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La verità è che quel giorno tutta l’Italia protestava

In questo momento sorge irrefrenabile dal nostro animo come un senso di ribellione contro la sciagura immeritata del popolo italiano, e il pensiero di Trieste e di Pola (I deputati si levano in piedi - Vivissimi prolungati applausi - Si grida:

Viva Pola! Viva Trieste italiana!) e di tante altre terre fedelissime dell’una e

dell’altra frontiera che non abbiamo potuto salvare, ci serra alla gola292.

L’ambasciata italiana riceveva il testo definitivo del Trattato di Pace il 16 gennaio 1947. Alcide De Gasperi rientrava, in quegli stessi giorni, dal suo viaggio negli Stati

284 In «Il Corriere della Sera», 6 novembre 1946. 285 In «L’Unità», 7 novembre 1946.

286 In «Il Popolo», 8 novembre 1946.

287 In «La Nuova Stampa», 8 novembre 1946.

288 Non si può prendere in considerazione la cessione di Gorizia alla Jugoslavia, «Il Corriere della Sera», 8 novembre 1946.

289 S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace, cit., p. 90. 290 In «Il Popolo», cit., 8 novembre 1946.

291 AC, intervento di Velio Spano (PCI), seduta del 13 febbraio 1946, p. 1202. 292 AC, intervento di Alcide De Gasperi (DC), seduta dell’8 febbraio 1947, p. 1104.

Uniti. Al Paese, caduto in una forte crisi inflazionistica e in una rumorosa condizione di scontento generale, il presidente del Consiglio portava indietro la promessa di un prestito statunitense di cento milioni di dollari e di nuovi programmi di aiuti esteri: derrate alimentari, carbone, navi, esportazioni293.

Quale fosse la natura del consolidamento del legame dell’Italia con gli Stati Uniti e come ciò avrebbe interferito con la questione di Trieste, si sarebbe chiarito proprio in questa fase. Va respinta fin d’ora la lettura del totale assoggettamento del Paese alla potenza americana. Come è stato appurato in sede storiografica non mancarono in quegli anni le differenze e i contrasti tra i due paesi, in un quadro che Romero ha definito nei termini di un «matrimonio di convenienza» tra due alleati sì affini, ma che si percepivano anche reciprocamente come «scomodi»294. Ciò che andava definendosi era invece il processo di occidentalizzazione del partito di governo e di conseguenza del Paese entro il quadro internazionale della guerra fredda. Il leader trentino avrebbe promosso questo processo con il reale rafforzamento dei rapporti con gli Stati Uniti, ma anche attraverso un continuo e ridondante appello propagandistico ai tratti comuni tra i due alleati e alla garanzia di coesione, stabilità e difesa nazionale connessa alla condivisione degli ideali americani, in particolar modo in senso anticomunista295. Il 1947 prese infatti avvio con il fronte socialcomunista che gridava all’asservimento dell’Italia al blocco occidentale per mano della Democrazia Cristiana296, accusa che avrebbe accompagnato l’intera legislatura a venire. Le sorti di Trieste - e la narrazione che ne conseguiva, modellata a seconda delle esigenze di propaganda degli esponenti dei due blocchi - andavano sempre più intrecciandosi a questo specifico scenario.

In quel principio d’anno Pietro Nenni rassegnava le dimissioni dal dicastero agli Esteri, Saragat rompeva la linea filocomunista e fondava il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, la Democrazia Cristiana progettava lo scioglimento dell’accordo con le sinistre. Il neofascismo, paladino delle rivendicazioni patriottiche e del risentimento

293 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., p. 220. Cfr. A. Varsori, La politica estera italiana nel secondo dopoguerra, LED, Milano, 1993.

294 P. Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc, cit., pp. 34-42. In proposito cfr. F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Einaudi, Torino, 2009; G. Formigoni, La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale, Il Mulino, Bologna, 1996; M. Del Pero, L’alleato scomodo: gli Usa e la Dc negli anni del centrismo 1948-1955, Carocci, Roma, 2001; P. Craveri, De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 2006.

