La Consulta Nazionale fu istituita con il decreto luogotenenziale del 5 aprile 1945 n. 146 sotto forma di assemblea plenaria consultiva incaricata di «dar pareri sui problemi generali e sui provvedimenti legislativi che ad essa venissero sottoposti dal Governo»112.
110 Cfr. E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, cit., in particolare Parte quarta - Terra di nessuno e Parte quinta - Il paese dei partiti.
111 R. Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia (1938-1956), cit., p. 139.
112 Camera dei Deputati, La Consulta Nazionale, dal Segretariato generale - Ufficio Studi Legislativi, Roma, 31 dicembre 1948, p. 9.
Sorta di parlamento non elettivo provvisorio, si compose di 430 consultori nominati dal Governo stesso fra i sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, gli ex parlamentari antifascisti, gli appartenenti a organizzazioni sindacali, professionali e culturali, i reduci e infine i ministri e i sottosegretari dei governi costituiti all’indomani della Liberazione113. Iniziò i suoi lavori il 25 settembre 1945 e in 40 sedute pubbliche di Assemblea plenaria e 151 riunioni delle Commissioni si incaricò di indirizzare gli uomini del Governo nel compito di ricostruzione democratica del Paese e del suo inserimento nel consesso internazionale delle potenze, nonché nella preparazione di un’Assemblea Costituente che fosse eletta dal popolo. La presidenza fu affidata al repubblicano Carlo Sforza.
Ad aprile di quello stesso anno l’Italia usciva dal secondo conflitto mondiale vinta, sconvolta, divisa e occupata dalle forze anglo-americane, ma intenzionata a lasciarsi alle spalle una «crisi d’involuzione e degenerazione progressiva di un regime, che, seguendo l’arco logico e fatale del suo sviluppo, è crollato trascinando il paese nella sua rovina fragorosa ed esemplare», asseriva il presidente del Consiglio dei Ministri Ferruccio Parri in apertura della prima seduta di Consulta114. L’eredità «luttuosa e pesantissima di miseria e di disordine» lasciata dal fascismo e dalla guerra riapriva tuttavia la strada alla volontà di risorgere di un popolo intero, spiegava Parri, al fine di attestare «l’unità perenne e indistruttibile della Patria» all’alba di un “nuovo” Risorgimento115. E al Risorgimento del secolo precedente ritornava il presidente provvisorio della Consulta Gregorio Agnini, uomo del Partito Socialista, invocandone anch’egli uno nuovo, rivoluzionario, repubblicano e responsabile, che si compisse nei campi del lavoro e fosse opera della massa lavoratrice del paese116.
Il richiamo al mito fondativo del Risorgimento già nel corso della prima udienza parlamentare postbellica è da tenere in conto alla luce del bisogno di riconciliazione e rilegittimazione nazionale di cui necessitava il Paese. Il recupero di un retaggio che aveva sollevato le più controverse riflessioni sull’identità nazionale fin dall’età liberale, in seguito fatto proprio ed esasperato dalla retorica fascista, risultava ora una risorsa utile a colmare un «deficit di identità e di patrimonio simbolico che obbligava il
113 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., p. 46. Sulla storia della Consulta Nazionale cfr. F. Bonini, La Consulta Nazionale e la legislazione transitoria, in Il Parlamento italiano. Storia parlamentare e politica dell’Italia, vol. XIII, Nuova CEI Informatica, Milano, 1989, pp. 127-146.
114 Consulta Nazionale (d’ora in poi CN), intervento di Ferruccio Parri (PRI), seduta del 25 settembre 1945, p. 1.
115 Ibidem.
processo di ricostruzione a confrontarsi con la tradizione nazionale e a coltivare un nuovo sentimento di appartenenza»117. Era urgente «riabilitare la nazione» dal punto di vista dell’integrità territoriale, economica, politica ma anche come realtà «ideale e morale»118 e dunque si ritornò al non esaurito mito ottocentesco risorgimentale, capace di incontrare e riempire di contenuti diversi ciascuna delle aspirazioni nazionali e delle esigenze culturali di gruppi politici contrapposti.
I maggiori partiti politici di questo periodo, le cui ideologie ritornavano ad «appartenenze sollecitate dalla divisione geopolitica e ideologica»119 e le cui radici poco avevano a che fare con le lotte di indipendenza risorgimentali, rivisitarono infatti il proprio rapporto con la storia nazionale rivendicando legami originari storicamente poco fondati ma utili a fini pedagogico-patriottici. Duplice era l’intento: promuovere un nuovo paradigma collettivo adatto a fare da caposaldo alla nascitura identità democratica e repubblicana e altresì «legittimare la richiesta di un reinserimento paritetico dell’Italia nel nuovo contesto internazionale»120.
