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1. La trepida attesa degli italiani di Trieste

E un altro desiderio ho; l’altro giorno allo stadio gli sportivi triestini mi hanno offerto il modello della campana di San Giusto. Ebbene, io vi dico che desidero di potermi simbolicamente aggrappare alla fune di questa campana e suonarla per l’unità della nostra Italia, della nostra Patria, per la civiltà cristiana183.

La Repubblica italiana, a dispetto delle precedenti invocazioni collettive del Governo, prendeva avvio senza il seggio di Trieste all’Assemblea Costituente.

Il 25 giugno 1946, nella seduta di insediamento del nuovo Parlamento repubblicano, il presidente provvisorio Vittorio Emanuele Orlando salutava il popolo italiano «rappresentato nella sua totalità perfetta, senza distinzioni né di sesso, né di classi, né di regioni o di genti» e, specificava, nella sua totalità unito nel «dolore disperato di quest’ora, nella tragedia delle genti nostre di Trieste, di Gorizia, di Pola, di Fiume, di Zara, di tutta la Venezia Giulia […] le quali però, se non han votato, sono tuttavia presenti, poiché nessuna forza materiale e nessun mercimonio immorale potrà impedire che siano sempre presenti dov’è presente l’Italia»184.

L’Assemblea Costituente, eletta contestualmente al referendum istituzionale tra Monarchia e Repubblica del 2 giugno 1946 e costituita in 556 membri secondo sistema proporzionale con il voto di elettori ed elettrici dell’Italia liberata, non aveva ricevuto infatti le preferenze di Bolzano, di parte della Venezia Giulia e di Trieste, ancora sotto amministrazione militare alleata. Per quanto la vittoria repubblicana avesse in parte aumentato il potere negoziale del Paese, non era tuttavia stato possibile raggiungere un accordo con le Potenze sul confine orientale e sulla sorte di Trieste, mentre l’avanzamento delle trattative internazionali lasciava intravedere ombre sempre più lunghe sulle aspettative del Governo e del popolo italiano.

183 Da Il Congresso della Democrazia Cristiana. De Gasperi precisa in un discorso polemico la posizione del partito e le possibilità di collaborazione, «La Nuova Stampa», 28 aprile 1946.

184 Assemblea Costituente (d’ora in poi AC), intervento di Vittorio Emanuele Orlando (PLI), seduta del 25 giugno 1946, pp. 1-2.

L’inviolabilità dell’unità della Patria ritornava allora, con un trait d’union che univa la nuova Assemblea alla precedente Consulta Nazionale, nelle parole di Orlando, il quale, richiamando gli ideali e l’opera di uomini politici e patrioti come Eugenio Chiesa, Leonida Bissolati, Filippo Turati e il coprotagonista della Repubblica Romana Aurelio Saffi, chiosava:

Questi ricordi di abnegazione patriottica al di sopra dei partiti hanno una gravità solenne, in quest’ora mentre - per usare l’espressione di Saffi - una minaccia contro l’esistenza stessa della Patria appare con una terribilità che supera quella delle ore più fosche della nostra storia, di questi ultimi anni intendo, se si concretassero e diventassero definitive le notizie che ci pervengono circa i patti e le condizioni di una pace che sarebbe orribile185.

Una pace umiliante, continuava, offensiva, che «ci mutila, separandoci da genti che sono carne della nostra carne e sangue del nostro sangue». E così come la costituzione di uno Stato è data e garantita dalle leggi, riprendeva il neo eletto presidente dell’Assemblea Costituente Giuseppe Saragat il giorno seguente, «l’immagine della Patria è scolpita nella natura a caratteri giganteschi, come le vallate e le montagne che ne delimitano i sacri confini. L’intangibilità di una giusta frontiera è quindi parte integrante della costituzione di uno Stato libero, allo stesso titolo delle sue leggi fondamentali»186.

Se è vero, come si è detto, che entro la più generale polemica antinazionalista del secondo dopoguerra era stato screditato anche l’amor di Patria, possibile portatore di derive scioviniste e nostalgie fasciste187, le parole degli uomini di Governo continuavano invece a ritornare a una tradizione nazionale e patriottica di pianta risorgimentale, comune alla cultura laica e a quella cattolica. Pur conservando alcune caratteristiche del retaggio nazionalista - il tema delle frontiere naturali, i topoi del corpo della nazione, della discendenza e del sangue, o ancora quello della maternità archetipica dell’Italia188 - il patriottismo della Repubblica si distingueva apertamente dal sentimento nazionalista originario. Per essere espressione di una solidarietà tra uomini e tra diverse patrie, secondo la visione dei liberali; per essere intimamente legato all’idea di libertà, nell’interpretazione di Benedetto Croce189; per essere un’esperienza di vita

185 Ivi, p. 2.

186 AC, intervento di Giuseppe Saragat (PSI), seduta del 26 giugno 1946, p. 11. 187 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 300.

