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GOODBYE KANT DI MAURIZIO FERRARIS

Nel documento La reale novità del Nuovo Realismo (pagine 75-83)

Il 12 febbraio del 1804 moriva Immanuel Kant. Data la rag- guardevole età raggiunta dal fi losofo e il suo stato di salute, il luttuoso evento non giungeva certo inatteso. Nondimeno, sap- piamo che generò qualche imbarazzo, per esempio al suo bio- grafo Ludwig Ernst Borowski, che come religioso preferì pru- dentemente non presenziare neppure al funerale. D’altronde ci sarà stato un motivo se un uomo equilibrato come Moses Mendelssohn aveva defi nito Kant uno “che fa tutto a pezzetti- ni”. Fonti alla mano, un biografo più recente come Manfred Kuehn ha mostrato che fu proprio l’intento di minimizzare la vena illuminista del pensiero di Kant – che lo aveva portato al noto scontro con le autorità prussiane in merito al primo pez- zo della Religionsschrift – a generare e poi amplifi care a dismisu- ra l’icona che ben conosciamo del Kant innocuo: un tranquillo, abitudinario vecchietto, la cui quotidiana passeggiata veniva utilizzata dai cittadini regiomontani per regolare gli orologi.

Duecento anni più tardi, in Italia come in tutte le principali nazione europee, non sono pochi coloro che regolano ancora imperterriti il proprio orologio fi losofi co su Kant. Non stupisce dunque che nel 2004 fossero in atto gli opportuni preparativi per onorare degnamente la ricorrenza, col consueto corredo di terzepagine, edizioni, giornate o convegni di studi e relativi volumi collettanei.

In questo contesto irrompeva il volumetto Goodbye Kant di Maurizio Ferraris, che celebrava l’anniversario argomentando il proprio congedo da Kant. A qualche anno di distanza, credo non si possa negare che il pamphlet – defi nizione inevitabile benché per certi versi riduttiva – di Ferraris abbia lodevolmen- te animato il bicentenario, smarcandosi (e in parte smarcan-

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dolo) dagli inevitabili toni celebrativi e dagli omaggi dovuti. Probabilmente per questo il lavoro conserva una sua attualità fi losofi ca che resiste al tempo fi nora passato assai meglio di al- tri non imperdibili tomi prodotti dal bicentenario, di carattere appunto celebrativo.

Vorrei proporre qui una mia interpretazione dell’operazio- ne allora compiuta da Ferraris, che mi pare si possa leggere come un invito a smettere di operare il parricidio sbagliato. La modernità fi losofi ca – suggerisce Ferraris – non nasce col gesto dello sbarazzarsi di Cartesio, ma di Kant. Operazione più delicata, meno facile e tuttavia necessaria.

Provo ad articolare meglio queste rifl essioni. La centralità della fi gura del parricidio non ha bisogno di molte spiegazioni essendo resa canonica da studi di vario approccio metodologico (mitologico, letterario, fi losofi co), tra i quali svettano le giusta- mente celebri considerazioni di Freud sul disagio della civiltà. La declinazione specifi camente fi losofi ca di questa fi gura con- siste nel superamento – ormai consumato innumerevoli volte, anzi consumato tout court – del famigerato dualismo cartesiano. Si tratta di un rito ancestrale talmente consolidato presso alcuni settori della cultura fi losofi ca – non di rado francese – da collo- carsi talora nell’affollato settore in cui la noia fa a gara (e spesso ha la peggio) con la comicità involontaria. Come contare le trat- tazioni e dissertazioni di varia natura livello e genere, che pro- mettono quale ricompensa al fi do lettore capace di immolarsi nella lettura di centinaia di pagine nientemeno che la via regia al superamento del (“crasso”) dualismo cartesiano di mente e corpo? Di simili perle il mercato librario continua e continuerà senza sosta a metterne a disposizione di un pubblico al quale tale superamento deve sembrare rispondere a un’impellenza parri- cida non più rimandabile e foriera, evidentemente, di grande sollievo. Senza porre la questione esplicitamente in questi termi- ni, con Goodbye Kant Ferraris ci invita invece a riconoscere quan- to maggiormente siamo indebitati nei riguardi di Kant, al punto da non accorgercene nemmeno per alcuni aspetti. Molte idee di base di Kant sono diventate commonplace fi losofi co: e questa è una cosa sulla quale proprio chi apprezza la fi losofi a kantiana dovrebbe fermarsi a rifl ettere attentamente.