Ma perché scegliere il mito del Risorgimento e non uno proprio delle forze politiche protagoniste? Numerose riflessioni sono state condotte in merito alla memoria dell’antifascismo e alle rappresentazioni della Resistenza, dalle quali emerge anche la difficoltà di farne nell’immediato un nuovo mito fondativo autonomo121. Per quanto si presentasse come naturale erede dell’epos risorgimentale in qualità di «nuovo movimento di liberazione e di indipendenza del popolo italiano»122, la Resistenza faticò infatti a farsi simbolo e mito unitario, immagine e verbo, valore e principio ideale di legittimazione del nuovo Stato123. All’indomani del conflitto pressoché tutti i partiti italiani, quasi in competizione per chi tra di essi fosse l’autentico erede della tradizione
117 M. Baioni, Risorgimento conteso. Memorie e usi pubblici nell’Italia contemporanea, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, p. 95; cfr. anche U. Levra, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Torino, 1992 e M. Isnenghi, Storia d’Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo, Laterza, Roma-Bari, 2011.
118 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 322. 119 M. Baioni, Risorgimento conteso, cit., p. 97.
120 P. Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa e Comunità atlantica (1943- 1954), Il Mulino, Bologna, 2013, p. 21.
121 Cfr. in proposito C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; Id., Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995; N. Gallerano (a cura di), La Resistenza fra storia e memoria, Mursia, Milano, 1999; G. Miccoli, G. Neppi Modona, P. Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 2001; G. Santomassimo, Antifascismo e dintorni, Manifestolibri, Roma, 2004; F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, cit.
122 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 339. 123 Ibidem.
risorgimentale, ripartirono sì dalla narrazione della Resistenza, ma concordandola idealmente alla precedente mitologia nazionale e trasfigurandola in un «secondo Risorgimento»124. Ciò che si rafforzò trasversalmente fu la pretesa continuità di un carattere nazionale naturalmente “positivo”125, propenso alla libertà e all’amor di patria, mentre prendeva forma la nota parabola autoassolutoria degli «italiani brava gente»126, virtuosi per natura, non inclini alla guerra e non contaminati da vent’anni di fascismo, ma vittime involontarie di una deriva dittatoriale parentetica127. La classe dirigente del 1945 avallò tale memoria collettiva fondata sulla consolidata tradizione patriottica, al fine di persuadere della propria autorevolezza tanto la popolazione, il cui vissuto recente era particolarmente complesso e contraddittorio128, quanto gli Alleati.
Invece subitanea fu la spaccatura dell’iniziale messaggio epico della grande lotta di liberazione nazionale tra una “Resistenza tricolore”, che ne attenuava i contenuti più progressisti, e una “Resistenza rossa”, cui si aggiunsero presto anche i topoi neofascisti129. Il comune «orgoglio per la funzione rigeneratrice in senso democratico della lotta partigiana»130 andò così frammentandosi di fronte alle emergenti divisioni tra forze partitiche antifasciste legate a logiche valoriali antitetiche e alle ansie per il futuro ordine politico nazionale da strutturare in base al peso determinante delle questioni internazionali131. Nella discussione interna al corpo politico la memoria della Resistenza fu pertanto usata in modi diversi, anche come uno «strumento per addossare, o rimuovere, le responsabilità del fascismo e della guerra, e […] a sostegno di differenti progetti sull’ordinamento politico postfascista»132, perdendo ogni opportunità di farsi mito nazionale.
Una serie di fattori tra cui la fragilità della narrazione resistenziale, l’assoluta impotenza italiana nella politica estera postbellica e il determinarsi di equilibri bipolari
124 P. Cooke, La Resistenza come secondo Risorgimento: un topos retorico senza fine?, in «Passato e presente», 2012, n. 86, pp. 62-81. Si veda in generale Id., L’eredità della Resistenza. Storia, cultura, politiche dal dopoguerra a oggi, Viella, Roma, 2015.
125 S. Patriarca, Italianità, cit., p. 207 e ss..
126 A. Del Boca, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza, 2005.
127 La metafora della parentesi viene utilizzata da Benedetto Croce nel 1944 a un congresso di partiti antifascisti. Cfr. B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. I, Bibliopolis, Napoli, 1993. 128 Cfr. P. Scoppola, Il vissuto degli italiani, in La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 73-84. Cfr. anche E. Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953), Mondadori, Milano, 1986.
