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Globalizzazione e concorrenzialità dei “sistemi paese”

Nel documento Compendio di scienza delle finanze (pagine 190-193)

crisi dopo la seconda guerra mondiale, e la riduzione dei dazi, o la loro eli- minazione, già vista al par. 4.17 per l ’Unione Europea, caratterizzano la globalizzazione. Le nostalgie odierne, diffuse in molti paesi occidentali, per il vecchio protezionismo economico, colgono d’istinto alcuni spunti sul rapporto tra economia, politica e diritto. Basta pensare, come anticipato al par. 4.16, relativo ai condizionamenti comunitari, alla forte competitivi- tà di un paese come la Cina, con relative libertà economiche, senza liber- tà politiche, senza diritti sindacali, senza protezione sociale, con repressione poliziesca che tiene a bada le inevitabili tensioni sociali. Lo stesso si può dire per paesi semplicemente “più competitivi” perché “più poveri”, e quindi più disponibili ad accettare condizioni di lavoro “competitive” anche se con libertà politiche. Tutto ciò induce a chiedersi fino a che punto paesi meno competitivi, perché più liberi, pluralisti, e rispettosi della dignità dei lavoratori, possano restare inerti nel vedere il proprio apparato produttivo vacillare in un impoverimento industriale, inteso come disgregazione degli apparati produttivi; questi ultimi non sono persone, ma aziende come gruppi sociali (par.3.1), svaniti in nome della libertà di commercio. Sen- za nostalgie per gli scambi di vicinato dell’era agricolo-artigianale, nella misura in cui l’economia si basa su esportazioni e importazioni il suo equilibrio è quindi meno stabile, perché basato su dati esterni mutevoli e poco prevedibili. Lo sviluppo economico di paesi in precedenza arre- trati è stato senza dubbio positivo, ma la sua concorrenza ha portato allo smantellamento (c.d. deindustrializzazione) di molte aree industriali occidentali. Si pensi ad esempio alla sorte del settore tessile italiano com- pletamente rimpiazzato da produzioni estere, peraltro con buon rapporto qualità-prezzo, ma gli esempi possono essere tanti. La pubblica opinione occidentale non ha tenuto conto che le aziende (par. 3.1) sono diverse dalle abilità di singoli individui, che possono anche riconvertirsi, trovando nuove modalità di rendersi utili e quindi mantenersi. Le aziende sono invece organizzazioni spersonalizzate complesse, collegate all’ambiente sociale,

difficili da ricostruire una volta disgregate. Su questo presupposto era illusorio pensare che le strutture industriali spiazzate dalla concorrenza della globalizzazione, soprattutto se tecnologicamente mature, potessero magicamente evolversi verso nuove produzioni a maggior valore aggiun- to; queste riconversioni richiedono sinergie tra ricerca di base, sinda- cati, sistema finanziario e burocrazia pubblica. Senza adeguata capacità organizzativa, un paese esposto alla concorrenza di paesi più competitivi non si evolve verso produzioni più raffinate, ma declina.

Delocalizzazione non vuol dire soltanto spostamento delle catene di montaggio, delle tute blu, come se l’aspetto tecnico produttivo potesse essere separato da quello progettuale, commerciale, logistico, dell’in- dotto, e in genere organizzativo. Essendo l’azienda un corpo sociale, un coordinamento di persone e di comportamenti, lo spostamento della produzione si tira dietro in parte tutto il resto dell’organizzazione. L’im- poverimento della società è venuto anche dalla delocalizzazione di molte produzioni, in cui soltanto l’organizzazione resta in Italia, ma se ne va tutta la filiera produttiva, con impoverimento della catena del valore; questo indebolimento della base produttiva compromette il mantenimento degli standard di spesa pubblica e “welfare” rispetto ai tempi in cui la base pro- duttiva era maggiore. Chi concepisce le aziende in modo antropomorfico, le può accusare di aver delocalizzato per aumentare i profitti. Come se il capitalismo familiare italiano (par. 3.14), producendo in Cina, attra- verso terzi, pagasse meno gli operai e potesse quindi guadagnare di più, aumentando il proprio profitto individuale (è un altro aspetto della visione antropomorfica delle aziende su cui par. 3.4). La concorrenza di organizzazioni meno costose e/o più efficienti non metteva invece in crisi il profitto, ma il “valore aggiunto” (par. 3.12) che per la con- correnza della globalizzazione non si riusciva più a creare, dovendo quindi adeguarsi alla delocalizzazione per mantenere l’“equilibrio economico”, la competitività e rimanere sul mercato. Così l’azienda si salva, ma il profitto dell’imprenditore diminuisce comunque, perché sarà necessario pagare non solo gli operai del terzo mondo, ma anche chi li organizza lo- calmente nel paese estero, chi li coordina, moltiplicando centri decisionali da retribuire a carico di una torta di valore aggiunto che spesso rimane la medesima, essendo identici i mercati di sbocco. Delocalizzando, l’azienda salvaguarda in parte la propria posizione relativa, e la parte dell’orga- nizzazione rimasta in Italia, che altrimenti si sfalderebbe anch’essa. Tuttavia il trasferimento della produzione all’estero, pur come scelta obbligata, si

tira dietro un impoverimento per tutta la società, che perde organizza- zione e abilità.