188 Cfr. in proposito A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, cit.

sociale, un «simbolo di un complesso di esperienze umane eguali alla nostra, un ritrovamento del nostro io negli altri»190 nelle parole di un giovane Aldo Moro; infine, per il pensiero comunista, perché identificabile con la lotta per il rinnovamento sociale del Paese. Su Trieste italiana si annodavano i differenti e complementari fili del discorso patriottico postbellico.

«Sfigurare e deformare il volto della Patria repubblicana [è] un’offesa ai più sacri principi della libertà e della democrazia»191 chiosava Saragat nel suo discorso di assunzione del mandato di Presidenza, congiungendo i valori fondanti della società repubblicana con l’integrità del suolo patrio, la cui fisionomia era marcata incontrovertibilmente da frontiere naturali che a Trieste segnavano il loro punto limitaneo. D’altro canto egli aveva già in precedenza espresso il suo giudizio a proposito della questione di Trieste in relazione all’irrigidimento del confronto tra i due sistemi sociali usciti vincitori dal conflitto mondiale, quello socialista e quello capitalistico, con la conseguente compromissione del quadro internazionale.

Ambasciatore italiano presso il tavolo della pace a Parigi tra aprile 1945 e il marzo successivo, nel corso del XXIV Congresso del Partito Socialista a Firenze dell’aprile 1946 Saragat aveva infatti sostenuto che non vi fosse un solo problema italiano in quel momento, dalla vertenza sulla Venezia Giulia alla sistemazione delle altre frontiere nazionali alle colonie, «che non si complichi a nostro danno o si risolva a nostro vantaggio, in relazione all’aggravarsi o al migliorarsi dei rapporti tra i Grandi Stati vincitori»192.

Prima di riprendere il filo del discorso ufficiale di Governo occorre tornare indietro di alcuni mesi. Il 5 marzo 1946, durante il discorso di Fulton in Missouri, Winston Churchill aveva denunciato la creazione in Europa di una “cortina di ferro” da Stettino a Trieste193. Lo stato di radicalizzazione dello scontro ideologico bipolare aveva ora una sua propria definizione e una linea confinaria attestata. La Venezia Giulia, invece, ancora no. Al gravoso problema dei confini orientali d’Italia si era provato - invano - a dar definizione inviando tra marzo e aprile la Commissione interalleata di esperti nominati da ciascuna delle quattro Potenze in visita presso le zone contese da Italia e

190 Ivi, pp. 307. Nel virgolettato, una frase di Moro tratta da A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, Cinque Lune, Roma, 1982, vol. I, p. 26.

191 AC, intervento di Giuseppe Saragat (PSI), seduta del 26 giugno 1946, p. 11.

192 G. Saragat, Il discorso di Firenze, in L. Preti, I. De Feo (a cura di), Giuseppe Saragat. Quaranta anni di lotta per la democrazia. Scritti e discorsi 1925-1945, Mursia, Milano, 1966, p. 313.

193 Cfr. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari, 2008.

Jugoslavia, al fine di verificare e stabilire le condizione etniche ed economiche della popolazione locale.

Una nuova sessione del Consiglio dei Quattro si era svolta fra il 24 aprile e l’11 maggio 1946. Ogni potenza aveva proposto una propria linea di demarcazione, sufficientemente compromissoria quella americana, più severa quella francese, e comunque nessuna conforme alle speranze italiane, per cui un accordo andava ricercato sulla falsariga della linea Wilson. Ancora una volta il Consiglio, paralizzato di fronte all’inconciliabilità dei progetti194, propose di sentire le richieste di Italia e Jugoslavia, come già nel settembre precedente. De Gasperi e Kardelj si espressero il 3 maggio a Londra mantenendo pressoché inalterate le rispettive istanze, mentre la stampa nazionale italiana quasi coralmente - esclusa la voce comunista - accompagnava e sosteneva il viaggio e il compito del presidente del Consiglio. Un compito di particolare rilevanza, viste le implicazioni di politica interna che sarebbero conseguite a un risultato insoddisfacente delle consultazioni internazionali: di lì a un mese nel Paese si sarebbero tenute le elezioni, di cui era fondamentale non compromettere le sorti.