129 M. Baioni, Risorgimento conteso, cit., p. 96 e in generale F. Focardi, La guerra della memoria, cit. 130 S. Patriarca, Italianità, cit., p. 210.
131 A. Ventrone, La cittadinanza repubblicana. Come cattolici e comunisti hanno costruito la democrazia italiana (1943-1948), cit., p. 284.
sovranazionali cui in maniera non marginale si legava la crisi triestina133, si saldarono così agli sforzi per una nuova nazionalizzazione delle masse che finì per poggiare sugli elementi fondativi dell’invenzione della nazione ottocentesca134: lingua, cultura, confini naturali.
Osservare questo aspetto significa anche ragionare su quale legame si fosse creato in quel primo dopoguerra fra storia e politica, e su «come gli sviluppi del quadro politico e l’emergere di nuovi problemi e nuove sensibilità sociali e culturali [avessero] condizionato il giudizio storico»135 degli uomini di Governo e dei soggetti collettivi sul proprio passato, per dirla con Pietro Scoppola. «La politica ha bisogno della storia», continua Scoppola, e per tracciare le linee della narrazione ufficiale su Trieste è necessario individuare quale fu l’approccio al passato dei rappresentanti politici del tempo. Su una specifica lettura del proprio passato i partiti politici della Repubblica fondarono l’interpretazione dei problemi del proprio presente. Ciò, prima ancora che per farne un uso politico e strumentale, per offrire a quei problemi una soluzione “ideale”. La storia comune, infatti, grazie al suo potere di condizionamento «come memoria collettiva, come vissuto popolare, come mentalità e tradizione»136, costituiva il più grosso bacino di raccolta di stimoli capaci di agire nell’inconscio dei singoli cui il messaggio politico era diretto.
Trieste, città-simbolo insieme a Trento della Grande guerra e del coronamento del Risorgimento, resa personificazione dell’italianità - e di un’italianità più volte violata - è dunque intimamente legata a questo processo di rilettura della storia recente del Paese.
3. «Viva Trieste italiana!»
È significativo che al termine dei due interventi di inaugurazione della Consulta Nazionale il deputato democratico cristiano genovese Paolo Cappa, attirandosi in tal modo la prima alzata in piedi di tutta l’Assemblea e la generalità degli applausi e delle grida di approvazione, sommasse alle invocazioni per il trionfo dell’Italia repubblicana
133 Cfr. R. Pupo, Trieste ‘45, Laterza, Roma-Bari, 2010.
134 B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 2000; E. J. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 1994.
135 P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 43. 136 Ibidem.
un «Viva Trieste italiana!»137. L’accorato appello, così come la commossa e scomposta reazione che ne conseguì, riportata nel verbale della seduta in forma di commento, costituiscono la prima testimonianza del ritorno del motivo di Trieste nel Governo dell’Italia postfascista.
Il 28 settembre Giuseppe Bettiol, deputato democristiano e docente universitario originario di Cervignano del Friuli, teneva un intervento paradigmatico e introduttivo di molti dei contenuti di quello che sarebbe stato il discorso pubblico italiano, e in particolare democratico cristiano, su Trieste. Un «giuliano che vive le sue ormai lunghe ore di passione», così si presentava all’uditorio della Camera, che ha il «glorioso e doloroso privilegio proprio delle genti di confine di trovarsi ogni 25 anni di fronte alla dura necessità di ricostruirsi un’esistenza per fatti e avvenimenti che incidono sulla sua terra. Ed è questo destino che deve essere finalmente spezzato»138.
Bettiol riconosceva la necessità di ammettere le «terribili colpe» del fascismo per la politica snazionalizzatrice condotta nei confronti degli slavi e indicava altresì la completa controtendenza della linea direttiva della politica estera democristiana, volta all’accordo democratico con la Jugoslavia, alla concordia e al recupero della tradizionale amicizia tra popoli italiani e slavi delle zone di confine. Sul fronte opposto però, segnalava facendo malcelato riferimento alle posizioni comuniste, vi erano «certi gruppi dell’interno» responsabili di aver indotto i giuliani di origine italiana verso una frattura con lo Stato, incoraggiandoli «ad accogliere come liberatrici le truppe del Maresciallo d’oltre Adriatico. E i triestini le accolsero realmente come liberatrici, salvo cambiare opinione». Bettiol faceva riferimento all’appello ai lavoratori di Trieste inviato da Togliatti il 1° maggio 1945, al tempo dell’ingresso dell’esercito titino a Trieste cui sarebbero seguiti i noti quaranta giorni di occupazione jugoslava della città.
