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La “moneta” come questione di diritto tra “simbolo di cre-

Nel documento Compendio di scienza delle finanze (pagine 180-183)

Solo raramente, persino nell’era agricolo artigianale, chi era interessato a una merce disponeva di altre merci che interessavano al suo proprietario, in modo da procedere a un baratto. Magari poteva offrire una prestazione che interessava alla controparte, ma in un tempo futuro, oppure poteva offrire prestazioni che interessavano ad altri soggetti con cui la contropar- te aveva rapporti economici, oppure non poteva offrire nulla al momen-

to, ma poteva offrire in futuro. La controparte, dal canto suo, spesso ha interesse a vendere, cioè svolgere la sua prestazione, e quindi entrambi hanno convenienza a concludere l’operazione. Questo richiede però un impegno di chi nell’immediato non può contraccambiare, ma promette solennemente di farlo in futuro. Per rendere circolabile, cioè cedibile ad altri, e quindi in parole povere spendibile da parte del creditore, questo impegno, nasce la moneta. Quest’ultima sostanzialmente è il simbolo di un credito o meglio il suo pegno (pegno dell’impegno quando ha valore intrinseco, come l’oro. Attraverso la moneta il credito diventa cedibile, perché incorporato da un simbolo-oggetto, accettato come mez- zo di pagamento da altri soggetti.

La moneta cristallizza quindi un impegno, simboleggiato da un simbolo tangibile per renderlo affidabile e circolabile. Siccome il debitore poteva non adempiere al suo impegno, le antiche monete pegno avevano le sud- dette utilità intrinseche, essendo rappresentate da merci, come le sementi, il sale o gli ami da pesca, oppure da materie prime universalmente apprez- zate come l’oro, cioè un bene al tempo stesso incorruttibile e facilmente lavorabile. Mentre il sale, o gli ami da pesca, avevano anche un valore d’uso (par. 7.5), l’oro ha un minore valore di uso, rispondente più a un sogno che a un bisogno (par. 7.5 ss.); l’uso ornamentale dell’oro soddisfa infatti una vanità o una illusione, per distinguersi rispetto agli altri. Con l’oro, simbolo di credito, gli individui mostrano agli altri di avere credito, cioè mostrano il proprio valore, un po’ come gli antichi dignitari africa- ni rivestiti di pelle di leopardo. Neppure tutto l’oro del mondo potrebbe però comprare un pezzo di pane, se nessuno lo produce, come conferma il mito di Re Mida e l’avvertimento degli indiani d’America all’uomo bianco sull’impossibilità di “mangiare i soldi quando l’ultimo bisonte sarà stato uc- ciso, l’ultimo prato bruciato e l’ultimo fiume avvelenato”. Anche per l’oro, valgono le riflessioni di cui al paragrafo 7.6, sulla dipendenza economica del valore dal reddito. La garanzia degli impegni dei debitori nel loro complesso non è infatti rappresentata dal simulacro dell’oro, ma dall’atti- vità economica complessiva (sulla giustificazione dei valori patrimoniali in base ai redditi, cioè al livello generale di benessere economico, sopra par. 7.6 appena citato).

L’oro era solo un simbolo che durava nel tempo con un valore condi- viso presso tutte le popolazioni dell’era agricolo-artigianale, ma conferma che la moneta, come il lavoro, non è una merce, ma uno strumento per misurare redditi, debiti e crediti.

