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1. Utopie / Mitologie

1.2 Palcoscenici di carta: le critche teatrali di Grassi e Strehler

1.2.5 Giorgio Strehler su «Milano Sera» (1945)

Gli artcoli di Giorgio Strehler, coevi a quelli sull'«Avant» e su «Cinetempo», pubblicat su «Milano

Sera», sono caraterizzat da strategie comunicatve diferent da quelle atvate negli scrit legat

alle riviste gufne (contrariamente a Grassi, che conserva una certa unità di stle e di approccio).

Lo Strehler del 1945 è netamente più concreto, più atento alla realtà del teatro realizzato ogni

sera nelle sale milanesi, visibile e diretamente analizzabile:

Per il teatro italiano la storia di quest ultmi anni non ha servito a nulla. La sua fradicia impalcatura è restata intata. Un mondo che si pensava diviso da noi da una incolmabile fratura si ritrova, ogni sera, sulle tavole dei palcoscenici, tra il pubblico della platea, immutato nelle sue abitudini. Non manca nemmeno la solita coreografa di fascist, ora magnat della borsa nera e di gerarchi immancabilmente prosciolt da ogni accusa e rinviat alle amorose cure dei molt rufani che ancora girano per le strade devastate delle nostre cità.178

Altro che togliere le tasse! Sono i teatri che dovrebbero essere tolt di mano agli speculatori atraverso un rigido sistema di controllo statale. Solo allora si potrà parlare di efetvo mutamento delle condizioni di vita dei nostri atori con relatva trasformazione del clima di improvvisazione che caraterizza oggi la scena italiana in un equilibrato organismo preoccupato soltanto dalla sua funzione artstca e sociale.179

Strano che non si sia ancora compreso che la crisi della nostra scena è prima di tuto una crisi organizzatva, amministratva e sociale e, soltanto come conseguenza, artstca. Basterebbe per tentare di risolverla, con risultat inatesi, adeguare il nostro teatro ai tempi, per non lasciarlo andare più con tut i suoi bagagli sulla sua vecchia Ford che ci ricorda, troppo da presso, certe comiche di Larry Semon, toglierlo, infne, da quell'organismo fnanziario che Jacques Copeau chiamava «l'orribile macchina per fare gli spetacoli».

178 Giorgio Strehler, “Il simulatore”, in «Milano Sera», n. 22, 1 setembre 1945, p. 2.

Nelle atuali condizioni è inutle accanirsi contro i repertori, l'interpretazione esteriore dei comici, l'estemporaneità o l'inesistenza della regia.

Anche il teatro ha la sua logica e a determinate premesse possono corrispondere solo determinat risultat. Dunque aspetamo che lo Stato si interessi un giorno o l'altro anche di noi.180

Fratura insanabile fra palcoscenico (malgrado gli aggiornament) e platea (di cui viene presa in

esame una specifca composizione sociale); invocazione della stabilità e del controllo statale come

tramite per un innalzamento qualitatvo; defnizione della crisi teatrale come ascrivibile ad una

crisi organizzatva: anche quando le posizioni sono immutate, le argomentazioni si presentano

decisamente distant da quelle a cui Strehler fa ricorso negli artcoli per «Posizione».

Questo è riscontrabile in partcolar modo nell'ultmo artcolo (il primo in ordine cronologico),

legato proprio all'analisi del pubblico, defnito un pubblico fallimentare, qui riportato nella sua

versione integrale:

181

L'improvvisa prosperità del nostro teatro di prosa, l'abbondanza delle nuove compagnie, il numero degli spetacoli, e sopratuto la regolare afuenza del pubblico, il fato (che dové sembrare inaudito a tant vecchi atori e capicomici) che il lavorare a tuto esaurito sembrava ormai diventato una regola, hanno fomentato in molt le più rosee speranze e (si direbbe) le più giustfcate illusioni sull'avvenire del nostro teatro.

Ma il fenomeno è, secondo noi, del tuto illusorio. Ed è indispensabile esaminarlo a fondo senza lasciarsi ingannare dalle apparenze.

Nulla di più ovvio dell'afermazione che è il pubblico, con la sua afuenza ed il suo comportamento, a darci la misura della validità di un'opera drammatca e quindi di tuto il teatro in genere. Lo stesso Jouvet, or non è molto, ci confessava di credere soltanto in ciò che gli spetatori sapevano ofrirgli: successo od insuccesso, applausi o fschi.

Per chi si ferma, dunque, per considerare che la maggior parte dei teatri italiani lavora con le platee inverosimilmente stpate, parlare di decadenza, di “situazione fallimentare” può sembrare uno scherzo di catvo gusto, ma tuto è qui: se cioè nel caso partcolare di Milano, ad esempio, gli esaurit del Teatro Nuovo, del Teatro Lirico, del Teatro Olimpia, del Teatro Odeon rappresentano l'eccezionale foridezza di un'arte o se, al contrario, nascondono quella profonda crisi di cui da tempo, a dispeto dei facili otmismi di superfcie, si va parlando.

180 Giorgio Strehler, “Un grande amore”, in «Milano Sera», n. 26, 6 setembre 1945, p. 2.

181 Pubblicato a stralci in Clarissa E. Mambrini, Il giovane Strehler: Da Novara al Piccolo Teatro di Milano, cit., pp. 292-299.