Dalle pagine de «L’Unità» il segretario del Partito Comunista aveva di fatto esortato i «fratelli dell’Italia settentrionale» ad accogliere i soldati di Tito come liberatori, a collaborare con essi nel riscatto della città da tedeschi e fascisti e a evitare ogni atto provocatorio che potesse «seminare discordia tra il popolo italiano e la Jugoslavia democratica»139. L’appello ebbe larga eco nella stampa di quel maggio ‘45, e rimase a lungo nella memoria dei detrattori della linea politica comunista su Trieste, esempio fra i tanti del conflitto ideologico che andava condizionando la politica italiana del
137 CN, intervento di Paolo Cappa (DC), seduta del 25 settembre 1945, p. 3. 138 CN, intervento di Giuseppe Bettiol (DC), seduta del 28 settembre 1945, p. 49.
139 P. Togliatti, Il Partito Comunista Italiano ai lavoratori di Trieste, «L’Unità», 1 maggio 1945. Cfr. anche M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 286-287 e A. Agosti, Togliatti, Utet, Torino, 1996, p. 306.
pluripartitismo e in modo particolare la politica estera, interessata dalle interferenze delle diplomazie internazionali.
«Non si deve dimenticare quanto i socialisti, i liberali, gli azionisti e i democratici cristiani hanno operato per far sì che quella regione, la quale sotto le sue bianche pietraie custodisce le ossa dei morti della prima guerra mondiale, sia italiana e rimanga italiana», ricordava Bettiol richiamando, a sostegno del suo ragionamento, quella memoria nazionale che legava a doppio filo Trieste con lo spartiacque rappresentato dalla Grande guerra, “quarta guerra d’indipendenza” del Risorgimento italiano e compimento dell’istanza irredentista per la Venezia Giulia.
La città adriatica, “redenta” e ricondotta nel grembo della madre patria, era infatti assurta a emblema di quella partecipazione collettiva alla guerra europea che fu la prima esperienza nazionale e patriottica di massa per milioni di italiani e «l’ultimo atto compiuto della classe dirigente liberale per completare l’edificio dello Stato unitario»140. Al costo di 600.000 morti, dalla Grande guerra era scaturita una “religione della patria” tra le più aggreganti della storia del paese, che si sarebbe celebrata attraverso il ricordo del sacrificio dei suoi figli presso tutti i cimiteri militari di cui era disseminata la linea del fronte141. In occasione della tumulazione del Milite Ignoto all’interno del Vittoriano a Roma nel 1921, maggiore cerimonia nazionale della storia italiana, fu chiamata una madre triestina a scegliere le spoglie anonime di un soldato caduto in combattimento, Maria Bergamas. Il figlio Antonio, attivista del movimento mazziniano e volontario irredentista, disertore dell’esercito austroungarico per unirsi a quello italiano, era perito in combattimento sull’Altopiano di Asiago nel 1916. Il suo corpo non fu mai ritrovato142. Ed ecco che l’aspetto morale, sentimentale, passionale di questo importante tassello del mito della nazione veniva recuperato nel secondo dopoguerra nel nome di Trieste, dei suoi “martiri”, dei suoi eroi. Eretta in questo modo a «capitale morale della nuova Italia»143 e ricollocata al centro di un sistema di sentimenti, credenze, simboli, retoriche e narrazioni politiche garanti della continuità con il passato, Trieste costituiva in quel momento «anche una via di fuga rispetto alle incertezze del presente, un modo
140 E. Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 84-85.
141 Sulla sacralizzazione della politica si citano come testi generali di riferimento G. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari, 1990 e E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari, 2007. Sulla celebrazione dei caduti cfr. O. Janz, L. Klinkhammer (a cura di), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Donzelli, Roma, 2008.
142 Cfr. F. Todero, Morire per la patria. I volontari del “Litorale austriaco” nella Grande Guerra, Gaspari, Udine, 2005.
143 E. Di Nolfo, M. Serra, La gabbia infranta. Gli Alleati e l’Italia dal 1943 al 1945, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 248.
per restare ancorati a un nucleo di valori e a un deposito di memorie che avevano scandito la trasmissione dell’esperienza generazionale»144.