La discussione in aula sul Trattato procedeva lasciando emergere sempre più chiaramente la spaccatura legata alla logica della guerra fredda, e gli attacchi alle scelte di Governo si facevano sempre più sferzanti. Se Leo Valiani riportava all’attenzione ancora una volta l’opzione dell’intesa italo-jugoslava, criticando aspramente il fatto che una firma di tale peso fosse stata apposta «per la sola promessa di aiuti economici, e in un momento in cui cambia la politica americana incline a dare aiuti con finalità politiche»382, l’indipendentista siciliano Andrea Finocchiaro Aprile rafforzava le accuse al presidente De Gasperi addirittura recuperando il tanto vituperato e controverso “baratto” togliattiano:
Matteo Renato Imbriani, nel 1896, iniziava un suo discorso sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri, onorevole Crispi, dicendo con la sua voce stentorea: «Sono sei mesi che in Italia si governa senza Parlamento!». Nelle parole di Matteo Renato Imbriani è scolpita, tacitianamente, la situazione del tempo. Non si sarebbe potuto esprimere meglio il pensiero d’allora degli italiani da parte di quegli che era chiamato il bardo della democrazia. Le parole di Matteo Renato Imbriani io potrei ripeterle oggi, perché effettivamente, da che questa Assemblea funziona, si è governato senza e al di fuori dell’Assemblea Costituente. La colpa principale, se non esclusiva, di ciò è dell’onorevole De Gasperi. […] Ci fu una notte lo scoppio di una piccola bomba atomica. L’onorevole Togliatti era ritornato dalla Jugoslavia e aveva portato la notizia che il Maresciallo Tito era disposto a transigere sulla questione di Trieste, lasciando la città all’Italia. Onorevole De
380 Alla fine di gennaio 1947 il dicastero era stato revocato al comunista Emilio Sereni, trasferito ai Lavori Pubblici; il 14 febbraio il ministero fu definitivamente disciolto e le sue funzioni trasferite al ministero dell’Interno, di competenza di Mario Scelba.
381 AC, intervento di Emilio Lussu (PSIUP), seduta del 18 febbraio 1947, p. 1391. 382 AC, intervento di Leo Valiani (PdA), seduta del 13 febbraio 1947, p. 1219.
Gasperi, lei non vide bene ciò, lei lasciò sfuggire questa buona occasione e si lasciò vincere dal suo temperamento sospettoso e diffidente. Non ci fu in lei la gelosia di sminuire un eventuale successo dell’onorevole Togliatti? Che cosa fece lei, onorevole De Gasperi, perché l’accordo Togliatti-Tito arrivasse ad una felice conclusione? Lei non fece niente e lasciò che la soluzione dei «Quattro» rimanesse immutata383.
Finocchiaro Aprile proseguiva evidenziando lo spazio e il favore che andava acquisendo il Movimento Indipendentista Triestino, federato a quelli analoghi di Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Alto Adige, tutti egualmente tesi non a negare l’italianità di quei luoghi («Trieste è città italianissima; nessuno può mettere in dubbio ciò»), quanto piuttosto a svincolarli «dalla soggezione di Roma, dal potere esclusivista e soverchiatore di Roma». Ma il Governo aveva remato in altra direzione, denunciava, «perché gli alleati, nelle loro vacillanti ideologie, hanno concepito un ordinamento diverso». Non uno Stato reale «con la sua propria identità ed il suo proprio carattere, con la sua propria indipendenza e la sua propria dignità» in confederazione con la madre patria, ma un luogo preda di opposte strategie politiche internazionali, a rischio di detonazione:
Si è creato, sì, uno Stato libero, ma lo si è voluto staccare dall’Italia e gli si è imposto un governatore straniero. Diceva Connally: «Lasciateci fare di Trieste il simbolo della sicurezza nel mondo». No, signori; si è fatta di Trieste una nuova Danzica, una roccaforte angloamericana contro l’avanzata russa nell’Europa occidentale, una polveriera che farà saltare nuovamente il mondo per aria384.
Provava a moderare i toni a fini di concordia il repubblicano Randolfo Pacciardi: «i problemi della politica estera della Nazione devono essere sottratti al giuoco, all’urto, al contrasto delle parti». Il suo era il solo partito ad aver agito sempre nell’interesse nazionale, continuava, e ai tempi della monarchia «molte volte abbiamo sacrificato gli interessi momentanei del nostro partito per ubbidire ad un dovere nazionale più alto».
