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Gli albori delle biblioteche per la comunità locale

Nel documento Le biblioteche pubbliche nell'era "social" (pagine 95-104)

3. La “crisi perenne” delle biblioteche pubbliche italiane: analisi storica ed istituzionale

3.1 Gli albori delle biblioteche per la comunità locale

La storia della biblioteca pubblica in Italia appare alquanto paradossale già a partire dalla stessa locuzione di «biblioteca pubblica» che, nel nostro Paese, per molto tempo è stata associata al modello istituzionale delle “biblioteche statali aperte al pubblico” le quali però non hanno mai rivestito e continuano a non esercitare la funzione delle public libraries anglosassoni con le peculiarità e le finalità descritte nei precedenti capitoli, essendo infatti deputate alla raccolta e alla conservazione di collezioni perlopiù antiche e di pregio. Da un punto di vista concettuale sono invece le “biblioteche degli enti locali” - o comunque quelle non statali - le istituzioni che si identificano maggiormente con le “biblioteche pubbliche per tutti” presenti in area anglosassone già a partire dalla seconda metà dell'Ottocento ma che in Italia hanno preso avvio dopo più di un secolo rispetto alle esperienze inglesi e statunitensi.

La causa di questo atipico e tardivo sviluppo delle biblioteche moderne viene principalmente attribuita agli errori e alle lentezze della classe dirigente italiana, incapace di sviluppare una politica bibliotecaria coerente ed efficace almeno sino all'avvio a regime delle autonomie regionali negli anni Settanta del secolo scorso [BARONE – PETRUCCI 1976]. D'altra parte non si può ignorare la particolare situazione italiana all'indomani dell'Unità, caratterizzata sia dalla presenza delle biblioteche governative, ovvero degli istituti ereditati dagli stati preunitari le cui funzioni variavano a seconda delle scelte di politica bibliotecaria attuate dai rispettivi governi nei secoli precedenti, sia delle biblioteche istituite dai comuni nelle principali città italiane. TRANIELLO [2002a] è concorde con Barone – Petrucci nel rilevare che il mancato decollo di un sistema bibliotecario moderno negli anni immediatamente successivi all'Unità d'Italia non sia attribuibile ad un problema quantitativo quanto piuttosto ad una responsabilità politica: infatti il numero delle biblioteche ad uso pubblico era abbastanza elevato se commisurato a quello delle public libraries presenti nello stesso periodo in Gran Bretagna52, ma le istituzioni italiane venivano utilizzate perlopiù da un pubblico ristretto di

studiosi e, per quanto attiene alle biblioteche degli stati preunitari, dopo l'unificazione la loro gestione era stata presa in carico dallo Stato.

52 Secondo i dati emersi da un censimento del 1863, in Italia il numero delle biblioteche ad uso pubblico si aggirava intorno alle 164 unità delle quali 33 erano governative e 110 di appartenenza locale, mentre il numero delle public

Inoltre in epoca coeva nei paesi anglosassoni erano già state attuate riforme che riconoscevano alle biblioteche pubbliche lo status di istituzioni di base per l'intera comunità ed amministrate dalle autonomie locali, mentre in Italia questi interventi non furono affatto presi in considerazione dallo Stato negli anni della Destra storica (1861-1876), che pure aveva compreso la necessità di rinunciare alla gestione di un così alto numero di biblioteche governative ma che poi nei fatti non è intervenuta concretamente per far estendere i servizi locali, nemmeno sotto il versante di un incremento delle voci di spesa o delle entrate tributarie dei comuni (TRANIELLO [2002a p. 50]). Il risultato di questa inerzia è stata anche l'assenza di provvedimenti volti all'ammodernamento delle raccolte poiché fu perseguita una politica consistente nella devoluzione alle biblioteche pubbliche - sia statali che locali - dei fondi librari degli enti e delle corporazioni religiose soppressi, perciò molti comuni istituirono nuove biblioteche con stanziamenti irrisori e sulla base dell'incameramento di fondi ecclesiastici costituiti certamente da testi di indubbio valore storico e di ricerca ma senza tenere conto che i libri religiosi erano quelli meno letti e dunque i meno adatti a stimolare l'interesse verso la pubblica lettura.

L'esperienza di biblioteche locali caratterizzate da patrimoni ecclesiastici si è rivelata un sostanziale fallimento poiché non si è fondata né su una valida linea d'intervento in campo bibliotecario né sull'istituzione di un vero servizio informativo e culturale, quanto piuttosto sull'identificazione della biblioteca come un insieme di beni librari, sia pure ad uso pubblico, dei quali vantarne l'antichità o la rarità. Ciononostante queste biblioteche avevano spesso sede in locali scarsamente attrezzati e nei fatti più simili a magazzini, gestite da qualche impiegato o insegnante locale anziché da bibliotecari professionisti e ricevevano scarsissimi contributi comunali (TRANIELLO [2002a p. 52-58]).