295 P. Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc, cit., pp. 41-42. 296 S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace, cit., p. 100.

popolare, procedeva intanto indisturbato verso la propria istituzionalizzazione in forma di partito297.

La crisi di Governo si accompagnava al «doloroso dramma collettivo» dei trentamila cittadini italiani di Pola, assegnata in via definitiva al governo di Belgrado, che «Il Popolo» descriva come la «città il cui nome è impresso nel cuore di ogni italiano»298. Le coste colme di profughi pronti a imbarcarsi verso Trieste, Venezia e Ancona riempivano le prime pagine di tutti i quotidiani, impostati su un registro di narrativa martirologica. Faceva eccezione l’organo di stampa del PCI, secondo cui «la fabbrica dell’esodo» di pianta nazionalista altro non faceva che gonfiare strategicamente il numero dei partenti. «L’Unità» denunciava senza mezzi termini la «propaganda lievemente interessata» che aveva persuaso 750 profughi polesani - su oltre tremila nominativi ventilati - a imbarcarsi sulla motonave “Toscana” «dopo 24 ore di sollecitazioni, minacce larvate e lugubri racconti di foibe»299. Togliatti escludeva infatti che l’esodo polesano fosse provocato dall’oppressione jugoslava, ritenendo al contrario che dietro le partenze vi fosse un preciso intervento governativo volto a dare un segnale internazionale che avesse i connotati del «sacrificio» nazionale300.

E Trieste? Trieste restava «fuori casa»301, denunciava il giornalista triestino Giulio Caprin sul «Corriere della Sera», osservando come in questa fase la passione per la capitale morale d’Italia fosse tale e il dolore a tal punto «universalmente, popolarmente sentito», da smuovere perfino le anime dei comunisti. Infatti anche chi fino a quel momento aveva interpretato la questione di Trieste esclusivamente nei termini di uno strumento retorico del «risorgente nazionalismo», di fronte alla durezza del Trattato di Pace vedeva ora «la convenienza d’intervenire perché almeno Trieste sia conservata alla comunità nazionale italiana». A unire il Paese attorno al nome di Trieste, per Caprin, non era infatti

l’antica passione irredentistica retaggio spirituale del Risorgimento: è cosa meno idealistica ma più profonda e genuina. È l’intuito vitale di un grande popolo percosso, paziente ai colpi, ma che sa da quale parte gli verrebbe il colpo mortale.

297 S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 99. 298 Il dramma di Pola, «Il Popolo», 31 gennaio 1947.

299 La fabbrica dell’esodo, «L’Unità», 7 febbraio 1947. Per un inquadramento della vicenda istriana e dalmata, si veda R. Pupo, Il lungo esodo, cit.

300 P. Karlsen, Frontiera rossa, cit., pp. 178-179.

Occupata dai tedeschi, dagli jugoslavi, dagli anglo-americani «ma già ufficialmente sacrificata, di un destino che non è nelle mani loro né in quelle dello Stato italiano: nemmeno forse in quelle degli alleati, i quali, contrastanti tra loro, sembrano cercare una pace qualunque in una combinazione casuale dei loro contrasti», la Trieste che usciva dai negoziati di pace era un luogo dall’«incerto destino»302. Tanto che già nel dicembre precedente il deputato democristiano Giovanni Uberti aveva espresso il proprio disappunto nel corso della discussione della seconda sottocommissione per la Costituzione sulle autonomie locali per la grave omissione della Venezia Giulia nell’elenco delle Regioni italiane.

Ciò è tanto più grave perché, ancor prima di conoscere il testo definitivo del trattato di pace, si verrebbe ad ammettere la cancellazione della Venezia Giulia dal novero delle Regioni italiane303.