In questo caso, poiché l'esempio si può facilmente generalizzare, tuto l'organismo della scena italiana starebbe al teatro come il Circo romano con le sue beste feroci e gli elefant sta ad Eschilo e Sofocle.

Il paragone è meno paradossale di quanto appare a prima vista. Proprio l'afusso del pubblico è oggi per noi il segno esteriore di un dissolvimento in ato, una illusoria maschera che ci impedisce di esaminare con serenità le incognite a cui il nostro teatro corre precipitosamente incontro.

E prima di tuto, quale e quanto è questo pubblico? Esaminiamo le cose un po' da vicino, cifre alla mano; quel certo sufragio colletvo che sembra indicare il trionfo di un deleterio gusto estetco si riduce in realtà ad una imponente accetazione di un gruppo ristreto di abitudinari, selezionato soltanto in base alla sua disponibilità fnanziaria, ai provent mensili dei singoli. Basterà osservare che una qualsiasi commedia, novità o ripresa, in una qualsiasi cità d'Italia, non sorpassa in genere il numero di dieci repliche. Calcolando generosamente una media di setecento spetatori per sera, si constata che circa setemila persone assisteranno ad uno spetacolo determinato durante i dieci giorni di replica. Più in là – l'abbiamo deto – non ci si spinge, perché progressivamente il pubblico viene a mancare. Solo un tempestvo cambiamento del programma riesce a riempire nuovamente la sala, dimostrandoci che la mancanza di pubblico era soltanto dovuta all'esaurimento di un numero fsso di spetatori, a quanto pare insosttuibile, ai quali (quasi inutle dirlo) non si può certo imporre il sacrifcio, anche fnanziario, di andare a sentre due volte la stessa commedia.

Prendiamo una cità grande, con più di un teatro: questo modesto numero di setemila, con una moltplicazione otmistca si eleverà alla cifra di vent-ventcinquemila spetatori, ripartt per dieci giorni, in tre teatri. La rivista ed il cinema fanno capitolo a sé.

Quello che ci interessa, insomma, di far risaltare è che nel caso di Milano, per limitarci ad un esempio per noi decisivo, su un complesso urbano di circa due milioni di abitant, questa piccolissima percentuale di ventmila rappresenta tuto il “pubblico” abituale per [il] teatro di prosa.

Questa sola constatazione, nella sua nudità di diagramma, è una risposta ci sembra, anche troppo eloquente a certe proposte di un teatro sociale, popolare, educatvo, ed è sufciente, ohimè, ad annullare tuta la carta stampata intorno ai proget di ogni futura ricostruzione. Ma non basta. Perché, al lume di questa premessa, è facile rintracciare un altro vizio che, questa volta, non riguarda la quanttà ma piutosto la qualità dei pubblici contemporanei. Se ammetamo, infat, che i programmi delle compagnie di prosa passano con una estrema facilità da Shakespeare a Guitry, da Wilder a Niccodemi, e che gli uni e gli altri sono, come si vede ogni giorno, applaudit con la stessa convinzione dalle stesse persone, la conclusione è

una sola: gli spetatori che riempiono le nostre platee hanno perduto ogni facoltà di giudizio e non sanno più reagire ad un'opera d'arte. Il pubblico, se pubblico possiamo chiamarlo, ha cessato dalla sua funzione corale, da creatore si è tramutato in istrumento passivo per diventare, infne, termine di un afare commerciale. I risultat inconcludent di gran parte del teatro contemporaneo si possono spiegare soltanto riconoscendo che al teatro, da secoli, è mancato questo suo riferimento colletvo e colletvo soltanto. Perché, evidentemente, è impossibile parlare di “colletvità”, riferendosi ad una piccola frazione di essa, priva di senso critco e di gusto, che non si identfca in nessun modo con il pubblico, ma ne rappresenta, al contrario, la parte più trascurabile.

Per noi, ogni sera, le platee sono deserte. Il pubblico, il vero pubblico ne è assente. In assurdi edifci spetacolari dislocat secondo un errato calcolo fnanziario si aggira soltanto un'aristocrazia borghese creata dai prezzi e dagli orari. Alle sue partcolari degenerazioni il teatro corrisponde stretamente, per sussistere. Non diversamente insomma, dagli altri organismi produtvi che si piegano soto il peso di un assurdo sistema sociale, il teatro si rivela, in ultma analisi, intaccato nelle sue radici profonde. E non da ieri.

Tuta la prosperità apparente delle folle che scorrono ai boteghini è un trucco? pericoloso. Come una certa casa di Strindberg che, crollata in un incendio, mostra, coi suoi doppi muri, usa al contrabbando, il nostro teatro, gioiosamente afollato occulta, invece una tragica realtà. Tragica perché nonostante tute le concessioni e tut i compromessi le sue sort, di giorno in giorno, appaiono più dubbie.

Lo sanno le compagnie di prosa, non una esclusa leggono con tmore le somme passive dei loro borderò.

Di questo passo, ben presto sarà dichiarato il gran fallimento del teatro italiano. Fallimento di un'arte, d'accordo. Ma, ci sia concesso di pensare, sopratuto fallimento di un pubblico, di un equivoco modo di vivere, di una decrepita mentalità, a cui volenteri rinunciamo, per ricominciare questa volta – speriamolo – su un'altra strada.182