Se c’è qualcuno in questa Assemblea che avrebbe potuto esimersi dall’assumere questa posizione, con una apparenza di legittimità, saremmo stati noi, perché noi fummo sempre avversari della monarchia. Noi ne denunciammo sempre la intima natura reazionaria, perché combattemmo sempre la sua involuzione fascista, perché mettemmo il cadavere di Oberdan fra l’Italia della Triplice Alleanza e l’Austria, perché non partecipammo ai Governi di liberazione, e quindi non fummo nella dolorosa necessità di controfirmare l’armistizio, che avevano firmato il re e Badoglio in fuga.
383 AC, intervento di Andrea Finocchiaro Aprile (MIS), seduta del 14 febbraio 1947, pp. 1264-1267. 384 Ibidem, p. 1273.
Altrettanto occorreva fare ora circa l’accettazione di un pur iniquo Trattato di Pace. A nome del Partito Repubblicano l’onorevole proponeva dunque di imboccare la strada del dialogo con Belgrado, manifestando infine i medesimi timori di Finocchiaro Aprile circa il mantenimento di Trieste entro l’asse del confronto tra blocchi, condizione che avrebbe potuto compromettere la stabilità politica dell’intera area:
Questo territorio di Trieste è uno Stato che non può vivere. […] Vorremmo dire a Tito: non era forse meglio riconoscere all’Italia, non soltanto Trieste, che è indiscutibilmente italiana, e lo sa, ma anche Pola e l’Istria occidentale, che sono indiscutibilmente italiane, e lo sa; non valeva meglio di riconoscere questi territori all’Italia repubblicana, all’Italia democratica, all’Italia pacifista, all’Italia, comunque, disarmata? Piuttosto che immettere tra noi questo staterello, questo cuneo armato di interessi che sono estranei alle nostre contese?385.
«Non ci riteniamo del tutto soddisfatti», puntualizzava il democristiano De Maria.
Abbiamo voluto commemorare l’ingiusto trattato di pace con 10 minuti di silenzio; ma mi pare che tutto ciò non basti. Dobbiamo dimostrare di essere solidamente uniti a coloro che soffrono e che piangono, a coloro che stanno scontando tutta la tragicità tremenda di quest’ora. La sciagura più grande che possa colpire un popolo si è abbattuta sulla Venezia Giulia: essa è stata separata dalla madre patria; ma i giuliani hanno abbandonato la loro terra, le loro case, il loro focolare, gli stessi loro morti, per non rinnegare la loro Patria, per manifestare il loro spirito di attaccamento alla più bella tra le Madri: l’Italia stessa. L’italianità della Venezia Giulia non può essere posta in dubbio da alcuno; né la potrà cancellare un trattato di pace ingiustamente imposto; l’italianità della Venezia Giulia è dimostrata da mille e mille prove, dalla dominazione romana alla Repubblica veneta, che hanno lasciato tracce indelebili in quelle zone.
Continuava facendo appello a tutte le associazioni assistenziali, caritative e filantropiche nazionali che aiutassero i profughi in nome «di questa solidarietà fraterna», affinché i giuliani percepissero:
che la voce della Patria straziata è una cosa che ci tocca nel più intimo del nostro essere, che la Patria è sangue del nostro sangue, anima della nostra anima. […] E quando avremo fatto quanto è in nostro potere, avremo reso meno pesante l’esilio ai giuliani in attesa che Dio faccia scoccare nel quadrante della storia l’ora in cui ogni popolo sarà libero nella propria dimora e sarà l’artefice dei propri destini386.
Ai topoi ricorrenti della discendenza, del suolo nazionale, dei caduti per la patria, della romanità e del sangue si aggiungeva qui il nodo tematico del messaggio provvidenziale di Dio. Motivo centrale dell’ideologia di partito dello scudo crociato, la
385 AC, intervento di Randolfo Pacciardi (PRI), seduta del 19 febbraio 1947, pp. 1417-1418. 386 AC, intervento di Beniamino De Maria (DC), seduta del 27 febbraio 1947, pp. 1960-1961.