Una tale dimenticanza rischiava di costituire il segno del tempo. La regione Giulia «non deve scomparire dalla nostra storia e dalla nostra Costituzione», ribadiva Uberti, suggerendo la formula già chiesta da Tessitori - e in un secondo momento passata al voto304 - di una Regione Friuli-Venezia Giulia dotata di speciali condizioni di autonomia.

«Se la lingua da sola facesse plebiscito, la questione dell’appartenenza politica di Trieste non avrebbe potuto essere sollevata né in buona né in mala fede»305, continuava Caprin nelle sue inchieste su Trieste pubblicate quotidianamente sul «Corriere». Infatti, in città, «non parlano che italiano»306. Il riferimento recuperava il discorso di lungo periodo, risalente all’epoca risorgimentale e dell’unificazione, sull’uniformità della lingua come «cardine della nazionalità»307. “Patria” e “nazione”, per Mazzini, Cavour, Tommaseo e per gli altri protagonisti del Risorgimento trovavano la propria definizione e coincidevano nell’unione di «condizioni naturali e storiche»308 - lingua, territorio, razza - e sviluppo della coscienza nazionale. La lingua come fattore primigenio di identità nazionale, premessa portante e inestinguibile della fondazione di una società, costituiva ancora dunque, a quasi cent’anni di distanza, un potente strumento di nation-

302 Ibidem.

303 AC, intervento di Giovanni Uberti (DC), Seconda sottocommissione per la Costituzione, seduta del 16 dicembre 1946, p. 722.

304 L’autonomia speciale per il Friuli Venezia Giulia sarebbe passata all’Assemblea Costituente nel giugno 1947, ma l’effettiva attuazione rimase poi congelata fino al 1963.

305 Italiani e italiani di Tito, «Il Corriere della Sera», 11 gennaio 1947. 306 Trieste fuori casa, cit.

307 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 30. 308 Ivi, p. 26.

building, tanto più in riferimento a un’area di confine solcata da radicati contrasti culturali e linguistici.

I servizi su Trieste e sull’esodo di Pola, nei giorni antecedenti la sigla del Trattato, si susseguivano quasi a costruire un “romanzo della nazione”. Facendo leva sui sentimenti degli italiani, esso offriva un convincente diversivo alle questioni di politica estera e allo scontro politico interno che opponeva i partiti di Governo nella delicata fase di costituzione del terzo ministero De Gasperi. Così, mentre la stampa scandiva lo svolgersi de «la tragedia della Venezia Giulia»309, del diktat e in particolare delle clausole su Trieste si parlava di rado, soprattutto sulla stampa di partito. Poco del resto era ciò che si poteva fare oramai per modificarne le condizioni,mentre invece occorreva abituare l’opinione pubblica alla delusione «mortale»310 delle proprie ambizioni, e rassicurarla rispetto alla bontà dei programmi di aiuti americani rivolti al Paese311.

Per un momento l’istanza più urgente sembrò essere ancora un’altra: riuscire a rimandare la ratifica del Trattato di Pace con l’Italia al momento in cui fosse stato redatto anche quello tedesco, così da poter procedere ad un confronto ed un bilanciamento tra i due testi. Il Trattato, così redatto, «è insieme iniquo e ingenuo, non soddisfa nessuno e non garantisce la pace europea»312, chiosava il «Corriere della Sera». All’accettazione veniva dunque anteposta la richiesta di una revisione delle clausole considerate più arbitrarie, con particolare riferimento a quelle territoriali, nell’ottica di un inquadramento generale postbellico europeo che tenesse conto della riacquisita condizione di piena sovranità del Paese. L’Italia chiedeva al Consiglio dei ministri degli Affari Esteri di essere ammessa all’elaborazione del trattato con la Germania trovando ragionevole giustificazione «nel fatto che dal 13 ottobre 1943 l’Italia è in stato di guerra con la Germania, nei sacrifici sostenuti dal popolo italiano nel corso di tale guerra e nell’apporto da esso dato alla vittoria delle Nazioni Unite. Lo stesso preambolo del trattato di pace con l’Italia […] ha formalmente riconosciuto […] il contributo dato dal

