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Il dibattito sulla trincea orientale continuava all’inizio del 1946 insieme con la maturazione del progetto repubblicano come un mosaico di tessere eterogenee in cui ai fattori accomunanti si alternavano le voci difformi o palesemente discordi. Accanto al sentimento comune per il «grido di dolore» delle italianissime genti giuliane, iniziava a prender forma il carattere di disunione, dicotomia e debolezza dell’identità nazionale che avrebbe caratterizzato la storia della Repubblica, raggiungendo punte narrative

168 Ivi, p. 1396.

169 P. Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc, cit., p. 22. Si veda in particolare il capitolo primo, Il mito della civiltà latina e la politica occidentale, pp. 19-47.

170A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti, identità bisogni individuali, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 136, cit. anche in M. Rampazi, A. L. Tota (a cura di), Il linguaggio del passato. Memoria collettiva, mass media e discorso pubblico, Carocci, Roma, 2005, p. 130.

sempre più alte nel discorso sull’italianità di Trieste a fronte dell’assunzione di una connotazione fortemente ideologica delle prospettive politiche in campo.

Giovanni Paladin, socialista, originario di Visignano d’Istria, prese parola per richiamare l’assemblea a muoversi unita «sul terreno della giustizia e della libertà» per abbattere la congiura delle forze internazionali che calunniavano la posizione italiana nella Venezia Giulia. Il problema di Trieste riguardava, prima ancora che gli interessi, i «sentimenti profondi che investono in pieno la coscienza umana», chiariva Paladin. «Ma gli uomini che oggi sono al Governo devono pur capire che l’autonomia, concepita secondo lo spirito di libertà che promana dall’idea federale, è il solo fattore politico che può rafforzare i vincoli nazionali delle forze unitarie che oggi si battono per l’italianità della Venezia Giulia». Ciò che egli proponeva era specificatamente un’autonomia regionale amministrativa e legislativa, sulla falsariga degli studi in corso per le autonomie regionali siciliana e trentino-altoatesina, che fosse compatibile con i principi unitari dello Stato:

Il sentimento di nazionalità è oggi il fondamento della personalità umana e, come una volta per la religione, così ora per la propria nazione gli uomini vivono e lavorano, combattono e muoiono. Per superare lo stadio delle lotte nazionali bisogna garantire la più ampia libertà di coscienza nazionale. Questo può avvenire soltanto nella autonomia che nel campo culturale deve essere assoluta172.

Non è casuale che l’invito a una soluzione autonomista arrivasse da un istriano in quel momento. L’esodo delle comunità italiane dell’Istria aveva già preso avvio, e l’accoglienza e l’inserimento sociale delle ampie sacche di profughi in Italia non erano di facile gestione173. La componente autonomista nella Venezia Giulia vantava inoltre una storia di lungo periodo, legata originariamente al suo status particolare di epoca asburgica e successivamente allo scontento maturato in alcuni ambienti dopo l’annessione all’Italia per le inefficienze dell’amministrazione italiana. Negli anni avrebbe a più riprese riacquistato forza con progetti politici opposti e contraddittori, attivandosi sia nel movimento operaio, che nell’area della destra e negli strati sociali indipendentisti.

Ritengo inoltre che l’autonomia culturale cui faceva riferimento Paladin non si distanziasse troppo dai temi apportati dal deputato democristiano dell’Assemblea Costituente Tiziano Tessitori a difesa della sua controversa richiesta dell’attribuzione di

172 CN, intervento di Giovanni Paladin (PSDI), seduta del 14 gennaio 1946, p. 262. 173 Cfr. R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, cit.

un’autonomia regionale speciale al Friuli (successivamente approvata con l’emendamento 12 giugno 1947), che riconobbe come aspetto problematico il fatto che la nuova Regione avrebbe potuto costituire un pretesto per accentuare le pretese delle correnti nazionalistiche di matrice slava sul territorio, superabile tuttavia attraverso «la prova della nostra decisa volontà di collaborazione fra i popoli»174.