lettura dell’avvenire repubblicano «sotto il segno della croce» avrebbe caratterizzato la narrazione post-bellica democristiana in opposizione al disegno comunista di un’Italia laica, antifascista, universalista e internazionalista387. Il mito nazionale, fatto di patria e libertà, era infatti per De Gasperi inscindibile dalla già nota secolare funzione civilizzatrice dell’Italia, matrice e faro della civiltà cristiana e cattolica. «È proprio nel mito della missione che riprende, nell’Italia repubblicana, il progetto cattolico di riconquista dell’italianità», scrive Emilio Gentile, in un momento storico in cui «la rinnovata unione carismatica fra italianità e cattolicesimo costituiva il baluardo necessario contro l’avanzata del comunismo», in uno scontro di carattere universale che avrebbe opposto Roma a Mosca, Dio a Satana388. Il leader democristiano, con il suo consueto registro comunicativo permeato di cautela e moderato ottimismo, così descriveva il ruolo del suo partito rispetto al confine orientale: «Noi non immaginiamo di costruire verso la Venezia Giulia [...] una frontiera di sbarramento contro la Jugoslavia o in generale verso il mondo orientale slavo», bensì un ponte, «proteso verso l’avvenire della nuova Europa che deve sorgere non su basi nazionalistiche, ma su quelle popolari della solidarietà europea e mondiale»389. L’Italia degasperiana, investita del ruolo di garante della libertà, della giustizia sociale e del consolidamento della pace, concorreva così - col pieno appoggio della Chiesa di Pio XII - a divenire un modello di «modernità cristiana» per tutta l’Europa390. Si consideri a questo proposito che il presidente americano Truman avrebbe tenuto presso il Consiglio federale delle chiese dell’America cristiana un discorso - dalla larga eco anche in Italia - in cui invitava i religiosi «a far sì che lo sviluppo dell’energia atomica possa venire diretto al bene dell’umanità in modo che sia consentita la applicazione di questa nuova scoperta del genio umano in opere di pace e di costruzione»391. La settimana successiva lo stesso avrebbe inaugurato la politica del containment, battaglia ideologica e strategia interventista di contenimento dell’espansione dell’influenza sovietica, che avrebbe coinvolto anche l’Italia e che sarebbe stata l’anticamera dell’“equilibrio del terrore” dei decenni a venire.
387 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 363. 388 Ivi, pp. 372 e 374.
389 Cit. in A. Giovagnoli, La cultura democristiana, cit., p. 135.
390 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 370. Studi recenti sul cattolicesimo politico sono raccolti in R. Moro, L. Rapone (a cura di), Il cattolicesimo politico nella storia dell’Italia repubblicana: le interpretazioni degli storici, in «Mondo Contemporaneo» (numero monografico), n. 2-3, 2018.
Tra il marzo e il giugno 1947 si sarebbero infatti susseguite l’enunciazione della «dottrina Truman» e l’offerta del piano Marshall per garantire la ricostruzione economica ai paesi europei ritenuti più deboli, che Lanaro ha ritratto in modo tranchant come «il subdolo strumento dell’imperialismo americano per asservire i fragili satelliti dell’Europa occidentale»392. Il fatto che la Russia e i paesi dell’Europa centro-orientale, in un primo momento contati tra i potenziali destinatari, in seguito al rifiuto sovietico ne fossero stati definitivamente esclusi, era il «segnale inequivocabile della frattura ormai definitiva fra sovietici e americani»393. L’Italia, considerata dagli alleati americani come l’anello debole della catena dei paesi occidentali e per la sua posizione geografica e per il sempre più saldo radicamento del Partito Comunista al governo e nella società civile, fu invitata ad entrare nello European Recovery Program e spinta a rompere con le sinistre394. La Democrazia Cristiana accolse senza indugi l’invito e il fronte social- comunista fu gradualmente estromesso dal governo. L’opzione occidentalista era a quel punto convalidata in via ufficiale.
Il 31 maggio De Gasperi diede avvio al suo quarto governo, il primo senza le sinistre ma con l’appoggio degli industriali e delle frange di destra. «L’allontanamento delle sinistre fece gridare al colpo di stato»395: «L’Italia acclama la Repubblica e condanna il colpo di mano antipopolare del Cancelliere»396, titolava a tutta pagina «L’Unità» del 3 giugno. In questa situazione di speciale tensione sociale e di scontro politico sempre più offensivo, il 24 luglio riprendeva il dibattito parlamentare sulla politica estera del Governo, che prevedeva in prima istanza la discussione sulla ratifica del Trattato. Sarebbe stata l’ennesima occasione per riportare in aula le retoriche risorgimentali e i riferimenti alla Grande guerra, che nel richiamo ai diritti italiani su Trieste riaccendevano la battaglia ideologica che contrapponeva oramai tutti i partiti dell’Italia repubblicana nella rivendicazione di proprietà esclusiva dell’identità nazionale. S’inaugurava il tempo della «guerra di miti in una Repubblica senza mito», nel corso
392 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., p. 222. 393 S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace, cit., p. 116.