La stampa ebbe in quel frangente un ruolo fondamentale, in linea con il suo utilizzo da parte dei partiti come strumento fondamentale di propaganda elettorale e di «cattura del consenso»195. Per mesi Trieste, le riunioni dei Quattro e le indiscrezioni sul trattato di pace dominarono le prime pagine dei quotidiani italiani, quasi scavalcando il tema non meno caldo della doppia consultazione elettorale. Linea Wilson: estremo sacrificio che l’Italia potrebbe sopportare 196 , apriva a caratteri cubitali «Il Corriere d’Informazione» dell’11 aprile; Le notizie che provengono da Parigi suscitano profonda inquietudine197 titolava «La Nuova Stampa» del 30; De Gasperi a Parigi per difendere la giusta causa dell’Italia198 continuava il 3 maggio il «Corriere»; Dichiarazioni di De Gasperi a Parigi: “Nessun baratto per Trieste”199 rincarava «Il Popolo»; Passione di Trieste. Un confine, non una gabbia200, ancora il «Corriere» del 24 maggio, solo per citare alcuni dei titoli più roboanti.

Al tempo della campagna elettorale per il referendum del 2 giugno fu dunque imponente - e tendenzialmente fideistico - il seguito mediatico dato all’impegno di De

194 A. Millo, La difficile intesa. Roma e Trieste nella questione giuliana 1945-1954, cit., p. 21. 195 Ivi, p. 182.

196 In «Il Corriere d’Informazione», 24 aprile 1946. 197 In «La Nuova Stampa», 30 aprile 1946.

198 In «Il Corriere d’Informazione», 3 maggio 1946. 199 In «Il Popolo», 8 maggio 1946.

Gasperi nel condurre la sua parte nelle trattative di pace per il passaggio di Trieste e della Venezia Giulia sotto amministrazione italiana. L’opinione pubblica veniva sistematicamente tempestata di notizie dal tono il più possibile ottimista sullo stato di avanzamento dei patteggiamenti e su ciascun passo compiuto dai delegati di Governo presso le sedi di discussione internazionali.

Una “pace giusta”201 per l’Italia entro la nuova grande patria europea, con la città giuliana ricondotta nei suoi confini naturali, era invocata da tutte le parti quale obiettivo minimo per la ricomposizione postbellica del Paese, e ancora una volta gli slogan del mito politico della tradizione patriottica, del Risorgimento e della Grande guerra venivano utilizzati dai partiti politici e dai media al fine di mobilitare il consenso delle masse. Occorreva rendere partecipe, entusiasta, fiancheggiatore un popolo per lo più rassegnato, disunito, qualunquista. Sul richiamo a Trieste era possibile cristallizzare la memoria collettiva202, indirizzandovi desideri, rivendicazioni e aspirazioni sì nazionali, ma sempre più declinati secondo le necessità delle diverse organizzazioni politiche che della nazione si facevano portavoce.

Tra i quotidiani di partito spicca l’opera condotta da «Il Popolo». L’organo di stampa democristiano non perdeva occasione per lavorare su di un piano che suscitasse nella popolazione un coinvolgimento di carattere emotivo. I toni conciliatori utilizzati dal termine della guerra e fino a quel momento verso i popoli slavi, raffigurati come antichi vicini e amici con cui occorreva giungere a un accordo pacifico e democratico - in totale controtendenza con la tradizionale ostilità antislava dell’area di frontiera - andavano gradualmente modificandosi secondo la nuova linea generale improntata allo scontro frontale tra Occidente e Oriente203. Trieste sulla carta stampata - e quindi agli occhi di una grossa fetta della popolazione italiana - era una città sotto assedio. Vittima di un paese dal volto anti-democratico, illiberale e aggressivo, essa veniva altresì raffigurata nella sua veste più eroica: in trepidante attesa, presente, sempre in piazza e foderata di bandiere tricolore che tanto gli anglo-americani quanto gli jugoslavi continuavano a

201 La rivendicazione di una “pace giusta” proveniva anche da parte comunista, che pure svolse una campagna di stampa piuttosto modesta sul ritorno di Trieste all’Italia. Essa si trova invocata, oltre che in numerose dichiarazioni di partito, in Il programma del Partito Comunista per la Repubblica democratica dei lavoratori, in La politica dei comunisti dal quinto al sesto congresso, Risoluzioni e documenti raccolti a cura dell’ufficio di segreteria del PCI, Roma, 1948, p. 40. Cit. in P. Karlsen, Frontiera rossa. Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955, LEG, Gorizia, 2010, p. 142.