La mancata realizzazione di un vero servizio di biblioteca pubblica nell'Italia postunitaria non è dipesa soltanto da incapacità amministrative ma anche dall'assenza di potenziali utenti al quale destinare questo tipo di servizio: infatti vi era un tasso di analfabetismo così elevato da raggiungere una percentuale del 74% a livello nazionale - con un livello minimo del 53,7% in Lombardia e un picco massimo dell'89,7% in Sardegna - collocando il paese tra quelli meno alfabetizzati nell'Europa occidentale. La situazione del sistema scolastico non era certamente migliore e presentava notevoli disparità in termini di numero degli istituti, maggiormente diffusi nell'area settentrionale rispetto a quella meridionale ed insulare del paese. Inoltre nel 1870 ben il 62% della popolazione in età scolare risultava eludere l'obbligo dell'istruzione elementare gratuita (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 11-12]).

Eppure anche in Italia, soprattutto nelle regioni in cui si avviava un primo processo di industrializzazione, cominciava a formarsi un pubblico potenziale che avvertiva esigenze di informazione, di lettura e di crescita culturale: si trattava di categorie sociali rappresentate dai ceti borghesi con istruzione a livello secondario, dagli artigiani e dai rappresentanti del ceto operaio industriale (TRANIELLO [2002a p. 60-61]).

Dal momento che né la pubblica amministrazione a livello centrale né quella locale non sembravano interessate ad offrire servizi di lettura ai ceti popolari, ed anzi puntavano sulla collaborazione con i privati per la realizzazione dei servizi bibliotecari di base (TRANIELLO [2002a p. 63]), negli anni immediatamente successivi all'Unità si formarono movimenti associativi tra lavoratori che promossero iniziative di tipo formativo-educativo, condotte in prevalenza dai ceti borghesi (TRANIELLO [2002a p. 61]). Fra le iniziative finalizzate alla lotta all'analfabetismo si possono annoverare le scuole serali per lavoratori, una produzione libraria espressamente indirizzata ai ceti popolari fino, appunto, alle prime biblioteche popolari a carattere circolante, così denominate perché fondate sul prestito a domicilio (TRANIELLO [2002a p. 62]).

Nelle intenzioni dei promotori delle biblioteche popolari, queste istituzioni avrebbero dovuto occuparsi dell'educazione dei ceti subalterni, dell'inserimento dei lavoratori nel circuito dei valori e dei modelli della società esistente, della promozione della lettura alle masse italiane analfabete o semianalfabete, dunque il presupposto fondante si basava su una funzione moralistico-educativa associata al processo di acculturazione del popolo (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 38]).

La prima biblioteca popolare fu istituita nel 1861 a Prato da Antonio Bruni, un insegnante elementare, il quale concepiva questo tipo di istituto come un supporto alla formazione scolastica di base purché fosse a carattere circolante e in forma associativa: per tale motivo, secondo Bruni “la biblioteca poteva nascere per iniziativa spontanea di un'associazione di promotori-lettori, in seno a una società operaia o con mezzi di un Comune; in ogni caso, però […] non erano previste sale per la lettura comune e i libri sarebbero stati prestati solo ai soci, impegnati al pagamento di una piccola quota mensile” (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 39]).

L'esempio pratese fu replicato in altre città italiane e inizialmente il modello delle prime biblioteche popolari concepite da Antonio Bruni visse una fase di incoraggiante sviluppo ma cominciò a declinare già a partire dagli anni '80 dell'Ottocento, in particolare perché finì per assumere più la fisionomia di una fondazione di beneficenza che di un servizio pubblico, nonché “per la mancanza di attenzione da parte di governo, comuni e province, che approvano e incoraggiano l’iniziativa senza però impegnarsi concretamente nella loro promozione e

istituzionalizzazione, condannandole quindi a un progressivo esaurimento” [VENUDA 2014 p. 16]. Le biblioteche popolari ritrovarono nuova linfa vitale nei primi anni del Novecento ed in particolare a Milano, dove nel 1903 si costituì, in seno alla Società Umanitaria, il primo Consorzio delle biblioteche popolari il quale nel 1908 diede poi vita alla Federazione italiana delle biblioteche popolari (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 44-45]). Il Consorzio si prefiggeva di far diventare le biblioteche popolari degli istituti di pubblica utilità mantenuti dal Comune e dallo Stato, sull'esempio delle public libraries presenti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna già da quasi mezzo secolo (TRANIELLO [2002a p. 50]). Nel 1904 furono aperte al pubblico le prime quattro biblioteche popolari cui fecero seguito nuove succursali nelle zone di più elevata presenza operaia, sino ad arrivare a ventuno nel 1927 (VENUDA [2014 p. 16]). Nel frattempo l'iniziativa si era diffusa anche nelle zone rurali della provincia milanese, arrivando ad estendersi anche sul piano nazionale soprattutto dopo l'avvio della Federazione.