394 S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 113. Cfr. E. Aga Rossi, De Gasperi e la scelta di campo, cit. Spiega Aga Rossi che la storiografia più recente ha ridimensionato la lettura dell’esclusivo condizionamento americano nelle scelte di politica estera di De Gasperi, il quale fu mosso prima di tutto dall’insostenibilità dalla crisi interna, e solo successivamente in risposta al deterioramento delle relazioni tra alleati Occidentali e Unione Sovietica e all’assunzione di una posizione di campo. Cfr. anche G. Formigoni, De Gasperi e la crisi politica italiana del maggio 1947. Documenti e reinterpretazioni, in «Ricerche di storia politica», n. 3, 2003, pp. 361-388.
395 S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace, cit., p. 115. 396 In «L’Unità», 3 giugno 1947.
del quale al patriottismo nazionale si sarebbe sostituito repentinamente un «patriottismo di partito»397.
I fronti che si opponevano nella discussione sul Trattato erano fondamentalmente tre: quello del sì, che intendeva ratificare subito le condizioni della pace per procedere al reinserimento del Paese entro l’orizzonte politico internazionale della pace e della libertà economica; quello del no - che trovava concordi sinistre e destre nazionaliste - per cui il rifiuto si fondava prima di tutto su una questione di principio morale, politico e storico, e sul rigetto di una politica ritenuta rinunciataria e condizionata; e infine quello degli incerti, che chiedevano quantomeno una dilazione in attesa della ratifica dell’Unione Sovietica398. È interessante osservare che gli appelli per Trieste, seppur invocati da direzioni diametralmente opposte, si fondavano ancora e sempre sui medesimi contenuti.
Tra i contrari a sinistra, l’avvocato demolaburista Luigi Gasparotto, già personaggio di rilievo negli anni della Grande guerra, rifiutava il Trattato in nome delle «montagne irrorate di sangue italiano» che in tal modo si abbandonavano alla Jugoslavia, e a fronte del fattore di rischio che rappresentava la situazione della Venezia Giulia. Essa «può essere fatale all’Europa - spiegava - perché l’Isonzo può diventare quello che era il Reno per la Francia e la Germania: il fiume della discordia. Sull’Isonzo si incontrano due civiltà: la civiltà latina e la civiltà slava. Io mi auguro che si incontrino e non che si scontrino».
Torni dunque Trieste all’Italia in breve tempo, o vi ritorni in un tempo più o meno lungo, oggi noi non possiamo che deplorare la costituzione di una Stato libero senza sovranità, uno Stato libero ma non sovrano, che non può nominare il proprio Governatore e nemmeno il capo della sua polizia; uno Stato senza territorio, senza retroterra, che deve vivere quasi di mendicità e ricevere tutti i rifornimenti dai popoli vicini. Che avvenire può avere una simile larva di Stato? [...] È vero che ci sono stati sempre antichi appetiti su Trieste, anche da parte germanica; è vero che nel 1919, quando Orlando perorava la causa italiana a Parigi, il Ministro Korosec, a Lubiana, diceva con linguaggio poetico che «la nostra solatia Gorizia e la nostra soave Trieste non possono che essere slave». È vero che egli diceva questo, ma il Capo della polizia di Trieste, il Lanech, anche diceva che scavando cento metri sottoterra, a Trieste, si finiva sempre per trovare l’irridentismo399.
Il collega Cevolotto rimarcava a sua volta come il Trattato lasciasse irrisolta la questione dei confini militari, facendo della Venezia Giulia un pericoloso terreno di
397 E. Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 375-379.
398 S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace, cit., cfr. Il dibattito sulla ratifica, pp. 116-125.
399 AC, intervento di Luigi Gasparotto (Partito Democratico del Lavoro), seduta del 24 luglio 1947, pp. 6174-6175.
coltura di irredentismi e nazionalismi «che non sono patriottismo, ma sono la peggiore delle deformazioni del patriottismo [...], in una parola, le più pericolose dissensioni fra popoli confinanti». La convalida da parte dell’Assemblea Costituente avrebbe significato rinunciare ai diritti italiani e giuliani. «Non dobbiamo» firmare, invocava l’onorevole,
non lo dobbiamo per il nostro passato, per la lotta del Risorgimento, che credevamo conchiusa a Vittorio Veneto, non lo dobbiamo per le speranze dell’avvenire, che non si fondano su future guerre, che noi deprechiamo, e non si fondano su irredentismi, che non vogliamo favorire, o su nazionalismi, da cui repugnamo nella visione di più alte forme di società fra le genti, ma si fondano sul nostro diritto, si fondano sulla certezza di questo diritto al quale non possiamo in nessun modo rinunciare. Perché il domani ci dovrebbe riservare l’immenso conforto di vedere restituita la giustizia nell’Europa travagliata, di vedere restituita Trieste all’Italia400.