309 La tragedia della Venezia Giulia. Continua intensificato l’esodo degli Italiani che non vogliono Tito, «Il Popolo», 30 gennaio 1947. Cfr. anche Il dramma degli italiani in Istria. Con gravi rischi fuggono dalla “Zona B”, «Il Corriere della Sera», 6 febbraio 1947; Desolazione a Pola, «La Nuova Stampa», 12 febbraio 1947; Pola, non “Pula”, «Il Popolo», 12 febbraio 1947; Cupe giornate a Pola mentre continua l’esodo, «Il Corriere della Sera», 12 febbraio 1947.

310 Conclusioni sulla Venezia Giulia. La porta sbarrata dall’interno, «Il Corriere della Sera», 7 febbraio 1947.

311 S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace, cit., p. 102.

popolo italiano alla lotta contro il nazismo e la posizione di cobelligeranza dell’Italia nella guerra contro la Germania»313.

Non veniva peraltro occultato il «valore soprattutto morale» della richiesta, come telegrafava lo stesso ambasciatore italiano a Mosca Pietro Quaroni:

opinione pubblica italiana già risentita per fatto che nostro trattato pace sembra ignorare sforzi esercito e popolo italiano nella guerra contro la Germania risentirebbe profondamente nostra esclusione da pace tedesca314.

Oltre a mettere in evidenza l’urgenza del Governo di reindirizzare l’attenzione degli italiani su questioni altre rispetto al tradimento delle aspettative sul Trattato di Pace italiano, questa istanza dell’ultimo minuto circa il trattato di pace tedesco dà modo di osservare il perdurare del paradigma del “bravo italiano” e del “cattivo tedesco”. Lo stereotipo, radicato e trasversale a tutti i partiti del fronte antifascista, serviva qui a rivendicare la condizione di vittima del Paese e ad invocare una pace meno punitiva che, si ammoniva, così com’era rischiava di sollecitare pericolose involuzioni reazionarie nel Paese315. Delle responsabilità del Governo italiano sembrava non esserci traccia.

La redazione finale del Trattato con l’Italia non portava dunque alcuna modifica che prendesse in considerazione i desiderata del Paese né a proposito delle sanzioni militari e finanziarie, né circa le clausole coloniali e territoriali, ad esclusione della frontiera del Brennero che fu mantenuta integra. Quanto alla frontiera orientale, fu ufficializzata la perdita della maggior parte della Venezia Giulia (7.429 kmq su un territorio complessivo di 8.212 kmq), assegnata alla Jugoslavia, e la creazione del Territorio Libero di Trieste nell’area rimanente, sulla cui Zona A il GMA avrebbe mantenuto il proprio compito di amministrazione militare sotto la tutela del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Un Governatore, investito di pieni poteri amministrativi, politici e di veto, sarebbe stato nominato rispettando le volontà concordi di alleati occidentali e filo- sovietici. Le rivendicazioni sull’intangibilità dei confini nazionali dell’estate del ‘46 restavano tutte disattese. Si manteneva lo status quo nella regione, con il TLT come soluzione transitoria per Trieste che permettesse un successivo accordo concordato bilateralmente, si diceva, ma la natura di tale impostazione era oramai cristallina. Com’è stato messo in evidenza da Raoul Pupo:

313 Il ministro degli Esteri Nenni alle rappresentanze a Mosca, Parigi e Washington, T. S.N.D 1329/C, doc. n. 707, Roma, 27 gennaio 1947, in DDI 1943-1948, X serie, vol. IV (13 luglio 1946 - 1 febbraio 1947), p. 802.

