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L’Euro come esempio di “moneta sovranazionale”

Nel documento Compendio di scienza delle finanze (pagine 193-199)

Anche l’Euro, oggi oggetto di molte discussioni, è una “moneta poli- tica”, nei termini generali indicati al paragrafo 7.7, ma comune agli stati

aderenti al relativo trattato, cioè quelli dell’Unione, meno Svezia, Nor- vegia, Danimarca, Polonia, Ungheria, repubblica Ceca, Romania, Bulgaria, Croazia, Gran Bretagna, forse in uscita anche dalla UE.

Aderire all’Euro ha varie conseguenze, a partire dall’impossibilità di svalutare unilateralmente, da parte di uno stato aderente, una moneta co- mune e anche quella di “emettere” moneta comune senza limiti, facendo nuovo debito pubblico. Se è estremamente gradito, ed accettato, come indicato anche al par. 8.3 sul debito pubblico, il debito di uno stato, a maggior ragione lo è quello di un’unione di stati, come quelli del trattato Euro. Siccome però la fiducia che può creare uno stato è limitata, il trattato Euro vieta giustamente che uno stato si indebiti grazie alla fiducia creata dagli altri paesi aderenti al trattato: se la moneta è comune, la fiducia è comune, e nessuno dei paesi membri può battere moneta propria, perché altrimenti monetizzerebbe e spenderebbe a suo favore, anche la credibilità degli altri. Il limite al debito pubblico, rappresentato dalla ricchezza che può creare la collettività di cui un determinato potere è espressione, si applica anche all’intera area Euro. Solo che se i debiti di uno stato aderente sono clamorosamente eccedenti i redditi che i suoi cittadini producono, o possono creare, la stabilità della moneta comune grava sugli altri paesi aderenti; è una situazione che in sintesi si potrebbe estremizzare col rischio che alcuni “creino credito” e altri lo monetizzino. I singoli stati hanno quindi dovuto rinunciare a mettere in circolazione le proprie pro- messe di pagamento (monete), e quindi interrotto la possibilità di creare unilateralmente domanda a debito, con emissione di moneta. Questa creazione di domanda a debito a fronte di moneta viene invece devo- luta alla banca centrale europea, governata da tutti i paesi appartenenti all’unione monetaria. L’emissione di moneta dipende quindi da una decisio- ne comune, attraverso la banca centrale suddetta (BCE).

I paesi che non hanno una sufficiente capacità tributaria, cioè una ric- chezza interna adeguata alle spese pubbliche che intendono sostenere, o cui ormai si trovano impegnati con i pubblici dipendenti, si vedono preclusa la scorciatoia immediata di una emissione di moneta, e della sua svaluta- zione per rendere più competitivi i propri prodotti nei modi indicati al par. 7.10. Simmetricamente, i paesi più competitivi possono evitare le rivalu- tazioni delle loro monete, che si produrrebbero senza la moneta unica. Quest’ultima cioè equivale a rendere definitivo un sistema di cambi fissi, tra valute formalmente diverse; un sistema di cambi fissi era relativamente facile da abbandonare, come fece l’Italia nel 1992, con lo SME (sistema monetario europeo), mentre la moneta unica è molto più difficile da ab-

bandonare; viene eliminato così il “rischio di cambio” dal debito pubblico dei vari stati (par. 8.3), rendendo per i singoli stati più facile indebitarsi, emettendo non già moneta, ma buoni del tesoro praticamente in mo- neta condivisa, e quindi in parte straniera; del resto molti paesi emettono il loro debito pubblico in altre valute, che poi però devono procurarsi, raggiungendo lo stesso effetto Euro, cioè di sterilizzare il rischio di cambio per i creditori.

La stabilità del tasso di cambio assicura dal rischio di svalutazione, ma non assicura dall’insolvenza degli stati debitori. L’euro non esclude cioè che uno stato membro della moneta unica, dopo essersi indebitato, sia incapace di sostenere il proprio debito, come accaduto per la Grecia. In questo caso la moneta unica non esclude il fallimento del singolo Stato (c.d. default), con le conseguenti perdite da parte di chi ha investito nel suo debito pubblico. In linea logica, il fallimento sarebbe a rigore conce- pibile anche per gli stati membri dell’euro, così come lo è per una banca, o una grande azienda, ricadendo solo sui relativi creditori. Il paragone con una azienda è calzante, perché lo stato membro dell’euro non potrebbe stampare “moneta politica” per soddisfare i creditori, in quanto abbiamo detto che questo potere è stato trasferito alla BCE. In questo lo stato è simile a un debitore privato, cui è preclusa l’emissione di nuova moneta ed è questa la lamentata perdita di sovranità monetaria. In prima bat- tuta per il fallimento del paese membro varrebbe la logica ordinaria: se i creditori, magari invogliati da tassi elevati di interesse, hanno finanziato il debitore sbagliato, si sono assunti rischi di cui è logico rispondano (è come se lo stato avesse emesso titoli in dollari, secondo la prassi indicata sopra per altri paesi). A rigore chiunque può indebitarsi e chiunque può fare credito, purchè non raccolga pubblico risparmio, attività riservata alle banche soggetta a vigilanza in quanto interferisce con la fede pubbli- ca. Non potendo emettere moneta la via normale, nella logica dell’Euro, sarebbe il fallimento. La BCE non emetterebbe nuovi Euro per salvare il paese “fallito” e le perdite ricadrebbero sui creditori, secondo il già indicato parametro del fallimento di un’azienda privata. Con la differenza che l’azienda fallita chiude, mentre un paese con milioni di abitanti non potrebbe chiudere2. Si potrebbe arrivare a una situazione in cui la stes-

