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Gestione della variazione: linee guida e diritt

Stereotipi oltre il genere femminile

1. Gestione della variazione: linee guida e diritt

Risulta certamente chiaro dalla componente biologica delle variazioni e da quanto discusso finora, che il dibattito preso qui in considerazione, la cosiddetta questione intersex/DSD2, sia stata per lungo tempo una questione affrontata solamente dall’area

disciplinare medica.

Storicamente, i progressi delle tecniche in ambito medico e i moti attivistici degli ultimi trent’anni hanno influenzato non solo il dibattito sulla terminologia e sulle modalità di classificazione, ma anche le prassi e le linee guida adottate all’interno del contesto medico-ospedaliero, così come quelle legate ad altri ambiti, come quello legale. Tuttavia, anche in questo caso, la definizione di un univoco accordo sembra non essere stato raggiunto. Per quanto riguarda l’ambito medico-ospedaliero, attualmente non esiste un consenso sulle modalità di intervento e le linee guida internazionali consigliano diverse modalità di gestione e azione. Un fattore costante all’interno dei diversi stand-point sembra essere la necessità di normalizzare il corpo del neonato, confermando la prassi di intervento come modalità principale di gestione della variazione, in linea con le prime linee guida degli anni Cinquanta. La optimal gender policy, adottata dal 1955 dagli anni fino ai primi anni Duemila, prevedeva interventi chirurgici correttivi ai genitali del neonato entro i 18 mesi di vita, al fine di permettere un più facile auto-riconoscimento come maschio o femmina a livello cognitivo e un conseguente sviluppo di un’immagine di sé come femminile o maschile (Blizzard, 2002; Money, Hampson e Hampson 1955). La stessa policy consigliava a genitori e medici di non informare il/la bambino/a degli interventi precoci, nemmeno una volta raggiunta l’età adulta. La cosiddetta politica del

silenzio aveva l’obiettivo di non turbare il supposto sereno sviluppo identitario di bambini

e bambine sottoposti ad interventi chirurgici ai genitali e/o a terapia integrativa ormonale a vita. La forte spinta data dalle voci di ex pazienti e dai movimenti per i diritti delle

2 Come affermato da Roen e Pasterski (2014) la doppia dicitura intersex/DSD viene usata per sottolineare

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persone intersex ha permesso di rivedere la optimal gender policy a favore di un patient

centred model (Wilson e Reiner, 1998, Consortium on the Management of Disorders of

Sex Differentiation, 2006; Liao e Simmonds, 2013), che promuove un approccio medico e psicosociale integrato che ha reso i criteri di assegnazione di sesso alla nascita meno generalizzati e maggiormente focalizzati su fattori individuali del/la neonato/a, a discapito di aspettative sociali e genitoriali, culturalmente influenzate. Questo cambiamento nella modalità della gestione medica, non prevede un lavoro di modifica di quelle che, ancora oggi, sono le implicazioni sociali e culturali legate all’ambiente in cui avviene la nascita. Nonostante i forti progressi nel campo della medicina abbiano permesso di migliorare l’individuazione delle diverse cause che possono portare a una variazione, molto del lavoro diagnostico e gestionale rimane legato al contesto empirico, a ciò che avviene nel contesto sociale. Fin dal momento della notizia della gravidanza (Donahoe, Powell e Lee, 1991), la domanda maggiormente posta a un genitore risulta ancora essere «è un maschio o una femmina?», ponendo un padre o una madre in una situazione emergenziale di fronte alla scoperta che alcune caratteristiche del sesso biologico del/la figlio/a sono considerabili atipiche secondo il principio normativo binaristico del «maschio» o «femmina». L’obiettivo principale rimane tutt’oggi quello di rispondere all’emergenza sociale, più che medica, di assegnare un sesso prevalente al neonato per confermare aspettative e richieste socio-culturali (Liao, Wood e Creighton, 2015).

Come accennato in precedenza, il momento critico della scoperta della variazione intersex/DSD è spesso concomitante o precedente la nascita dell’individuo, lasciando i genitori impreparati in un momento delicato in cui è sollecitata una decisione rapida e vincolante per il futuro del neonato. La crescente attenzione internazionale per la questione intersex/DSD ha evidenziato la necessità di approfondire ricerche adottando una prospettiva diversa da quella medica, anche in risposta alla richiesta di posticipare gli interventi chirurgici. In tempi recenti, infatti, organi istituzionali internazionali e organizzazioni non governative hanno posto l’attenzione sui diritti delle persone con variazioni intersex/DSD, ponendo l’attenzione sulla dicotomia esistente tra ciò che è

medicalmente essenziale e cosmetico e ponendo così la questione sul piano della tutela

dei diritti umani(EU FRA, 2015, Council of Europe, 2015; Amnesty International, 2017; UNHRC, 2013). Il sempre maggior interesse delle diverse agenzie internazionali verso