Secondo TRANIELLO [2002a] l'esperienza delle biblioteche popolari di inizio Novecento rappresentò “il tentativo più avanzato fino ad allora compiuto in Italia per allargare la cerchia dei fruitori dei servizi bibliotecari e anche per adeguare l'organizzazione di questi servizi ad esigenze nuove introdotte dalla rivoluzione industriale, rispetto alle quali l'iniziativa dello Stato poteva dirsi fino ad allora sostanzialmente inesistente” (TRANIELLO [2002a p. 155]).

D'altra parte a partire dal Novecento il modello della public library anglosassone cominciò a rappresentare il paradigma della biblioteca pubblica contemporanea e per tale motivo il termine “biblioteca popolare” apparve superato in virtù di una concezione più democratica di intendere la funzione della biblioteca, dunque non limitata ad una specifica categoria di utenti ma istituita, finanziata ed organizzata in base alla propria tipologia istituzionale (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 38]). Inoltre la public library veniva identificata come l'istituzione aperta al pubblico e specificamente istituita per volontà di amministrazioni pubbliche - prevalentemente a carattere locale - che se ne assumevano la responsabilità gestionale e finanziaria sulla base di una normativa specifica (TRANIELLO [2002a p. 155-157]).

Ciononostante queste riflessioni intorno al paradigma concettuale ed organizzativo non portarono ad una legge specifica per le biblioteche pubbliche di base perciò in Italia continuò a sussistere un sistema caratterizzato dalla dicotomia biblioteche statali o governative e biblioteche popolari. Le prime, nonostante la normativa le qualificasse come “biblioteche pubbliche”, risultavano invece ben lontane dal tanto decantato modello delle public libraries, con l'aggravante di essere soggette ad una forte burocratizzazione, ancorate nel quadro istituzionale del secolo

precedente e dotate di scarsissime risorse benché afferenti allo Stato (TRANIELLO [2002a p. 156]). Le biblioteche popolari apparivano invece più accessibili e maggiormente rispondenti ai bisogni culturali del nuovo pubblico potenziale proveniente dal ceto operaio e piccolo-borghese, dagli studenti e dall'utenza femminile (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 67]), tuttavia nemmeno queste strutture potevano qualificarsi come vere e proprie biblioteche pubbliche moderne, considerati sia gli intenti educativi e parascolastici alla base della loro istituzione sia il legame preferenziale con i movimenti associativi di natura privata anziché con le amministrazioni locali (TRANIELLO [2002a p. 156]).

In epoca fascista il sistema delle biblioteche popolari allora esistente fu smantellato e rimodellato per diventare uno strumento indiretto di propaganda politica e di educazione rivolto soprattutto ad un pubblico di giovani e di giovanissimi; inoltre il regime erogò finanziamenti statali a favore di una produzione editoriale ideologicamente controllata da diffondere anche attraverso la rete delle biblioteche popolari. In merito al graduale smantellamento delle reti delle biblioteche popolari, BARONE – PETRUCCI [1976] ne attribuiscono la causa a questioni di carattere politico poiché queste strutture non risultavano schierate a favore del regime bensì maggiormente orientate “in senso socialista o popolare, ove il libro finiva per educare in qualche modo il lavoratore a una partecipazione più attiva alla vita sociale, anche attraverso la lotta sindacale, lo scontro politico” (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 79]).

I principali interventi attuativi di questo programma furono costituiti dalla sostituzione dei dirigenti, dalla conseguente “bonifica delle raccolte”, dallo scioglimento della Federazione nazionale delle biblioteche popolari che nel 1938 fu sostituita dall'Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche (ENBPS), quest'ultimo appositamente costituito come tentativo di unificazione delle competenze attribuite ai vari soggetti, tra cui anche le parrocchie, che in precedenza si erano trovati a gestire le numerose biblioteche popolari53 (TRANIELLO [2002a p.