Da parte socialista e comunista si sarebbe levato un coro di voci marcatamente critiche proprio nel merito del linguaggio riservato alla trattazione del problema di Trieste. L’onorevole Giovanni Cosattini, sindaco di Udine, espresse una chiara presa di distanza dalle parole di Bonomi sul «grido di dolore giunto dalle terre orientali d’Italia». A differenziare i socialisti, spiegava, non erano i propositi per Trieste bensì «la concezione della patria - come da questa parte si sente - che intanto si sublima, intanto si onora, e ottiene dedizione di tutti noi stessi, in quanto, nella stessa misura, nella stessa maniera noi onoriamo e rispettiamo la patria altrui». Senza la ricerca di una base di convivenza tra i due popoli confinanti, senza l’unione delle due economie storicamente complementari per la cui sopravvivenza era necessario un approccio che privilegiasse l’intesa, il pericolo reale era la capitolazione del senso di patria e la nascita di nuovi irredentismi violenti.

La riserva mossa dai socialisti alla politica patrocinata dall’onorevole Bonomi veniva dunque dal fatto che essi avvertivano «il pericolo che, su quel piano sentimentale, si mascherasse la sostanza dei problemi per i quali urge una soluzione, per lasciare il passo alle irresponsabilità dei nazionalismi e degli imperialismi, che hanno portato alla disfatta». «Dal nostro animo è lontano ogni concetto nazionalistico, in quanto ravvisiamo nel nazionalismo il più pernicioso veleno che mai possa ottenebrare la vita degli Stati», continuava Cosattini, e spiegava come la giusta linea di demarcazione fra italiani e slavi non dovesse essere pensata su base etnica e, anzi, «non potrebbe fondarsi che su basi le quali diano garanzia della maggiore possibile ampiezza di sviluppo alla vita e agli interessi delle popolazioni sopra un piano di eguaglianza».

Volete dare l’intera Italia alla Jugoslavia?, si chiedeva sarcasticamente da varie parti del Parlamento. Cosattini rispondeva alla provocazione ricordando in elenco tutte le gravi responsabilità italiane nei confronti degli slavi e le altre «situazioni auto-inflitte» che mettevano in ginocchio il paese, tradotte in uno scontento diffuso che andava dal

174 Citato in E. D’Orlando, L. Mezzetti (a cura di), Lineamenti di diritto costituzionale della regione Friuli Venezia Giulia, Giappichelli Editore, Torino, 2017, p. 4.

separatismo siciliano all’innegabile verità degli operai giuliani «che guardano alla Jugoslavia», e chiedeva che si considerasse la costituzione di una federazione europea.

Per questa via occorre metterci per salvare questa Europa malata, divisa da tanti contrasti e odi, ponendo in atto il vaticinio degli Stati Uniti d’Europa che Mazzini aveva lanciato creando una federazione di nazioni libere ed eguali. L’Italia potrà rimuovere le ceneri della sconfitta da cui il suo capo è coperto ancora, per trovarsi nella futura pace veramente affratellata alle genti nelle sante lotte per la giustizia sociale175.

Dai banchi del Partito Comunista Italiano, sul tema delle responsabilità nazionali gli fece eco l’antifascista Emilio Sereni:

I lavoratori di Trieste - e l’abbiamo detto pubblicamente nel nostro congresso - si orientano verso una soluzione che non è quella che vorremmo vedere adottata, questo avviene anche e soprattutto perché i lavoratori di Trieste assistono a questo fatto: che nella Jugoslavia democratica e progressiva i criminali di guerra si mettono al muro o in galera; in Italia invece i criminali di guerra passeggiano impunemente e qualche volta passeggiano anche nei locali del Ministero della guerra senza che nessuno si occupi di arrestarli176.