314 L’ambasciatore a Mosca Quaroni al Ministro degli Esteri Sforza, T.S.N.D 1700-1811/56-57, doc. n. 33, Mosca, 7 febbraio 1947, in DDI 1943-1948, X serie, vol. V (2 febbraio 1947 - 40 maggio 1947), p. 37. 315 Cfr. in proposito F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, cit.

con l’irrigidimento delle relazioni fra i blocchi, la funzione della guarnigione anglo-americana della Venezia Giulia venne a definirsi come quella di un baluardo, rimosso il quale sarebbe caduto l’unico diaframma capace di frenare quelle infiltrazioni comuniste dell’est verso l’Italia che nei timori occidentali avrebbero potuto altrimenti portare tutto il nord del paese sotto il controllo comunista316.

Era necessario garantire la permanenza della presenza alleata a Trieste, che con l’acuirsi della tensione internazionale diventava uno dei «bastioni dell’Occidente»317. La maggioranza di Governo non poteva di fronte all’opinione pubblica far leva su questo aspetto, che andava anzi il più possibile messo in sordina. Le ripercussioni delle decisioni per Trieste sul sentimento nazionale erano cosa di non poco conto, da tenere in dovuta considerazione soprattutto per quanto concerneva la frangia nazionalista del Paese, che su quello scontento popolare strutturava la propria retorica e la propria riabilitazione. Il commissario tecnico per l’Oriente Guido Relli riportava al nuovo ministro degli Esteri Carlo Sforza le proprie impressioni sugli italiani del Territorio Libero, costretti all’abbandono delle loro speranze residue. Egli constatava una condizione generale di

depressione morale, apatia ed uno stato di incertezza e di disperazione. Lo stesso spirito di italianità ne ha risentito […]. Si osserva che la Venezia Giulia è la sola

regione d’Italia che paga la pace e subisce effettivamente le conseguenze della Guerra; molte persone pensano che il Governo italiano voglia disinteressarsi della

regione e quindi anche del neo Territorio Libero318.

Sarebbe stata proprio questa esasperazione, raccolta in parte dalla rete organizzativa slovena e in parte dalla frangia indipendentista, a favorire il consolidamento delle forze nazionaliste e neofasciste nell’area di confine, assecondate dallo stesso Governo per garantirsi il controllo del territorio319. E di quella stessa esasperazione locale la destra radicale si sarebbe servita per guadagnare consensi su scala nazionale.

Anna Millo descrive bene «il robusto filo che appare legare la variegata galassia dei movimenti di matrice neofascista attivi al confine orientale al Governo italiano, agli apparati dello stato, all’esercito, ai servizi segreti»320, il quale peraltro avrebbe modificato la sua natura nel corso del decennio qui considerato in base alle esigenze strumentali di quella fosca alleanza. Se infatti, in un primo momento, il nemico verso

316 R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., p. 42. 317 Ivi, p. 43.

318 Il commissario tecnico Relli al Ministro degli Esteri Sforza, appunto riservato, doc. n. 41, in DDI 1943-1948, X serie, vol. V (2 febbraio 1947 - 40 maggio 1947), p. 48.

319 M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 377-378. 320 A. Millo, Il «filo nero», cit., p. 417.

cui il Governo avrebbe diretto il proprio impiego dell’estrema destra era naturalmente il partito comunista - interno ed esterno - dopo il 1948 sarebbe stato lo stesso Governo Militare Alleato a rappresentare un ostacolo all’affermazione del potere nazionale al confine orientale d’Italia. Il perpetuarsi della condizione di subordinazione del Governo italiano rispetto agli anglo-americani era considerato un rischio sia a livello locale, dove si riteneva che ciò potesse «rinfocolare le tendenze autonomiste, sia sul piano della trattativa internazionale, in cui si temeva che la Jugoslavia potesse diventare un interlocutore privilegiato» con il risultato di mettere in secondo piano le rivendicazioni territoriali italiane321. Così facendo si dava ufficioso avallo alle rivendicazioni di sapore revanscista su Trieste, mentre ufficialmente il neofascismo era tenuto sotto stretto controllo, a fronte del suo discredito internazionale. Nei giorni a ridosso della firma l’attenzione fu pertanto spostata in più direzioni, ora sui diritti della Costituente a decidere in ultima istanza sul Trattato322, ora sul vantaggio che costituivano gli aiuti americani in arrivo323.