202 Cfr. M. Isnenghi, I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1996. 203 Cfr. R. Pupo, La rifondazione della politica estera italiana: la questione giuliana (1944-46). Linee interpretative, Del Bianco Editore, Udine, 1979, pp. 153-154.

rimuovere per opposte ragioni, di ordine pubblico i primi, con intenti provocatori i secondi.

Per meglio muovere la macchina della propaganda pro-italianità della Venezia Giulia era stata attivata fin dal gennaio 1946 una struttura apposita, l’Ufficio per la Venezia Giulia204, voluta dallo stesso De Gasperi e controllata direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’ente, «attore partecipe e attivo della Guerra fredda nel teatro operativo dell’Adriatico orientale» 205 , garante dei principali canali politici di collegamento fra Trieste e Roma fino al 1954, si occupò della salvaguardia degli interessi e dei sentimenti italiani da quello che veniva definito il “pericolo slavo- comunista”. I cospicui finanziamenti governativi destinati all’Ufficio per le Zone di Confine, e dall’UZC indirizzati agli organi di stampa, garantirono un’efficace copertura mediatica tricolore della questione nel giugno del 1946, tanto nella Venezia Giulia quanto nel resto d’Italia.

Per l’italianità di Trieste furono divulgate a ogni piè sospinto le ragioni del diritto, della morale, della geografia e della religione, mescolate a rassicuranti narrazioni dell’epopea risorgimentale e a vibranti retoriche eredi dell’irredentismo nazionalista, che sempre più sarebbero andate colorandosi di tinte anticomuniste. Su tali ragioni la DC e in generale l’area centrista composero il proprio manifesto politico e ideale, facendo di Trieste un elemento cardine della propria «costellazione logico-emotiva» di partito, definizione coniata per descrivere «tutta una serie di percezioni, cognitive e valutative, razionali ed emozionali, che rispondono a loro volta a una serie di bisogni consci e inconsci»206 della popolazione cui il messaggio politico è diretto. Parte essenziale delle culture e delle ideologie dei vari movimenti politici, tali percezioni sarebbero capaci di generare una speciale «forza di gravitazione emotiva» sui “credenti”

204 La storia dell’Ufficio per le Zone di Confine inizia ai tempi della Grande Guerra, quando l’Italia si dotò di enti amministrativi straordinari per le terre «irredente» prima e «redente» poi: il Segretariato generale per gli Affari Civili (1915) e l’Ufficio Centrale per le Nuove Province (1919), entrambi sotto il controllo centrale di Roma. Sciolti dal fascismo, furono riattivati nel 1946 in sezioni distinte: un Ufficio per la Venezia Giulia e un Ufficio per l’Alto Adige. A novembre 1947 le competenze di entrambi furono accentrate nell’Ufficio per le Zone di Confine (UZC) che di lì in avanti si sarebbe occupato dell’attuazione delle direttive di Governo circa la tutela degli interessi degli italiani delle zone di confine. Cfr. D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità. L’Ufficio per le Zone di Confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945-1954), cit., in particolare sulla storia dell’UZC il saggio di A. Di Michele, L’Italia e il governo delle frontiere (1918-1955). Per una storia dell’Ufficio per le zone di confine, pp. 25-72.

205 P. Karlsen, Il «nemico» visto da Roma. Sloveni, comunisti e indipendentisti nello sguardo dell’Ufficio per le zone di confine, in D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira, cit., p. 474.

206 A. Lombardo, Democrazia cristiana e questione nazionale. La nuova nazionalizzazione delle masse, SugarCo Edizioni, Milano, 1981, p. 27.

e di mobilitarne le forze all’interno di una religione laica, civile, politica207. Trasfigurata in una sorta di oggetto di “fede” contenente i riferimenti all’italianità più radicati nella memoria pubblica e simbolo dell’orgoglio patriottico della nazione, Trieste ritornava quotidianamente sulle pagine de «Il Popolo» quale minimo comune denominatore delle istanze nazionali e repubblicane. La combinazione di sentimentalismo patriottico perdurante e strumentalizzazione a fini elettorali della questione è (ed era già al tempo) evidente.

Se infatti il Congresso del partito dell’aprile 1946 si era pronunciato concordemente a favore della libertà di coscienza per il voto referendario, netta era la preferenza dei democristiani per la soluzione repubblicana, quotidianamente dichiarata sull’organo di stampa208.