Dopo alcuni decenni, sembra che nel complesso la globalizzazione non abbia giovato alle economie occidentali, e alla loro organizzazione sociale complessiva. Ripetiamo che la struttura economica di molti paesi occidentali è diventata così troppo piccola, nonostante l’efficienza azien- dal-tecnologica di cui al par. 3.3, per sostenere la sovrastruttura politico sociale, con riflessi sul un ceto medio, inevitabilmente sempre più proleta- rizzato; gli effetti della globalizzazione devono essere ancora recepiti nelle istituzioni internazionali, dove Cina, India, Brasile sono (ancora) esclusi dal G7; è quindi solo questione di tempo la formalizzazione della perdita di peso anche politico dell’occidente; quest’ultimo, esposto a una concorren- za produttiva molto forte, dovrebbe reagire con ricerca scientifica e sue nuove applicazioni tecnologiche. Serve a poco competere sui costi, tra cui i salari degli addetti alle produzioni “non delocalizzate”, ovvero attingere alla disponibilità di lavoratori migranti, per i quali una modesta retri- buzione è competitiva rispetto a quanto potrebbero guadagnare nel pae- se di provenienza; una parziale alternativa alla delocalizzazione è insom- ma l’importazione di manodopera a basso costo; tuttavia i costi sociali di migrazioni molto più ampie, e le connesse difficoltà di integrazione sono un esempio di esternalità negativa (par. 4.4); è un tema che coinvolge enormi variabili demografiche sulla natalità comparata e il suo controllo, ambientali e geopolitiche da rinviare ad altri approfondimenti, comprese domande di fondo sul concetto stesso di socialità e di scienze sociali. Die- tro il globalismo si intravede un filo conduttore già rilevato al par. 4.12 sul comunismo, cioè una spiegazione eccessivamente “economicistica” dell’esistenza umana; c’è l’illusione che i legami di “import-export” pos- sano creare omogeneità linguistiche, culturali, valoriali e di senso della vita, come se si “vivesse per produrre” anziché “produrre per vivere”. Si trascura così la minore intensità dello scambio economico rispetto a quel- lo politico giuridico, filo conduttore del testo a partire dal par. 1.3 e 4.17 sull’Unione Europea come integrazione politica.

Nell’attesa che questi problemi vengano capiti, o comunque che le loro soluzioni, come in buona misura accade, si autoproducano senza essere neppure percepite, i governi dei vari paesi cercano di gestire empirica- mente la quotidianità. Ciò avviene in modo pragmatico, effimero e un po’ ipocrita, cioè assecondando in una qualche misura tutte le tendenze indicate sopra (con una differenza solo di combinazioni nel peso di ciascu- na rispetto alle altre). Senza rinnegare il libero commercio molti paesi

gestiscono in modo sostanzialmente protezionistico le regole doganali (su questa gestione pragmatica sembra si distinguano Cina e Stati Uniti) e quel- le sulla qualità dei prodotti esteri, in nome di esigenze di salute pubblica, o di inquinamento ambientale. L’obiettivo è avvantaggiare indirettamente l’industria nazionale, evitando le accuse di protezionismo dei partners commerciali. C’è poi il favoritismo strisciante per le industrie naziona- li, o per gli investimenti esteri nel proprio paese, facile in situazioni in cui economia pubblica e privata sono consapevoli di fare gruppo, col circolo virtuoso descritto al par. 3.15, come sta accadendo in Germania.

A parte questi palliativi, la strada maestra dell’era aziendal tecnologica, in un occidente che ormai comprende Cina, Giappone, Iran, India e sudest asiatico, è la ricerca nelle scienze fisiche, le loro applicazione tecnologica e la capacità di organizzazione sociale, interrompendo il circolo vizioso di un consumismo che produce tanto per produrre, senza che le merci abbiano sbocchi. In ogni paese, Italia compresa, ciò comporta le consuete sinergie “pubblico-privato” (il rapporto contenitore contenuto di cui al par. 2.10), per cui servono le spiegazioni scientifico sociali cui questo libro è dedicato (par. 5.6), soprattutto sulle funzioni pubbliche, la gestione amministrativa dell’economia e della globalizzazione, come elemento di concorrenzialità di un “sistema paese” rispetto ad altri. Le aziende globalizzate sono infatti “medio-grandi”, incapaci di ignorare disinvoltamente adempimenti e passag- gi burocratici, come invece possono fare artigiani e piccoli commercianti. La snellezza della burocrazia è quindi un fattore di competitività, che può anche indurre a preferire paesi con costi del lavoro, e tributi relativamente più elevati, ma tuttavia accoglienti quanto a rapporto “aziende-pubblici uffi- ci”. Questo non significa libertà aziendale di creare esternalità negative, di mettere in pericolo la sicurezza, l’ambiente, ma assunzione di responsabilità dei pubblici uffici nel valutare i costi e i benefici sociali, contemperando tutti i profili rilevanti, senza fermarsi burocraticamente alla funzione di cui sono investiti. All’economia servono cioè pubblici uffici “interventisti”, ma in modo sostanzialistico e cooperativo, senza l’impacciato formalismo di cui ai paragrafi 5.1 ss.. Quest’ultimo crea un rapporto difficile tra aziende e uffici pubblici (par. 3.15), e contribuisce al ristagno ormai pluridecennale del PIL.

Nel documento Compendio di scienza delle finanze (pagine 190-193)