Nel frattempo febbrile era l’organizzazione a Roma di una protesta nazionale contro il Trattato di Pace per il 10 di febbraio324. Concordata dalla CGIL insieme con il ventaglio di associazioni combattentistiche e di caduti, mutilati, partigiani e reduci, la manifestazione di protesta prevedeva la sospensione generale di tutte le attività lavorative per dieci minuti a partire dalle ore 11, in corrispondenza dell’apertura della cerimonia parigina. Lo scoccare dell’ora, annunciato dalle sirene, avrebbe interrotto anche la circolazione cittadina. Le associazioni avrebbero deposto una corona sulla tomba del Milite Ignoto, altri cortei avrebbero raggiunto le cave Ardeatine e via Tasso. Tutto era organizzato col massimo scrupolo.

Il 7 febbraio 1947 il Governo decideva di apporre la propria firma. Saragat quello stesso giorno rassegnava le proprie dimissioni da presidente dell’Assemblea Costituente. Al suo posto saliva l’antifascista e comunista onorevole Umberto Terracini, che durante il discorso d’insediamento ricordava agli uomini del Governo: «Un trattato così infame

321 Ivi, pp. 417-418.

322 Libertà alla Costituente di decidere sul trattato, «Il Corriere della Sera», 7 febbraio 1947; La firma del Governo non impegna la Costituzione, «Il Popolo», 7 febbraio 1947.

323 L’invio di grano e carbone verrà intensificato e accelerato. Duecento milioni dall’UNRRA, «Il Corriere della Sera», 7 febbraio 1947; L’UNRRA continua gli aiuti all’Italia, «Il Popolo», 7 febbraio 1947; Cereali dall’UNRRA fino al 31 marzo, «La Nuova Stampa», 7 febbraio 1947.

324 Una manifestazione nazionale di protesta contro l’ingiusta pace, «Il Corriere della Sera», 6 febbraio 1947; Lunedì in tutta Italia uniti nel cordoglio per l’ingiusta pace, «Il Popolo», 7 febbraio 1947; Manifestazione di protesta in tutte le città d’Italia, «La Nuova Stampa», 7 febbraio 1947.

il fascismo, con la infamia, ha imposto all’Italia»325 . De Gasperi esprimeva a nome della Camera il cordoglio per «la sciagura immeritata»326 rappresentata dal Trattato, mentre «La Stampa» annunciava a tutta pagina: «Lunedì 10 febbraio sarà giorno di lutto per la nazione», spiegando come la firma altro non fosse che la chiosa definitiva al «capitolo tragico della guerra dichiarata il 10 giugno 1940», che finalmente scriveva la sua «ultima riga»327. «Il Corriere» enumerava e spiegava al proprio pubblico le ragioni a sostegno della firma: «firmando l’Italia dà una dimostrazione di buona volontà, riservandosi, con la protesta, ogni suo diritto»328. Il messaggio che passava era il seguente: il valore politico di quella firma consisteva esclusivamente nella chiusura definitiva del capitolo della guerra e nell’accettazione di sanzioni sì ingrate, ma che avrebbero potute essere anche più gravose329. Era un compromesso. Ciò che bisognava evitare, si spiegava al Paese, era un atteggiamento di chiusura rispetto alle strade che avrebbero potuto, in un secondo momento, portare a un miglioramento delle clausole del trattato, trincerandosi «in una intransigenza di principio che sarebbe sterile di buoni