo-donna espressi nella piccola parentesi del Pretino, che occupa un intero capitoletto. La natura ricompare subito dopo, come ostacolo per la realizzazione dei sogni dell’Argirò: dopo vari fallimenti, un nuovo mestiere presenta un nuovo scenario, non meno realistico dei precedenti, e tuttavia più legato alla dimensione umana del paese:

Faceva tutte le mattine la strada fra il paese e il mare, venti chilometri attraverso i torrenti e i boschi che sono brutti d’inverno quando scendono improvvise le piene, e i fulmini solcano gli alberi che li aspettano alti levati; partiva alle quattro del mattino e tornava la sera alle quattro; dodici ore in cui si intratteneva coi passanti, con la gente delle casupole sparse per i campi, coi lavoratori delle vigne, coi pastori quando scendevano al piano, e di tutti sapeva come andava la vita. (Alvaro, 2000, p. 39)

In questa nuova fase della vita del povero pastore viene introdotta la sua sfera privata, con i figli mutoli e il piccolo Benedetto, una nascita che cambia la visione del mondo di Antonello, perché apre a nuove possibilità: «Ora la casa s’ingrandiva, Antonello si cacciava sulla sponda del letto per far posto al piccino, il quale pareva sapere qualcosa di misterioso» (Ibidem, p. 42). Finalmente il giovane pastore ha trovato la sua strada: la sua vita verrà sacrificata, eppure volentieri, per il bene della famiglia, che facendo studiare il più intelligente dei figli potrà vendicarsi dei soprusi dei signori del paese. Con la partenza di Benedetto c’è un ritorno alla dimensione primitiva, come se la natura potesse mantenere saldo il legame con la propria famiglia:

Dov’era la città sull’altura con gli ulivi pallidi e con le rocce ferrigne? Tutto gli parve più ricco e più nuovo fuori del suo paese. Ecco un bel fiume, ecco l’acqua. Benedetto beve di certo acqua pura e fresca. Qui c’è le fontane, qui ci sono i boschi, qui c’è tutto. Beati quelli che stanno nelle città dove invecchiano tardi, perché hanno tanti piaceri. Hanno le case grandi e comperano quello che vogliono perché guadagnano. Ma non hanno le pere da inverno e i pollastri che abbiamo noi. (Ibidem, p. 49)

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In realtà la lontananza non fa che rendere concreta la differenza tra mondo rurale e città, tant’è che il giovane seminarista finirà per rifiutare il padre. Nuova disperazione si aggiunge quando, tornato in paese, l’Argirò scopre che la sua mula è stata incendiata, una disperazione tanto grande da essere espletata dalla natura stessa:

La sera era brutta e fosca, coi segni del temporale imminente. Prometteva tant’acqua da sommergere il grano appena verde, il cielo diveniva rosso di fuoco come al mese di settembre. In questo paese anche la pioggia è nemica. O non ci si accosta per mesi o si rovescia da tutte le cateratte. Verso la notte cominciò a piovere, seguitò per più giorni come per dire all’Argirò che, anche ad avere la mula, i torrenti erano troppo grossi e non si potevano fare viaggi. (Alvaro, 2000, p. 52)

Un presentimento di inquietudine che si concretizza quando ricompare un Antonello pelle e ossa per le fatiche del lavoro nel suo amato paese, l’unico posto dove poter riprendere le forze. Il mistero dell’incendio viene svelato dalla voce della verità, che ovviamente solo una donna, simbolo di primitiva purezza, può rappresentare. Schiavina, in tutta la sua selvaggia bellezza, entra in scena per la prima volta, introducendo un altro paesaggio, quello misterioso e carnale del bosco, luogo dell’amore libero e violento:

Davanti alla casa c’era un boschetto folto di rose ed essi vi si rincorrevano quando c’era la luna. E poi cercavano i luoghi selvatici dove c’erano piante strane di fiori grossi che sembravano avvelenate, cose d’un altro regno. Li conoscevano insieme, specialmente a primavera, quado certi spiazzi segreti fioriscono e nessuno lo sa. Egli guardava come un padrone lei che per piacergli si metteva a ballare sopra quei fiori, e diceva che gli pareva di essere in un libro. E poi c’erano le ombre blu dei boschi, le fonti segrete dove nessuno beve, che nascono diverse ad ogni estate, e gli occhi lascivi delle capre, e quelli attoniti dei buoi, e tutto il mondo animale che guardava come se fosse abituato alle apparizioni misteriose e agli spettacoli che nessun sogno riusciva a fingere. (Ibidem, p. 56)

Sono immagini di natura concrete ma arcaiche, che spostano la storia su una dimensione estetizzante, eterea, mitica. Infatti subito dopo la scena si sposta in montagna, dove Antonello diventa un’entità soprannaturale, una voce titanica «che veniva dalla cima del colle soprastante il paese» (Ibidem, p. 59). La sua vendetta viene

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accolta dalla stessa natura: Alvaro esalta così la forza della giustizia, sebbene la conseguenza sarà soltanto di sofferenza ulteriore:

Si sentiva l’imminenza delle fiamme come un alito stranamente odoroso. Le foglie degli alberi più lontani si accartocciavano e si mettevano a tremare come creature. Più lontano, tra la foschia del fumo, splendevano verdi e abbaglianti alcune querce come in un teatro, ma improvvisamente avvampavano con uno strepito di fuoco d’artifizio. I pastori, coi piedi e le mani e il viso coperti di stracci, fra cui solo gli occhi si aprivano un varco, fecero a colpi d’accetta certe grandi scope di rami verdissimi e cominciarono a battere il fuoco come si batte il grano, cercando di soffocare le fiamme più vicine. (Alvaro, 2000, p. 61)

È questo il destino del calabrese: l’unica giustizia che può conoscere è quella personale, eppure è una giustizia fuorilegge. Nella conclusione infatti Antonello da titano della montagna ritorna alla dimensione umana, degradato addirittura nella figura di brigante.