sa BCE, creditrice del paese fallito, e quindi danneggiata dal fallimento, 2 Il fallimento di città, italiane ed estere, dichiarate “in dissesto”, avviene comunque col

paracadute dello stato centrale, che nell’ipotesi indicata nel testo, invece, “fallisce” in prima persona.

dovrebbe comunque passargli la moneta necessaria ai suoi affari correnti; l’alternativa è l’uscita del paese dall’Euro, con analoghi effetti per i creditori, ma le ulteriori difficoltà di finanziamento di cui al par. 8.3 per il paese indebitato. Nella difficoltà di scegliere tra le suddette alternative, le istituzioni Europee hanno adottato il palliativo dell’austerità a fronte delle azioni c.d. salvastati. Queste ultime sono finanziate dagli altri stati Euro, tendenti piuttosto a salvare i creditori di tali stati (nel caso Greco banche Franco-tedesche). Il punto fermo, per ora, è che, eliminato con l’Euro il rischio di cambio, il rischio di insolvenza (default), è variamente distribuibile tra creditori (che subiscono perdite sui crediti), altri Stati dell’unione monetaria (che finanziano i fondi salvastati) e popolazioni degli stati debitori, costretti a politiche di austerità. L’ordinario scenario dei fallimenti degli stati (ad es. l’Argentina par. 8.3) è stato complicato dall’Euro, dove la discussione degenera in quotidiani ed effimeri batti- becchi che accomunano rigoristi (definiti talvolta ironicamente austeria- ni) e sovranisti, a danno del ragionamento. Fatto sta che l’utilizzazione dell’Euro, coi velleitari obiettivi di unione politica, attraverso forzature dell’unione economica (par. 4.17), mette a rischio anche l’unificazione economica in precedenza raggiunta, come conferma il minor gradimento delle pubbliche opinioni verso l’Unione Europea, in tutti i paesi membri (e spesso per opposti motivi). Rispetto al debito greco, e di altri paesi comu- nitari, resta comunque fermo (nonostante i palliativi adottati dall’Unione) quello che indicheremo al par. 8.3, cioè che il fallimento degli stati ricade, secondo varie combinazioni, sui creditori, per i debiti precedenti, e sui debitori, per la difficoltà di ottenere nuovi crediti.

Rispetto a questo scenario, i parametri sul rapporto tra debito e PIL, o fra deficit annuale e PIL, rilevanti per gli accordi Euro, sono mere conven- zioni, in buona misura casuali, dietro le quali invece la stampa e il dibatti- to pubblico sembra vedere arcane numerologie logorandosi giorno per giorno sui decimali. Nessuno invece si chiede il senso di tali parametri, né chiarisce che il rapporto deficit-pil è poco indicativo, perché non tiene conto della quantità assoluta di debito rispetto al PIL, cioè dell’esauri- mento della capacità di credito. Se anche per miracolo un paese, con un alto debito, riuscisse per un anno ad avere un avanzo, anziché un deficit, per straordinari inasprimenti d’imposta o altre “lacrime e sangue”, avreb- be sempre il problema del debito; la sua situazione economica sarebbe molto peggiore rispetto a quella di un paese con deficit pari al debito, e che quindi comincerebbe appena a sfruttare la propria capacità di in-

debitamento. È anzi verosimile che in sede europea il rapporto deficit-pil, ignorando il debito, sia stato addirittura usato strumentalmente da chi vo- leva l’entrata dell’Italia nell’Euro; tra essi segnalo paesi, come la Germania, desiderosi di impedire che l’Italia, entrata nell’euro, effettuasse le “svaluta- zioni competitive” di cui al precedente par. 7.10.

FINANZIAMENTO DELL’ECONOMIA

PUBBLICA PATRIMONIALE E TRIBUTARIO:

TASSE, IMPOSTE E DETERMINAZIONE

DEGLI IMPONIBILI

Nel documento Compendio di scienza delle finanze (pagine 193-199)