La suddetta creazione della moneta seguì processi spontanei, creati empiricamente dagli operatori economici privati, ma vi si inserirono rapi- damente le istituzioni (pubblica autorità), come contenitore dei rap- porti privati secondo quanto indicato al paragrafo 2.11. La moneta, in altri termini, “nacque privata”, ma venne rapidamente formalizzata e re- golata dai poteri pubblici, diventando quindi sotto molti profili una “que- stione di diritto”. Da una parte infatti gli uffici pubblici gestiscono i poteri coercitivi per garantire gli impegni dei privati attraverso la funzione di giu- stizia. Dall’altra, appositi uffici pubblici regolamentarono necessariamente la moneta-credito, sia come stato regolatore (par. 4.14), sia come in- tervento pubblico, aumentando la massa monetaria in circolazione, per sostenere le proprie spese o indirizzare l’economia privata. Già nell’an- tichità questa tendenza emergeva nella diminuzione della quantità di oro nelle monete, con cui l’impero romano del terzo secolo, ormai sulla difen- siva, sosteneva la difesa militare (vedi il paragrafo 8.3 sull’emissione di moneta come fonte di finanziamento per le spese pubbliche). Si vedono già i segni del pubblico potere come prestatore di ultima istanza, emittente di “moneta pubblica”, di cui diremo anche al paragrafo successivo.

Dalla “moneta merce”, all’oro come moneta pegno, il passaggio alla carta moneta è abbastanza facile da comprendere: la moneta nacque come impegno di una istituzione qualificata (statale o bancaria, comun- que di elevata reputazione) a corrispondere una determinata quantità di oro. Era questo il senso dell’espressione “pagabili a vista al portatore”, rimasta impressa sulle banconote in lire, anche dopo che l’antica convertibi- lità in oro era svanita. La moneta come “pegno di un credito” veniva quin- di accettata quando il credito era verso un soggetto “solvibile” (banche), che deteneva oro in deposito ed essendo ritenuta in grado di restituirlo a richiesta, era credibile se emetteva “impegni circolanti”, cioè la suddetta “carta moneta”.

Tale convertibilità (gold standard) svanì, nei fatti, ai primi del nove- cento, e le banconote iniziarono ad essere semplicemente un impegno della banca centrale, che batteva per conto dello Stato fogli di carta ormai diventati debito pubblico. Ormai la moneta non circolava perché valeva, essendo priva di valore rappresentativo dell’oro, o di altre “monete merci”, ma valeva perché “circolava”, venendo accettata in pagamento. Per questa accettazione di una moneta politica diventa quindi fondamentale la fiducia nello stato emittente e quindi la sua credibilità. Le banche compre- sa la banca di emissione, un tempo la banca d’Italia, oggi la Banca centrale

Europea (par. 7.12),non sono più depositarie di oro, ma anch’esse di mone- ta politica cioè di crediti verso uno o più stati, ovvero verso debitori solvibili. Nello schema generale dell’emissione di moneta (salvo il caso dell’Euro su cui par. 7.12) lo stato, per il tramite delle banche centrali immette mo- neta politica nel sistema economico. Se questa politica monetaria è troppo espansiva, finanziando consumi a debito, senza creare redditi, cioè utilità sociale, ne deriva una perdita di credibilità. L’effetto è un aumento dei prezzi (inflazione) accompagnato spesso anche da una svalutazione rispet- to alle altre valute, come indicato al successivo par. 7.10. In questo caso, e in questa misura, l’espediente di stampare moneta in periodi di crisi ha l’ef- fetto di una imposta su quanti vedono diminuire il valore della moneta precedentemente in circolazione. Così come gli antichi sovrani “tosavano” le proprie monete metalliche, riducendo la quantità d’oro per fronteggiare le spese o trarne profitti, lo stesso accade con l’emissione di moneta per coprire i disavanzi pubblici.

La moneta politica non è quindi garantita dalle banche centrali che la emettono, ma dagli stati (o dalle unioni di stati come l’unione europea) per cui tali banche la emettono; appare quindi chiaro che il fantomatico “signoraggio bancario”, di cui si parla su internet e nei talk show, è una colossale suggestione, che citiamo solo come ulteriore indizio delle macro- scopiche carenze di formazione e riflessione in materia.

È appena il caso di rilevare che la moneta può quindi essere demateria- lizzata, sostituendola, come “debito-credito”, con una mera annotazione nelle scritture contabili delle banche, con badges, ricariche e microchip da strisciare in strumenti elettronici che “tolgono credito” a un soggetto, attribuendolo a un altro.

Nel documento Compendio di scienza delle finanze (pagine 180-183)