2 Geografia nel testo
2.3 La credibilità della descrizione paesaggistica
2.3.2 Luogo di fantasia
Non è ingiustificata la posizione di chi considera il paesaggio descritto un luogo ideale. La discesa dai monti insieme ai pastori, la vendemmia che impegna la pigiatrice d’uva, il viaggio verso casa del giovane Biasi, la processione al santuario (che ricorda quello della Madonna della Montagna, a San Luca) di Coronata,
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permettono al lettore di esplorare dei luoghi mistici, immacolati, lontani dal disfacimento cittadino. Sono panorami dal sapore arcaico perché risalgono all’infanzia, il momento più fecondo della vita dell’uomo, anni felici per Alvaro, a contatto diretto con quel mondo così primitivo. In questa escursione del reale, figura di massima rilevanza è il padre (si ricordino l’Argirò o Ferro), colui che indirizzò lo scrittore alla vita poetica immergendolo nel paesaggio d’Aspromonte, poiché questo è l’unico posto nel mondo dove i valori non sono deviati dall’intervento umano (o almeno questo è ciò che sente un bambino). La componente fantastica subentra nel testo, secondo la critica, quando Alvaro ormai ampiamente istruito fuori dall’universo calabrese, venuto a conoscenza del dolore universale (attraverso esperienze come la guerra, l’esilio in Germania, la censura fascista), cerca di creare nella realtà del testo un riparo dalla distruzione, un paradiso dove ritrovare la pace perduta da tempo. E nel momento in cui, anche su cocuzzoli isolati, si manifesta la violenza della storia (basti pensare a figure come i Mezzatesta, il rapitore di Coronata, o ancora l’assassino di Cata), questa va interpretata come monito alle coscienze, denuncia dei vizi dell’uomo. Non ci sarebbe niente da ribattere, se non fosse l’autore stesso a ribadire che in quel mondo non c’è riscatto, dunque l’unica azione possibile non è ribellarsi ma celebrare la memoria di quei luoghi, dove «Tutto era divenuto per lui favoloso e immobile come in un’infanzia» (Alvaro, 2000, p. 48). Alvaro vuole che il lettore tenga sempre presente che nulla è utopico: quando la natura sembra acquisire una vita propria e un potere soprannaturale è perché sono i sentimenti a prevalere sulla descrizione, come quando «nessuno le rispondeva e le valli e i boschi si prendevano giuoco di lei fingendo le apparenze di lui, e certe volte i corvi dietro le fratte simulavano il suo cappello nero» solo in quanto la povera Schiavina «era innamorata» (Ibidem, p. 56)
Con Gente in Aspromonte siamo completamente immersi nel paesaggio calabrese, colto con precisione e maestria perché osservato direttamente, filtrato dalle nozioni acquisite negli anni e tramandato attraverso la scrittura. Un autore deve saper decriptare i messaggi dietro le cose per la generazione futura, ma di fronte alla natura spoglia e immediata bisogna solo lasciarsi andare alla descrizione. Nella raccolta si trasferiscono tutte le emozioni di Alvaro, ognuna delle quali parte dalla sua condizione di meridionale:
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Egli compie nell’interiorità le scelte decisive della sua vita. Le esperienze già vissute gli si chiariscono come segni manifesti d’una chiamata che urge nel profondo; i suoi calabresi e le loro fatali pene, gli uomini tutti e la follia del dolore, della violenza, dell’odio, gli popolano l’anima e parlano dentro quasi a chiedere un senso e un riscatto per il loro esistere. Alvaro sa già che alla chiamata risponderà con tutto il suo impegno umano. (Cassata, 1979, p. 10)
L’ambiente regala delle virtù che le condizioni di vita rendono preziose e riservate a pochi eletti; condanna a sentirsi diversi per l’arretratezza, ma unici per la superiorità dei sentimenti. In quanto calabrese egli è predestinato a portare con sé il peso di questi valori, in quanto scrittore è obbligato a osservare il mondo per coglierne le emozioni.
Il calabrese che Alvaro riconosce in sé stesso è schivo con i suoi simili, temendo di restarne deluso, come accade ad Antonello con Peppino; assolutista, perché impossibilitato a dimenticare la sua terra; fatalista, essendo le vicende narrate e le esperienze vissute non controllate dall’uomo. Scrivere diventa un rimedio all’infelicità: si riportano le emozioni su carta per allontanarsi dal dolore concreto, ma per raggiungere la verità senza finire nell’utopia egli utilizza lo specchio dell’esperienza diretta. L’arte dunque si fa tramite tra esperienza e memoria per approdare ad una descrizione autentica della vita. Il nostro arriva a questa conclusione dopo una vita di studi, tenendo sempre bene a mente soprattutto le conoscenze ottenute negli anni dell’adolescenza: è impossibile non rivedere in lui le speranze che Gioacchino da Fiore ripone nel povero (Ibidem, p. 26), o ancora di più l’origine della verità ripresa da Tommaso Campanella (Ibidem, p. 27). Secondo quest’ultimo la verità è il frutto di una conoscenza immediata, colta all’improvviso senza razionalizzazioni mediatrici: da ciò Alvaro deduce che il vero possa essere custodito solo nella natura selvaggia, subito esperibile in tutta la sua irruenza. Il valore storico dell’opera in questione è innegabile nel recupero dell’infanzia calabrese come testimonianza del degrado del Meridione, ma preponderante nella raccolta rimane l’atemporalità della visione naturalistica: il dolore delle singole vicende resta sempre in secondo piano perché il lettore in ogni pagina ritrova uno scorcio di natura che lo riporta alla costruzione mentale del panorama (acquisito in principio come sfondo della storia), ribaltando così la situazione. Le situazioni descritte diventano il “luogo temporale” dove la natura è protagonista, poiché la sola figura costantemente presente e l’unica
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seguita dal pubblico nella varietà delle sue manifestazioni, ammaliato dall’originale bellezza che vi si riscontra.
L’uomo è attratto dalla libertà ma non la sa gestire, per cui Alvaro (per proteggerlo, rispettando la solidarietà alla base dei rapporti umani) lo trasporta in un mondo, quello rurale della Calabria, dove tutto risponde al ritmo dettato dalla natura: l’immobilità di quei luoghi rende l’uomo tranquillo, perché è essa una condizione comune, un dolore antico che alimenta la forza interiore tipica del calabrese, il quale ha un innato talento nell’accontentarsi dell’essenziale, avendo alle spalle la solidarietà della famiglia e la certezza di una natura nutrice.
Le grandi parole tematiche di tutte le rivoluzioni popolari non incantano questo popolo caparbio e dignitoso, per il quale libertà e giustizia sono termini arcani, che hanno vita autentica solo nell’interiorità umana dove il possesso è incorruttibile.
La civiltà calabrese ha due strutture portanti: l’uomo nella sua singolarità e la famiglia quale proiezione dell’individualità personale, unica forma societaria per cui egli possa sentirsi impegnato ad accettare la convivenza sociale e a tentare l’avventurosa ricerca di una condizione migliore, coincidente con una lunga storia di sacrifici insopportabili per chi abbia altro concetto dell’unità familiare. (Cassata, 1979, pp. 138-139)
I calabresi sono assorti nel loro mondo, ma mai sbigottiti. La contemplazione è il loro strumento di conoscenza del reale, perciò Alvaro posa lo sguardo sui torrenti, i prati fioriti, gli alberi ombrosi, per comprenderne la bellezza.