R. Martinelli - Di bicentenari, parricidi e addii 77 Alcune punte polemiche generate in occasione del bi- centenario dal polemico arrivederci di Ferraris a Kant sono rivelatrici. Si potrebbe provare addirittura, nella presente circostanza, una specie di test. Se vi sentite disturbati dalle controdeduzioni di Ferraris, ad esempio, sul paragone kan- tiano tra il fenomeno e l’arcobaleno, è il momento di tirare il fi ato. Sarà bene che non vi impegniate troppo a verifi care la tenuta delle controdeduzioni medesime, ma che spendiate un po’ di tempo a interrogarvi sul perché tali controdedu- zioni vi disturbano, perché proviate l’istinto di difendere Kant da Ferraris. Potreste accorgervi che Kant, in realtà, non ha alcun bisogno delle vostre apologie (Ferraris fraintende, non rispetta la lettera del testo, generalizza, ecc.), ma che invece siete voi a esservi riparati sotto l’ombrello kantiano (per re- stare in tema di pioggia e arcobaleno), ombrello al quale sie- te legati più di quanto non crediate. Proseguendo su questa strada potreste poi disporvi addirittura ad ammettere che il (presunto o reale) superamento del dualismo cartesiano, dal quale vi sentite immuni, coincide di fatto con un’adesione più o meno confessa e più o meno decisa al pensiero kan- tiano, che – badate – potreste avere assorbito nelle maniere e per le vie più impensate: dall’idealismo a Nietzsche, dalla fi losofi a analitica al pragmatismo di Peirce.

Si ha un bel dire infatti, Akademie-Ausgabe alla mano, che Kant non è accusabile à la lettre di quasi nulla di ciò che gli si imputa in Goodbye Kant. Il punto infatti non è se l’arsenale argomen- tativo kantiano, post-kantiano e neokantiano abbia o meno a disposizione anticorpi argomentativi capaci di accompagnare cortesemente alla porta della Kantforschung le osservazioni di Ferraris in merito all’estetica trascendentale, all’analitica, allo schematismo e via discorrendo. Naturalmente, dopo duecento anni di intensissimo lavoro ermeneutico, che ha portato alle letture più varie ed opposte del pensiero di Kant, tali anticorpi ci sono. Ma il punto è che in questo modo, volendo salvare Kant dalla mano parricida, si fi nisce anche col neutralizzare Kant al punto da renderlo oggi inservibile, anestetizzato, in- nocuo. Un tranquillo vecchietto, buono appunto per regolarci l’orologio.

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C’è invece un punto critico nell’operazione di Ferraris sul quale a mio avviso si può e si dovrebbe ancora discutere. Ferraris parla spesso della controrivoluzione copernicana, da contrapporsi alla nota manovra di Kant. E’ su questo, anziché sulle virgole della Critica della ragion pura (considerate peraltro nel contesto delle tante altre virgole dell’immane corpus kantianum), che un confronto mi sembra veramente utile e attuale. Una delle opera- zioni compiute da Kant è infatti quella dell’imporre alla fi losofi a quel bagno di umiltà che egli chiamava (un po’ pomposamente) “disciplina” della ragion pura. Ci sono cose importanti, afferma Kant, sulle quali non dovete aspettarvi nulla dalla fi losofi a. Anzi, sfortunatamente queste cose sono le più importanti di tutte. La fi losofi a non vi dirà se c’è un dio, se sopravviverete alla morte – e in quale ipotetica forma. E badate, nemmeno sulla realtà ultima del mondo il fi losofo potrà esservi di molto aiuto. In breve, su ciò che costituisce il suo più autentico “interesse” (Kant lo chia- ma così) la ragione è in scacco, gira a vuoto.

In termini architettonici possiamo dire, con Kant, che il nome orgoglioso e altisonante dell’ontologia andrà sostituito quello più “modesto” di critica della ragione. Ora il proble- ma a mio giudizio è il seguente: posto che diciamo goodbye alla critica della ragione, non ci prenderà di nuovo anche la hybris dell’ontologia, la vertigine della conoscenza dell’essere auten- tico? La controrivoluzione copernicana non si trasformerà in una Vendée philosphique che ci riporta davvero all’antico regime? Non credo che Ferraris abbia questo in mente, ma nemmeno che il problema non sia degno di essere posto e discusso.