L’intervento di Sereni era legato al controverso proposito comunista di modificare gli equilibri politici della società italiana in senso più possibile favorevole alle posizioni internazionaliste, pur rimanendo il PCI un partito di Governo promotore di una identità che fosse nazionale: era questa un’ambivalenza che ben emergeva nella questione giuliana e che segnò una delle pagine più complesse della parabola togliattiana. Ma qui egli esprimeva anche una pesante denuncia di quello che dalla storiografia è stato definito il periodo del “trionfo della continuità dello Stato”, «in virtù della quale una grandissima parte degli istituti propri del regime fascista - o connotati politicamente dal regime fascista - diventa spina dorsale della nuova repubblica trasferendovisi con disinvoltura assieme alle sue piante organiche, alle sue articolazioni interne, alle sue gerarchie»177. Alla critica a questa «sorta di continuità silente del potere e delle istituzioni sociali, o meglio alla perpetuazione dei privilegi» di pianta fascista, mantenutisi indisturbati all’alba della Repubblica «vuoi per omissioni legislative, vuoi per eccesso di prudenza, vuoi per distrazione più o meno consapevole»178, si aggiunse

175 CN, intervento di Giovanni Cosattini (PSI), seduta del 15 gennaio 1946, pp. 282-283-286. 176 CN, intervento di Emilio Sereni (PCI), seduta del 17 gennaio 1946, p. 329.

177 Ibidem.

178 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit. pp. 39-40. Cfr. anche C. Pavone, La continuità dello stato. Istituzioni e uomini, in Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Giappichelli, Torino, 1974 e Gli anni della Costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Feltrinelli, Milano, 1983.

l’attacco senza mezzi termini del deputato e membro della direzione nazionale del PCI Velio Spano, rivolto prima di tutto contro la linea politica dei governi Bonomi, ma non solo:

La verità è questa: che la politica estera dell’Italia è stata da venticinque anni impostata su una linea che ha come uno dei suoi aspetti essenziali l’avversità contro gli slavi. Nel passato, nel dopoguerra, erano state prospettate due linee politiche: una di avversità agli slavi ed una di amicizia verso i popoli slavi. Ora noi dobbiamo constatare che questa ultima politica di amicizia non era sostenuta soltanto dai socialisti, ma c’erano molti elementi autorevoli della democrazia che sostenevano questa stessa politica […]: Giolitti, Nitti, Albertini, Amendola, Bissolati e Gobetti. Non c’era l’onorevole Bonomi ed è proprio sulla linea antislava che è stata da lui imperniata la politica estera italiana. In altri tempi questa politica antislava dove ci ha portato? Ci ha portato alla guerra. Ora noi domandiamo ai neo- nazionalisti italiani: è verso la guerra che volete di nuovo marciare? È forse questo il patriottismo dei neo-nazionalisti italiani? E in che cosa, domando io, differisce questo patriottismo dal catastrofico pseudo-patriottismo del fascismo?179.

Ricollegandosi alla nota di biasimo per l’abitudine dei consultori ad abbandonarsi a sentimentalismi di sapore nostalgico mossa dal collega socialista Cosattini, continuava:

Eccitando gli animi su questa questione, noi diciamo che non si serve la causa del riavvicinamento tra i popoli, onorevole De Gasperi, non si serve la causa della pace, non si serve la causa dell’Italia e, soprattutto, non si serve la causa che per tutti noi italiani è sacrosanta: quella della italianità di Trieste. Ora, noi lo diciamo con l’autorità che ci è data dal nostro passato, che il patriottismo in Italia non si dimostra oggi con sparate retoriche riecheggianti un vieto nazionalismo; ma il patriottismo si dimostra proprio nella misura nella quale la Patria effettivamente ed efficacemente si serva. Quanti passi avanti ha fatto, per esempio, la questione dell’italianità di Trieste sulla linea delle declamazioni retoriche alla quale ci hanno portato i consultori Bettiol e Bonomi? Nessun passo è stato fatto e nessun passo si può fare su quella linea. L’italianità di Trieste deve essere difesa su un’altra linea, su una linea di politica costruttiva. Essa non può nemmeno essere difesa con l’aspettare passivamente che l’italianità di Trieste ci venga graziosamente regalata da questa o quella delle grandi potenze180.