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tali questioni nasce dall’invisibilità che ancora oggi veste le situazioni di variazioni delle caratteristiche del sesso biologico, dal mancato riconoscimento delle individualità di queste persone all’interno della società e dalla necessità di evitare trattamenti chirurgici e ormonali in un’età in cui il consenso non può essere espresso. La promulgazione di una discussione internazionale attorno ai diritti umani, ha portato alla creazione di diversi strumenti di tutela verso l’individuo, tra cui la promulgazione a Malta della prima legge che vieta operazioni chirurgiche su neonati e i minori condotte per motivazioni sociali, e dunque non medicalmente necessarie (GIGESC Act, 2015).

Per quanto riguarda la situazione italiana, emerge la mancanza di un riferimento alle persone intersex/DSD nel sistema italiano. L’unico documento nazionale in merito alla tematica risulta essere il parere del Comitato Nazionale di Bioetica (2010) che fornisce raccomandazioni bioetiche non vincolanti che vanno verso la «rilevanza di una diagnosi e di un trattamento precoci per la salute del minore» (23), basandosi su una definizione delle variazioni appositamente coniata. Il CNB parla infatti di DDS (Disturbi della Differenziazione Sessuale), indicando uno «sviluppo disarmonico delle diverse componenti del sesso biologico che può̀ condizionare anche la strutturazione dell’identità̀ sessuale e l’assunzione del ruolo di genere» (5). Tale definizione, mai adottata all’interno del mondo medico o attivistico, evidenzia chiaramente quelle che possono essere i possibili fraintendimenti tra un dato biologico, innato e rappresentativo di una naturale modalità con cui il corpo umano può svilupparsi, e la lettura identitaria che ne può scaturire, legata ad una costruzione sociale dell’identità dell’individuo, sulla base di una caratteristica fisica. La mancanza di ulteriori documentazioni o dibattiti all’interno del contesto italiano, sembra confermare la gestione del corpo intersex/DSD rimanga una prerogativa del sistema sanitario, evidenziando due questioni fondamentali. In primo luogo non appare chiaro quali delle figure coinvolte, medici o genitori, debbano o possano prendere la decisione di intervenire sul corpo del/la neonato/a (Giacomelli, 2012; Lorenzetti, 2014). Secondariamente viene confermata la mancanza di un consenso su modalità e tecniche di intervento univoche per le diverse variazioni intersex/DSD. Questa assenza genera un proliferare di prassi e pratiche mediche, vere e proprie soft laws che variano da contesto a contesto. Di conseguenza la libertà dei genitori di compiere scelte informate sembra essere limitata (Prandelli, Primo e Testoni, 2015).

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Ritornando ad un contesto internazionale più ampio, grazie alle diverse voci entrate a far parte del dibattito è stato possibile aprire numerose discussioni in merito alla complessità di ambiti e argomenti che la questione intersex/DSD chiama in causa. Tuttavia, la gestione delle variazioni resta comunque complessa, soprattutto per quanto riguarda il ruolo del genitore nel momento della decisione di procedere con un intervento chirurgico entro i primi anni di vita del/la figlio/a. La maggior parte dei genitori tende a non rinviare l’intervento. In questo scenario, risulta importante sottolineare che non esistono in letteratura ricerche sulle esperienze di giovani e adulti non operati e le tecniche chirurgiche e i trattamenti ormonali variano nel tempo e a seconda degli approcci adottati dal professionista della salute. I genitori si trovano dunque ad affrontare la decisione di intervenire senza essere a conoscenza di risultati certi, scenari futuri e alternative all’intervento. L’assenza di un concreto percorso di sostegno psicologico, percorsi psicoeducativi, confronto comune e affiancamento alle famiglie comporta che i genitori vivano la necessità di normalizzare il proprio neonato come un’incombenza. L’intervento chirurgico diventa dunque l’unica via possibile (Liao, Wood e Creighton, 2015).

Si rende evidente uno scenario in cui genitori, importanti attori nella vita di neonati, adolescenti e adulti con variazioni intersex/DSD, non sono supportati nel loro ruolo. Il rischio in cui incorrono è provare rimorso per la decisione di intervenire chirurgicamente (Streuli, et. al., 2013) e non essere in grado di creare un ambiente intimo e familiare necessario per l’accettazione e la crescita dei/le figli/e.