Sul richiamo alla Grande guerra gli faceva eco Guido Russo Perez, esponente di spicco del fronte dell’Uomo Qualunque401, unanimemente contrario alla firma. Con un passato nel Fascio provinciale di Palermo e un futuro nel Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante, proveniente da una corrente la cui base ideologica si poneva in totale contrapposizione con le idee costitutive della nuova Repubblica democratica e che pescava in maniera indifferenziata nella monarchia, nel fascismo e nello scontento di massa, Russo Perez in una sola battuta rendeva il suo movimento erede dell’intero cinquantennio precedente.
Onorevoli colleghi, tutti noi della mia generazione, che abbiamo vissuto la nostra fanciullezza, la nostra infanzia e la nostra gioventù sognando la liberazione di Trieste, tutti noi che per ricongiungerla alla madre Patria abbiamo versato il nostro sangue, non possiamo, senza rinnegare i 600 mila fratelli morti, ratificare quelle clausole del Trattato che ci privano di Trieste italiana402.
Il commilitone qualunquista e sindaco di Palermo Gennaro Patricolo riprendeva la crociata a favore del nazionalismo, ma non quello esasperato «che porta gli Stati all’avventura», bensì quello «puro» che si nutriva di sentimento per la «famiglia-
400 AC, intervento di Mario Cevolotto, (Partito Democratico del Lavoro), seduta del 25 luglio 1947, pp. 6241-6242.
401 Cfr. S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 96. A proposito dell’Uomo Qualunque cfr. S. Setta, La destra nell’Italia del dopoguerra, Laterza, Roma-Bari, 2001; Id. (a cura di), Italiani contro gli uomini politici: il qualunquismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2005; M. Cocco, Le vespe qualunquiste e la satira politica, in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», La satira fa storia. Eventi, pratiche, linguaggi, n. 11/3, 2012.
402 AC, intervento di Guido Russo Perez (Fronte dell’Uomo Qualunque), seduta del 25 luglio 1947, p. 6222.
nazione». All’onorevole Treves secondo cui «il nazionalismo ha portato l’Italia vittoriosa del 1918 in braccio al fascismo e quindi alla disfatta di oggi»403, Patricolo chiedeva retoricamente: «Cosa ha portato l’Italia alla vittoria del 1918, se non il nazionalismo; che cosa ha portato l’Italia al Risorgimento, se non il nazionalismo?».
Questo nazionalismo fino a qualche giorno fa era ancora rispettato e ammesso dai signori della sinistra: oggi si nega ogni fede nazionalista, anche quella che piomba nel lutto i giuliani e i dalmati perché strappati dal territorio nazionale. Vorrei chiedere, cosa è nazionalismo per voi, se non questo legame sacro che unisce tutti gli italiani fra loro, in una comune famiglia? [...] In virtù del nazionalismo noi italiani vogliamo giustizia e chiediamo che la Venezia Giulia, la Dalmazia, Briga e Tenda rimangano all’Italia. In base al nazionalismo più puro noi abbiamo combattuto tutte le guerre del Risorgimento e lottato contro tutti gli indipendentismi che minacciavano l’unità nazionale. Cos’è il nazionalismo se non il sentimento della famiglia trasportato nella Nazione?404.
La Democrazia Cristiana era profondamente spaccata al suo interno rispetto alla firma. La maggioranza avrebbe rimandato, lo stesso Luigi Sturzo criticò l’accettazione di «un trattato che suggellava una condizione di inferiorità politica, economica e morale»405 e che metteva in secondo piano le garanzie del presidente degli Stati Uniti. Egli avrebbe anzi proposto pubblicamente la diserzione di «quel documento che per eufemismo si chiama trattato»406 che, una volta ratificato, avrebbe vanificato qualsivoglia possibilità di sopraggiungere a modificazioni. Trieste, poi, era data per perduta in via definitiva una volta apposta la firma. Della medesima opinione, il democristiano Fausto Pecorari, triestino, presentava all’Assemblea «vari messaggi e ordini del giorno provenienti dalla Venezia Giulia o da associazioni di giuliani sparsi in Italia» comprovanti «lo stato d’animo mio e dei miei confratelli di fronte a questo