L’intervento di Spano riportava, sottotraccia, le ambiguità cui si è fatto cenno circa la posizione nazionale del Partito Comunista, diviso tra la difesa dell’italianità di Trieste necessaria a salvaguardare la propria immagine interna e la proposta compromissoria di un’intesa italo-jugoslava che guardasse alle proiezioni internazionali e, prima ancora,

179 CN, intervento di Velio Spano (PCI), seduta del 18 gennaio 1946, pp. 355-356. A proposito del razzismo antislavo cfr. E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Laterza, Roma-Bari, 1966; E. Collotti, Sul razzismo antislavo, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna, 1999, pp. 33-61; M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera, cit.; M. Kacin Wohinz, Vivere al confine. Sloveni e italiani negli anni 1918- 1941, Goriška Mohorjeva Družba, Gorizia, 2004; T. Catalan, Linguaggi e stereotipi dell’antislavismo irredentista dalla fine dell’Ottocento alla Grande Guerra, cit., pp. 39-68.

internazionaliste. Ferruccio Parri invitava ad abbandonare le cristallizzazioni di classe sul problema di Trieste, impegnandosi al contrario a cooperare nella direzione della stabilità nazionale:

Le mie idee sul problema di Trieste e della Venezia Giulia italiana sono note e pubbliche: non occorre mi ripeta, perché qui se ne è discorso anche troppo. Gli amici giuliani ci consentano la raccomandazione a che anch’essi si adoperino attivamente ad evitare che una questione nazionale sia deformata da cristallizzazioni di classe e quindi travesta urti sociali; si sforzino di persuadere gli operai triestini che è loro primo interesse cooperare allo stabilimento di un regime democratico in Italia, non in Jugoslavia181.

L’acceso dibattito di cui si è dato conto si sarebbe interrotto alla fine di gennaio 1946. Con il mese di marzo la Consulta avrebbe smesso di riunirsi in assemblea plenaria per lasciar spazio ai lavori delle Commissioni. A giugno si sarebbe svolto il Referendum. Trieste sarebbe ritornata nel discorso parlamentare fin dalla prima seduta dell’Assemblea Costituente, che inaugurò i suoi lavori il 25 giugno 1946. Il socialdemocratico Giuseppe Sotgiu pronunciò l’ultimo appello della Consulta Nazionale concernente la questione giuliana, al fine di evidenziare la gravità di un’ipotetica - e poi confermata - assenza di Trieste dai seggi della prima Assemblea repubblicana del Paese.

Sia consentito a me che parlo da questo settore della Camera, di rivendicare la passione delle terre giuliane. Non voglio fare della retorica, non voglio nemmeno ricordare sentimenti che sono profondi nelle nostre coscienze. La passione giuliana è sentita dal popolo tutto, dai lavoratori, dai ceti medi, dai borghesi, dal proletariato. Non bisogna andare contro questo sentimento del popolo intero, perché altrimenti nascerebbe dal disconoscimento dei nostri diritti la forza di un nuovo nazionalismo. Da questi banchi della Camera è bene che si dica che la fiamma dell’irredentismo, la passione per il ricongiungimento all’Italia delle sue terre, sono state sempre alimentate proprio dagli uomini di questa parte, se è vero, come è vero, che da Oberdan a Battisti furono uomini di democrazia, del socialismo (Cesare Battisti era un socialista come voi), furono uomini della tendenza repubblicana che agitarono e imposero la soluzione di questo problema, che era il solo modo per unificare e pacificare l’Italia. Si dica chiaro, lo si sappia da tutte le parti, onorevoli colleghi, che noi sentiamo la necessità assoluta di giungere rapidamente alla Costituente per risolvere il problema istituzionale, senza la cui risoluzione non è possibile instaurare in Italia la democrazia, noi pensiamo anche che non si può creare la democrazia, non si può creare una repubblica democratica se non si risolve il problema delle nostre terre e dei nostri confini. Una Costituente - mi sia concesso di dirlo e vorrei fare appello agli uomini di tutti i partiti, alla coscienza di tutti gli italiani - una Costituente nella quale fosse vuoto il seggio di Trieste non comincerebbe, non inaugurerebbe bene l’era democratica nel nostro Paese182.

181 CN, intervento di Ferruccio Parri (PdA), seduta del 19 gennaio 1946, p. 399. 182 CN, intervento di Giuseppe Sotgiu (PDL), seduta del 16 gennaio 1946, pp. 321-322.