180-190]). Tra le finalità dell'Ente vi erano la fondazione di nuove biblioteche popolari nei comuni che ne erano privi, l'incremento delle biblioteche popolari e scolastiche esistenti, la promozione dei libri di carattere educativo, divulgativo o scolastico; tuttavia questi obiettivi non furono realmente raggiunti poiché l'ENBPS non aveva né gli strumenti né la titolarità giuridica per intervenire

53 Secondo i dati forniti durante il 3. Congresso dell'Associazione italiana biblioteche, tenutosi a Bari nel 1934, il numero delle biblioteche popolari italiane era diventato assai considerevole, pari a circa 5.000 unità. Un dato quantitativo che gli addetti ai lavori non valutavano come positivo ma piuttosto come un problema: infatti nell'ottica di chi proponeva l'istituzione di un vero servizio bibliotecario pubblico, le biblioteche popolari apparivano irrilevanti esattamente come le migliaia di altre biblioteche sorte in quegli anni nel quadro delle organizzazioni del regime per l'educazione della gioventù e per il tempo libero, come ad esempio le biblioteche dell'Opera nazionale Balilla o dell'Opera nazionale Dopolavoro. Allo stesso modo anche l'ENBPS appariva più come uno strumento di diffusione del regime che come una struttura promotrice di vere e proprie biblioteche (TRANIELLO [2002a p. 194]).

direttamente nella gestione delle singole biblioteche (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 84-88]). La crisi del modello delle biblioteche popolari arrivò proprio in epoca fascista, circa quindici anni prima dell'inizio della Seconda guerra mondiale. Secondo TRANIELLO [2002a p. 202-203] i motivi si possono attribuire a due fattori: il primo, consistente nel fatto che gli oneri di gestione di queste biblioteche furono sottratti ai movimenti associativi per essere inseriti prevalentemente nei bilanci delle pubbliche amministrazioni centrali e periferiche, le quali però non furono in grado di far fronte alle spese di un numero così elevato di istituzioni. Il secondo, derivante dalla progressiva diminuzione della capacità del libro di veicolare messaggi di propaganda fascista di fronte allo sviluppo di nuovi strumenti di comunicazione quali il cinema e la radio, determinando una perdita d'interesse per la biblioteca popolare come veicolo di educazione di massa.

Tuttavia il dibattito intorno all'utilità delle biblioteche popolari fu ripreso alla fine della guerra, anche in considerazione del fatto che al termine del secondo conflitto mondiale la situazione delle biblioteche pubbliche italiane continuava ad essere carente soprattutto se paragonata a quella degli altri paesi europei ed americani. A tale proposito si legge infatti:

“accanto al problema della ricostruzione delle numerose biblioteche distrutte dai bombardamenti, vi era anche quello di creare dal nulla biblioteche pubbliche per tutti i cittadini della nuova Italia democratica. Si preoccuparono di questo vuoto istituzionale sia bibliotecari legati all'apparato statale, come Luigi De Gregori e Virginia Carini Dainotti, […] sia bibliotecari impegnati nella gestione di biblioteche civiche dipendenti dalle amministrazioni locali, più propensi ad ascoltare le contingenti esigenze quotidiane dei lettori che a configurare il loro operato secondo modelli generali o astratti” [MONTECCHI – VENUDA 2013 p. 63].

Nel nuovo contesto politico e culturale il tema della biblioteca pubblica di tradizione inglese e americana fu ripreso con maggiore vigore rispetto a quello affrontato ad inizio Novecento; inizialmente si puntò a fare un bilancio sull'esperienza specificamente italiana delle biblioteche popolari e il risultato fu la constatazione pressoché unanime di quanto fosse stata disastrosa sotto il regime fascista. Ciononostante vi erano posizioni differenti in merito all'istituzione di un nuovo e più efficace sistema bibliotecario pubblico.

MONTECCHI [2002 p. 84] sostiene che la lunga tradizione delle biblioteche popolari abbia influito notevolmente sull'assetto bibliotecario italiano, ritardando un processo di riforme che avrebbe dovuto insistere maggiormente sulla diffusione della pubblica lettura secondo un principio di parificazione sociale anziché di concezione paternalistica e rivolto ad un pubblico ben delimitato, com'è invece avvenuto. Certamente il modello della biblioteca popolare appariva superato anche da uno dei suoi più grandi sostenitori, Ettore Fabietti, già direttore del Consorzio delle biblioteche popolari milanesi, il quale riteneva che per attuare un vero sistema bibliotecario per tutti si sarebbe