Per parte mia, ritengo che la prima metà dell’affermazione kantiana vada tenuta ferma, mentre la seconda può anche ca- dere. La rinuncia all’orgoglioso nome dell’ontologia è ancora un esercizio salutare per il fi losofo, anche se nessuno professa più la sua sostituzione proprio con la Critica della ragione di Kant. Sia chiaro: in generale l’ontologia è un’impresa molto importante e una parte molto signifi cativa della fi losofi a, ma non nel senso ancien-régime (leggasi Wolffi ano) di metaphysica generalis. Per tacer di dio e dell’anima, il fi losofo non può dirci – a mio giudizio – nemmeno com’è fatto il mondo, cosa c’è e cosa non c’è.

R. Martinelli - Di bicentenari, parricidi e addii 79 So bene che molti ontologi non la pensano così: essi riten- gono che esista una parte dell’ontologia che si occupa di dir- ci com’è ciò che è, ma che un’altra parte dell’ontologia sia an- che autorizzata a dirci proprio what there is, cosa c’è. Ritengo però che il dissidio sia qui più apparente che reale. L’ontologo pensa, in realtà, di doversi impegnare a dirci se esistono cose singolari come numeri, unicorni o quadrati rotondi, opere artistiche (la Quinta sinfonia di Beethoven esiste, la Decima no: ma dove sta la Quinta?), buchi od ombre, e simili. Cose di cui, notoriamente, nessuno scienziato si occupa. A me tutto ciò pare signifi care che l’ontologo ci dice cosa ha senso assumere che ci sia. Mentre non credo che l’ontologo sia autorizzato a dirci per esempio se ci siano o meno delle onde gravitazionali. Di questo egli legge sui giornali (e se non lo fa, dovrebbe farlo) che riferiscono dei recenti esperimenti scientifi ci, come tutti gli altri. E credo che la maggior parte delle persone consideri fondamentalmente diverso dire se ci sono o meno onde gravita- zionali o dire se ci sono o meno, per esempio, dei buchi o delle emozioni.

A meno di pensare che l’essere autentico giaccia al di là di un mero e banale ente-essente-presente di cui favoleggia in- vece (gaia e amente, incapace com’è di “pensare”) la scien- za. Davanti a queste derive, rispetto alle quali fi losofi a non è mai vaccinata abbastanza, non mi dispiace affatto la disciplina kantiana. Il fi losofo non dice l’essere, non “fonda” le scienze, non divina destini, non profetizza futuri. Non trivella il mondo spillandone insondabili nettari. Nel migliore dei casi il fi losofo aiuta a mettere ordine nei concetti, a dirci com’è ciò che che – il Sosein di Meinong contrapposto al Sein (e al Dasein di Hei- degger) – a vedere cose che tendono a rimanere sullo sfondo, a giustifi care o smontare credenze, a rifl ettere sui fenomeni culturali come la scienza, l’arte, o la storia senza pensare di sostituirsi ad esse. L’ontologo dà un contributo fondamentale a molte di queste imprese, per nessuna delle quali si richiede invece di necessità l’adesione ai principi fi losofi ci esposti nella Critica della ragion pura o in altri scritti kantiani.

Dal canto suo, Kant pensava che alla fi losofi a spettasse di fare l’inventario dei materiali edili per vedere quale edifi cio

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ci si potesse costruire. Notoriamente, concludeva che non ce n’era abbastanza per elevare una torre fi no al cielo, ma che un’abitazione confortevole per i nostri scopi terreni l’avrem- mo potuta comunque ricavare. Se oggi ci disponiamo a dire arrivederci all’inventario di Kant non sarà certo perché qual- cuno vuole convincerci di aver trovato altrove i pezzi mancanti della Torre di Babele, magari assieme ai relativi progetti. E se ci accingiamo a farne uno nuovo, di inventario, non ci farà poi troppo male dare una scorsa al metodo che avevano utilizzato per redigere quello vecchio di duecento anni.

Pier Aldo Rovatti

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