L’operazione ideologica e pedagogica di ricomposizione del senso comune di patria e di nazione che la DC assunse come propria prioritaria responsabilità nel dopoguerra si completava con i richiami agli inalienabili connotati della latinità e della cristianità. Paolo Acanfora ha dimostrato come le esternazioni pubbliche del partito si basassero in quella prima fase di ricostruzione del Paese sul richiamo a quei fattori originari quali elementi costitutivi della missione civilizzatrice universale di cui l’Italia era investita da tempo immemore, e che le altre nazioni non potevano dimenticare pur in una circostanza storica sfavorevole per il Paese209. «L’unità della nazione poteva ritrovarsi solamente in questa certezza di essere dotati di una vocazione missionaria per l’avvenire della civiltà cristiana, condizione indispensabile alla ricostruzione morale e materiale del paese»210, scrive Acanfora riprendendo il programma della Democrazia Cristiana del 1944. Già Agostino Giovagnoli nel suo studio sulla cultura democristiana aveva affermato che «intorno a un’idea di Roma cristiana, De Gasperi raccoglieva il disegno di una nuova politica estera italiana»211.

Acquisisce un peso particolare, allora, il desiderio espresso da De Gasperi al Congresso di aprile - e rimbalzato su tutti i quotidiani - di poter suonare la campana di San Giusto per annunciare l’unità d’Italia, della Patria e della civiltà cristiana212. Quest’ultima non poteva considerarsi compiuta senza la garanzia di Trieste italiana.

207 Cfr. E. Gentile, Le religioni della politica, cit.

208 P. Murialdi, La stampa italiana nel dopoguerra (1943-1972), Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 132. 209 Cfr. P. Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc, cit.

210 Ivi, p. 22. Il documento si trova in A. De Gasperi, Il programma della Democrazia Cristiana, in A. Damilano (a cura di), Atti e Documenti della democrazia Cristiana, 1943-1967, cit., pp. 33-34.

211 A. Giovagnoli, La cultura democristiana, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 134. Cfr. anche P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 1977.

D’altro canto, nei proclami diramati da «Il Popolo» su Trieste si prometteva sapendo di mentire213, sollecitando gli animi degli italiani a tamburo battente attraverso l’uso di parole d’ordine e retoriche che miravano a risvegliare il sentimento di appartenenza nazionale. Appartenenza declinata, chiaramente, in chiave democratica cristiana da parte del gruppo parlamentare che puntava alla maggioranza di Governo, e che ben era a conoscenza dell’impossibilità di ottenere dalla Potenze una qualsiasi soluzione confinaria conforme alle aspettative nazionali cui avevano dato credito.

Nella medesima direzione muoveva d’altro canto il Partito Comunista di Togliatti: la scadenza elettorale rappresentò infatti un punto di snodo verso un rinnovato indirizzo politico secondo cui fattore prioritario divenne la difesa dell’immagine nazionale del partito rispetto alla precedente impostazione internazionalista, fedele alle istanze di politica estera di Mosca e Belgrado. Di fronte all’urgenza del momento di patrocinare in nome dell’opinione pubblica l’appartenenza di Trieste all’Italia, in linea con la politica di unità nazionale del Governo e con le attese del Paese, cadeva infatti l’appoggio incondizionato alle rivendicazioni jugoslave e sovietiche sulla città giuliana. In questo senso andavano dunque anche le esternazioni pubbliche del Partito, tuttavia ben più contenute rispetto a quelle democristiane214: la condizione di subordinazione del PCI agli interessi sovietici215 era infatti solamente “sospesa”, e non certo in via di esaurimento.

Minori sono gli esempi reperiti dell’utilizzo di Trieste a sfondo propagandistico mirato sulla stampa nazionale, ma merita citare quella che risulta essere un’eccezione significativa. Nelle giornate a ridosso della tornata elettorale il «Corriere» nazionale di Mario Borsa - apertamente repubblicano216- offriva spazio alterno alle dichiarazioni di principio dei monarchici e a quelle dei repubblicani. Il 29 maggio al pezzo La parola di un monarchico Di Cesare Degli Occhi seguiva l’articolo Il voto di Trieste, in cui veniva riportato il proclama del CLN giuliano a proposito del referendum:

213 Successivamente De Gasperi avrebbe ammesso che «non c’era altro da aspettarsi, perché in fondo bisognava espiare il fascismo». Cit. in S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 62. Si trova conferma anche in A. Millo, La difficile intesa, cit., p. 27, oltre che sull’organo di stampa del partito democristiano.

214 P. Karlsen, Frontiera rossa, cit. p. 132. Cfr. anche R. Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana.