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2 Geografia nel testo

2.1 Le novelle geografiche

2.1.2 La pigiatrice d’uva

La seconda novella in ordine di pubblicazione, decisamente più breve della precedente, ruota intorno a una donna, come si evince dal titolo. La storia si apre con una dimensione idilliaca che presagisce un che di inquietante:

La pioggia doveva essere assai lontana, e si cominciò la vendemmia. Nelle vigne popolate di vespe e di calabroni i grappoli appena punti si disfacevano. Un odore denso era dappertutto, e i pampini erano gelosi come vesti. I grappoli appiattati nell’ombra divenivano misteriosi come tutti gli esseri umani che si affacciano alla vita, i bianchi parevano di cera e carnali, come le forme delle dita, o dei capezzoli delle capre, i neri serrati e ricciuti come la testa di qualche ragazza. (Ibidem, p. 67)

Il tipico vigneto calabrese appare animato, pieno di vita, è questo paesaggio il vero protagonista della novella, infatti, quando una donna si fa avanti in tutta la sua primitiva bellezza, la natura invade il suo corpo e la sua anima ne rimane inebriata:

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Ella fu finalmente nel palmento e affondò il piede fra i grappoli, che fecero un vago rumore di cosa segreta. Sotto il suo passo si sfranse un grappolo nero e greve, mille grappoli la circondarono come una schiuma di un mare rosso e le dipinsero una graziosa scarpetta sulla pelle bruna. Affondava lentamente fino al ginocchio e arrossiva tutta. Cominciò lievemente a muovere i passi e a pestare l’uva. Al di sopra delle ginocchia le sue vene azzurre s’inseguivano come freschi ruscelli. (Alvaro, 2000, p. 68)

A questo punto un ragazzo, il figlio del padrone, rimane ammaliato da ciò che ha davanti, uno spettacolo che teneva vivo nei ricordi ma che è sempre emozionante: «Che bellezza, dopo tanti anni che non vedevo la vendemmia! Tutto mi pareva tanto più grande, ma è bello lo stesso». (Ibidem, p. 71). Dal canto suo, la giovane pigiatrice rimane sconvolta dall’attrazione che prova per lo straniero (la stessa attrazione che spingerà Crisolia a seguire lo zingaro), ed è come se tutta la flora attorno a loro percepisse questo stato d’animo:

Ella beveva guardando il giovane accanto a lei, e si vedeva gli occhi specchiati nel mosto cupo. Il mondo attorno pareva libero e felice, sgombro di non si sa qual vecchiaia, mentre al silenzio immobile del meriggio i rami carichi dei meli e dei peschi cominciavano ad agitarsi animando di sé il paesaggio intorno. Il giovane era impallidito sotto il colpo del vino, e i baffi gli tremavano sul labbro. La donna, stando seduta, ricominciò ad agitare i piedi fra l’uva. (Ibidem, p. 71)

La natura si blocca in quell’istante, la storia si immobilizza nel presagio di una tragedia imminente, come se Alvaro volesse far perdere il lettore nella contemplazione dei luoghi evitando di aggiungere sofferenza al dramma della giovane innamorata.

2.1.3 Coronata

La storia della giovane Coronata rappresenta la forte religiosità calabrese, aspetto culturale tipico dei paesi di montagna. La protagonista fin da subito appare come immagine eterea della natura, essendo miracolata infatti viene legata all’immagine della Madonna, così bella che «A guardarla, uno si ricordava del grano,

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dei campi d’estate, perché come l’estate era asciutta e abbondante» (Alvaro, 2000, p. 93). La lunga processione che accompagna la donna apre un paesaggio misterioso e angosciante, che rispecchia i timori della povera veggente, in procinto di vivere un dramma:

L’alba era ormai schiarita, il sole tentava di penetrare nelle valli fresche e scure, cominciavano sulle vette più alte le cicale a cantare, mentre in basso la voce invernale dei torrenti strepitava come chi non vuole ascoltare. Poi cominciò il paesaggio delle baracche di felci, dove tenevano bottega per i pellegrini i vinai, presso le fonti limpide, e le strade di confluenza dove arrivavano dagli altri paesi le genti ubriache di canti, di chiasso, di vino, e i malati che levavano il viso emaciato dalle barelle, e gli ubriachi che andavano pencolando sul ciglio delle strade come i muli. Si spalancarono gli abissi delle valli, le gole dei burroni, tra un coro assordante di grida, uno sventolio di cappelli, e di fazzoletti, i pazzi colpi dei fucili: apparve il santuario bianco con la sua forma di vescovo mitrato, in fondo alla valle. (Ibidem, p. 95)

Arrivati al santuario infatti un uomo a cavallo rapisce la Coronata: come un essere soprannaturale, ella sparisce nel bosco per poi ricomparire sotto forma di voce (richiamando l’immagine di Antonello), espressione di verità che concretizza la sofferenza dei genitori, venuti a conoscenza di aver perso per sempre una figlia.

2.1.4 Romantica

Nella descrizione di un amore amaro e sofferto, è rappresentato il meccanismo della memoria, punto centrale nella narrativa alvariana. La terra, il paesaggio di campagna, entra qui in scena dalla dimensione mnemonica e del tutto personale del ricordo:

La sua terra era prospera, ricca, con monti e fiumi, boschi e fonti, con città popolose, donne amorose. Era partito volontario con Garibaldi; tornò, la trovò fidanzata; ripartì, voleva dimenticarla. Dove andare? Allora si usava andarsene per dimenticare, e c’era scritto anche nei romanzi. Aveva compiuto vent’anni il giorno in cui passò lo Stretto di Messina col suo generale. La gioventù non era per lui altro che questa terra, ora, la terra con gli aranceti che aveva davanti, e la veduta dell’Aspromonte come un gigante che volta irritato le spalle. (Ibidem, p. 112)

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È la storia di un uomo che da giovane lasciò la sua terra e la donna amata, un distacco sofferto che lo porta ad isolarsi dal mondo per dimenticare; l’unico contatto con la realtà avviene sempre nella natura, nel bosco, dove il giovane innamorato incontra quella che sarà la donna della sua vita, un essere primitivo e ruspante, che come tutte le donne calabresi accetterà una vita di pene per diventare il punto di forza del suo uomo.