reso necessario un rinnovamento radicale delle biblioteche popolari. Questa tesi però non era affatto condivisa ed anzi fra i principali detrattori vi era Luigi De Gregori, il quale già dagli anni Venti aveva iniziato a farsi promotore della biblioteca pubblica americana ma soltanto a partire dal secondo dopoguerra la sua posizione cominciò ad essere accolta anche da altri bibliotecari, tra cui spiccò Virginia Carini Dainotti. In particolare De Gregori aveva posizioni diverse da quelle di Fabietti ritenendo le biblioteche popolari inadatte a portare in Italia l'esperienza anglosassone delle biblioteche pubbliche e proponendo invece l'appoggio delle biblioteche civiche dei comuni e delle province, a suo avviso gli unici istituti in grado di adattarsi ai nuovi tempi e di trasformarsi in biblioteche moderne. Su quest'ultimo punto però era concorde anche Fabietti che anzi indicava i comuni come gli enti più adatti a gestire le biblioteche per tutti all'insegna di un servizio di capitale importanza per la crescita civile dei cittadini (MONTECCHI – VENUDA [2013 p. 61-63]).

A partire dagli anni Cinquanta si cominciò a pensare alla necessità di estendere il servizio della pubblica lettura sul territorio nazionale e di istituire strutture bibliotecarie in tutti i comuni e non solo nei capoluoghi di provincia o nelle altre città minori, infatti sino alla metà del Novecento, accanto alla quarantina di biblioteche statali, le biblioteche italiane che dipendevano dai comuni, dalle province o da altri enti con finalità “pubbliche” erano in tutto circa trecento ma soltanto i due terzi erano davvero funzionanti (MONTECCHI – VENUDA [2013 p. 59]).

Da un punto di vista numerico i lettori di libri continuavano ad essere limitati54 ed erano

ancor meno coloro che li acquistavano, ad ogni modo stava emergendo un nuovo pubblico potenziale costituito dai giovani di estrazione borghese e piccolo-borghese, oltre alla classe operaia e ai contadini dell'Italia settentrionale che si erano avvicinati alla cultura scritta attraverso la Resistenza e le lotte sindacali (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 112]).

Nel corso di tale decennio l'impegno di Carini Dainotti si focalizzò sulla promozione della public library anglosassone spesso enfatizzata come istituto della democrazia, in netta contrapposizione con la biblioteca popolare ed in particolare con quella di matrice fascista [VECCHIET 2002a p. 93]. Ciononostante TRANIELLO [2002b] sostiene che il modello concepito da Carini Dainotti avesse attinenza con quello della public library solo in parte e limitatamente all'idea che la biblioteca pubblica - in quanto servizio culturale - dovesse essere profondamente inserita nella società, nonché un servizio pubblico aperto a tutti i tipi di utenti, mentre non tenesse in considerazione il punto di vista istituzionale vale a dire il fatto di costituire un istituto “dell'autonomia locale, in quanto posto in essere da una libera determinazione della comunità locale con la conseguente piena e diretta assunzione di responsabilità finanziaria, mediante una tassa ad

hoc” (TRANIELLO [2002b p. 18]).

Il progetto del Servizio nazionale di lettura, approvato nei primi anni Cinquanta sotto la Direzione generale per le accademie e biblioteche e sostenuto proprio da Carini Dainotti, in linea di principio prevedeva la costituzione graduale su tutto il territorio italiano di un servizio di pubblica lettura basato sulle reti provinciali, facente capo ad ogni biblioteca di capoluogo ed esteso nel territorio tramite una rete di biblioteche minori e centri di prestito. In sostanza il progetto prendeva spunto dai paesi anglosassoni dove tali iniziative erano già state sperimentate con successo, ma in Italia il Servizio nazionale di lettura fu ampiamente ostacolato non tanto per mancanza di fondi quanto per lotte politiche e pressioni di gruppi di potere correlati ai governi democristiani allora in carica, tesi sostenuta da BARONE – PETRUCCI [1976 p. 132-134], confermata anche da VECCHIET [2002a p. 100-101] e TRANIELLO [2002b].

In tal senso anche il Servizio nazionale di lettura rappresentò l'ennesimo tentativo fallito di avvio di un sistema di pubblica lettura in Italia; del resto tale progetto trovò obiezioni anche da parte dei bibliotecari di province e comuni

“che ne rilevavano la pericolosa centralizzazione, l'impostazione univoca e l'autoritaria imposizione di metodi, istituti, strumenti e contenuti culturali in evidente violazione di ogni autonomia locale; essi proposero in alternativa una legge di finanziamento da parte degli Enti locali stessi, basata su una tassazione proporzionata al numero degli abitanti, che non venne neppure presa in considerazione dall'amministrazione centrale” (BARONE – PETRUCCI [1976 p. 148]).

I governi della Democrazia Cristiana degli anni Cinquanta puntarono invece ad attuare una

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